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Donne e pace, testimoni alternative in tempo di guerra

Donne e pace, testimoni alternative in tempo di guerra

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 31 del 14/09/2024

Il pacifismo femminista anti-patriarcale e la presenza delle donne nei movimenti contro la guerra e il militarismo sono una costante in tutto il XX secolo e di questo scorcio del XXI1 .

Rappresentanza di genere nei livelli decisionali: vera svolta?

La Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, approvata il 31 ottobre 2000 e seguita da altre nove, «esorta gli Stati membri ad assicurare una maggiore rappresentanza delle donne a tutti i livelli decisionali nelle istituzioni e nei meccanismi nazionali, regionali e internazionali per la prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti». In precedenza, donne e bambini erano presentati soprattutto come vittime da proteggere nei conflitti armati.

Ma il rispetto delle vere intenzioni della 1325 è stato chiesto dal movimento Global Women for Peace-United Against Nato, fondato a Bruxelles nel luglio 2023. Ecco gli altri punti qualificanti della dichiarazione finale, tradotta in svariate lingue2 : «No alla Nato globale. No a blocchi militari sempre più armati. No alla guerra come modalità di risoluzione delle controversie internazionali. No alla militarizzazione della ricerca scientifica. No al coinvolgimento delle donne nei piani di guerra del patriarcato. No a qualsiasi "approccio di genere" nelle file della Nato».

In effetti, siccome gli stessi blocchi militari si ergono a difensori della pace e della sicurezza («guerre umanitarie», «responsabilità di proteggere»), una mera (e assai relativa) maggiore rappresentanza femminile nelle istituzioni e nei meccanismi per la prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti può anche rappresentare una cooptazione. Ben altro chiedeva alle donne 100 anni fa un appello alla diserzione di massa...

L’appello del 1924: «Donne! Voi riuscirete!»

Esattamente cento anni fa, un uomo chiede all’altra metà del cielo di fare da forza propulsiva di una diserzione di massa, in grado di fermare le guerre per mancanza di carburante umano. Il pacifista cittadino del mondo Ernst Friedrich, incarcerato al tempo della prima guerra mondiale per essersi dichiarato obiettore di coscienza, dà alle stampe Krieg dem Kriege (Guerra alla guerra). Che si apre con l’appello «all’umanità intera»3 , invito alla disobbedienza di massa da parte di madri e figli, donne e uomini così da fermare i potenti ed evitare le prossime guerre, il prodotto peggiore del capitalismo.

Dopo aver invocato lo sciopero generale dei popoli e il rifiuto del servizio militare, l’appello conclude: «E voi, donne! Se i vostri uomini sono troppo deboli, voi ci riuscirete! Dimostrate che l’affetto e l’amore per il vostro compagno sono più forti di ogni chiamata alle armi! Non lasciate che i vostri uomini vadano al fronte! Attaccatevi al collo dei vostri mariti, non lasciateli partire, nemmeno quando arriva la cartolina di precetto! Divellete i binari, gettatevi davanti alle locomotive! Se i vostri uomini sono troppo deboli, dovete riuscirci voi, donne!». Un altro modo di essere Lisistrata (in greco “scioglieserciti”), se vogliamo ricordare la notissima opera greca di Aristofane del 411 a.C.

Donne, pacifismo, antimilitarismo. Bertha von Suttner e tante altre

La saldatura fra movimento delle donne e movimento per la pace come fenomeno internazionale visibile matura soprattutto durante la Prima guerra mondiale. Nel XIX Secolo, molte donne avevano militato per i diritti femminili o per la pace separatamente. Questo mentre ovunque in Europa si formavano movimenti e associazioni pacifiste, alimentati anche dai resoconti sulle atrocità dei campi di battaglia. L’impegno per la pace non fu una priorità per le due più grandi organizzazioni internazionali di donne, l’International Council of Women (fondato nel 1888) e l’International Woman Suffrage Alliance (fondata nel 1904), rispetto ad altri argomenti urgenti come l’istruzione delle ragazze, il lavoro o il diritto di voto4 .

Ma le donne che il collegamento lo facevano erano convinte che le caratteristiche della maternità e dei compiti a questa attribuiti (nutrire, proteggere ed educare i bambini) unissero le donne attraverso i confini nazionali. Vale la pena soffermarsi su Bertha von Suttner (1843-1914), socia fondatrice delle Società per la pace austriaca e tedesca, premio Nobel per la Pace nel 19055 . Aveva scritto nel 1889 Giù le armi!, una vibrante condanna, in forma di romanzo, di ogni guerra. Uno dei libri più letti nel XIX Secolo, tradotto in 20 lingue. Bertha, che la stampa maschilista definiva «strega della pace», oltre a solidarizzare con le iniziative a favore dei diritti delle donne, si impegnò (come fece Jean Henry Dunant, fondatore della Croce Rossa) per la creazione di una Corte permanente di arbitrato, finalmente decisa nel 1899. Sentiva il pericolo di una guerra imminente e si impegnò perfino a sostenere la necessità di un’Europa unita come unico rimedio a salvaguardia della pace. Nel maggio 1914 stava organizzando l’ultimo dei Congressi mondiali per la pace, da tenersi a Vienna ma morì il 21 giugno, la settimana prima dell’attentato di Sarajevo.

La Lega Internazionale delle Donne per la Pace e la Libertà (Wilpf)

Dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, mentre la maggioranza dei movimenti femminili sostiene gli sforzi bellici dei loro Paesi d’origine, nasce un nuovo e piccolo ramo pacifista che organizza un congresso internazionale delle donne, con oltre 1100 partecipanti, all’Aia, nell’aprile 1915. Il congresso chiede fra l’altro una conferenza negoziale per la pace organizzata da Paesi neutrali (un argomento di grande attualità tuttora; l’idea del pool negoziale neutrale è stata avanzata anche rispetto alla guerra in Ucraina). Il Congresso dell’Aia dà vita al Comitato internazionale delle donne per la pace permanente, rinominato nel 1919 Women’s International League for Peace and Freedom-Wilpf (Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà; attualmente ha sezioni in 42 Paesi).

Nel suo documento di base, l’organizzazione insiste sulla «follia e orrore della guerra», esprime «solidarietà con le persone, di qualunque nazionalità, che combattono o soffrono sotto il peso della guerra», chiede la «fine del bagno di sangue e l’avvio di negoziati per una pace permanente basata sulla giustizia».

A partire dalla metà degli anni ‘20 del secolo scorso, anche altre organizzazioni femminili internazionali spostano l’attenzione verso il lavoro per la pace e sulla Società delle Nazioni, nata nel frattempo. In occasione della Conferenza mondiale sul disarmo del 1932, i movimenti femminili raccolgono circa otto milioni di firme in più di 50 Paesi per chiedere il disarmo universale. Nel periodo successivo al 1945, l’impegno va anche alla smilitarizzazione e al contrasto alle armi nucleari, nel contesto della guerra fredda. Alcuni movimenti internazionali nascono proprio nei luoghi di conflitto: è il caso delle Donne in nero, fondate da alcune israeliane a Gerusalemme nel 1988, per protestare contro l’occupazione dei territori palestinesi. Saranno attive anche nell’ex Yugoslavia.

Mairead e la riconciliazione, l’Iraq Peace Team e la testimonianza dalle bombe

Nel 1976, la nord-irlandese cattolica Mairead Maguire e la nord-irlandese protestante Betty Williams, indotte da un tragico fatto di sangue, fondano il Women for Peace (poi Community for Peace People). Otterranno il premio Nobel per la Pace per il loro sforzo controcorrente, verso una soluzione pacifica del conflitto nell’Irlanda del Nord. Diventano le leader di un movimento di massa spontaneo, per la rieducazione delle coscienze.

E molti anni dopo, nel 2013, mentre infuria la guerra in Siria, Mairead Maguire risponde all’appello proveniente da alcune religiose cristiane locali e guida a Damasco e Homs la missione internazionale Isteam a sostegno del movimento siriano Mussalaha (“riconciliazione” in arabo), che riunisce, in diverse città e villaggi, autorità religiose (cristiane e musulmane) e attivisti laici, impegnati a livello individuale o di gruppo6 . Un generoso tentativo di negoziato dal basso, anche se all’epoca perdente per via di tre fattori almeno: il fanatismo di matrice sedicente religiosa (fino allo Stato Islamico), la provenienza di gruppi armati da molti Paesi del mondo, l’interferenza dei finanziatori dei gruppi stessi.

Qualche anno prima, nel 2003, una pacifista statunitense, Kathy Kelly, ispira e guida l’Iraq Peace team7 : alcune decine di attiviste e attivisti provenienti da diversi Paesi decidono di andare a Baghdad poco prima dell’inizio dei bombardamenti anglo-statunitensi. Rimarranno per diverse settimane in un albergo sulle rive del Tigri, visitando gli ospedali e tentando di interagire con i giornalisti embedded arrivati al seguito dei carri armati. Sono troppo pochi perché si possa parlare di un tentativo di interposizione. Devono limitarsi a un ruolo di testimonianza, ma telefono e Internet sono fuori uso. Rimane l’intento di ribellarsi: recarsi fisicamente nei luoghi aggrediti.

Appello alla diserzione oggi

In Israele, è diretto da due donne, una palestinese e una israeliana, il movimento pacifista Combatants for Peace (Combattenti per la pace)8 , fondato nel 2006 da alcuni ex soldati e militanti armati che dopo un ruolo attivo nel ciclo di violenza hanno deciso di lavorare insieme per promuovere una soluzione pacifica del settantennale conflitto, con l’azione non-violenta. Fanno parte di quella risicata ma attiva minoranza (comprendente anche gli obiettori al servizio militare o refusnik e diversi altri gruppi) la quale anche dopo il 7 ottobre 2023 (attacco di Hamas) sostiene che con la violenza non si arriva a nulla. L’obiettivo di questo e altri movimenti è «promuovere una comunità binazionale sempre più ampia di attivisti israeliani e palestinesi accomunata dalle stesse motivazioni di riconoscimento reciproco, radicale cambiamento del paradigma dominante fino a ore e armonica coesistenza per il futuro». Perché, come dicono i loro cartelli, «war has no winners».

Ucraina e Russia: nei due Paesi, una nuova forza senza violenza e imprevista avrebbe potuto davvero mettere in difficoltà quella guerra, la cui tipologia richiede la presenza di un gran numero di soldati (a morire) sul campo. Le donne che hanno congiunti al fronte hanno cercato di organizzare attraverso gruppi social proteste pacifiche nelle strade, con cartelli e figli al seguito, chiedendo la smobilitazione. In particolare, le ucraine volevano scongiurare la controversa Legge sulla mobilitazione destinata a compensare la morìa di truppe al fronte. Purtroppo la legge è passata, cancellando una clausola che avrebbe permesso il ritorno a casa per chi era in prima linea da molto tempo9 . Anche in Russia, un pur piccolo numero di donne ha chiesto il ritorno dei congiunti e l’invio al fronte dei soli volontari.

Dall’isola più militarizzata le proposte più concrete

Sardegna: il progetto Warfree10, un marchio etico che promuove prodotti locali, valorizza le imprese ecosostenibili ed etiche dell’isola in maniera da facilitare lo sviluppo di un solido tessuto economico solidale, creatore di lavoro e reddito puliti, in contrasto con l’industria bellica, nel caso specifico la fabbrica di bombe Rwm a Domusnovas. È l’idea dell’alternativa territoriale, più che della conversione delle singole aziende. Le donne hanno molto a che vedere con questo movimento che salda la lotta contro le produzioni di morte e il lungo impegno decennale soprattutto al femminile per uno sviluppo ecologico e socialmente equo.

Né si può dimenticare il ruolo essenziale delle donne nella rivolta di Pratobello (Orgosolo) del giugno 1969. La popolazione disarmata schierata contro la realizzazione di un poligono militare. Uno dei punti più riusciti delle lotte antimilitariste. Là lo Stato si è dovuto fermare. 

Note:

1. Se le guerre e il militarismo sono sempre stati portati avanti da uomini, non possiamo ignorare la biografia bellica di un buon numero di donne, in particolare quelle arrivate al potere. E a livello di militanza, non tutti i movimenti femministi hanno messo l’attivismo per la pace al primo posto. Nemmeno in tempi recenti.

2. Sul sito www.womenagainstnato.org

3. Ernst Friedrich, Guerra alla guerra, Mondadori, 2004.

4. Annika Wilmers, International Women’s Peace Movements, Encyclopédie de l’histoire numérique d’Europe, Università della Sorbona, Parigi (https://ehne.fr/en/node/21308/printable/print)

5. Michele Boato, Nonviolenza in azione, Gaia edizioni, 2023.

6. Marinella Correggia, Siria. Mussalaha contro musallahin (I puntata), 7 maggio 2013, su www.serenoregis.org.

7. Marinella Correggia, Si ferma una bomba in volo? L’utopia pacifista a Baghdad, Terre di mezzo, 2003.

8. Daniela Bezzi (a cura di), Combattenti per la pace. Palestinesi e israeliani insieme per la liberazione collettiva, Multimage edizioni, 2024

9. Alessandro Marescotti, Passa la legge beffa, donne ucraine in lacrime: nessuna smobilitazione per i soldati al fronte dal 2022, 11 aprile 2024, peacelink.org

10. Marinella Correggia, Coltivare la pace. Chi e come (nella monografia Decrescita, il nuovo nome della pace), Quaderni della decrescita, maggio 2024.

Marinella Correggia è giornalista, saggista e attivista per la pace e per la lotta al cambiamento climatico. Da decenni si occupa di campagne contro le guerre e di azioni per la riconversione ecologica e il rispetto dei viventi.

*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza 

 

 

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