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Chi finanzia il terrorismo islamico

Chi finanzia il terrorismo islamico

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 1 del 11/01/2025

Sulla via di Damasco, ex terroristi di gruppi già affiliati ad al-Qaeda si sarebbero convertiti alla tolleranza alla fine del 2024, grazie al loro arrivo al potere in Siria? Alla testa dei suoi uomini, il capo di Hayat Tahrir alSham (Hts), Abu Mohammed alJulani (era il nome di battaglia di Ahmed al-Sharaa), indossata la cravatta, tolto il turbante, accorciata la barba, sostiene di aver rinunciato alla jihad globale e lancia messaggi peace and love alle “minoranze” religiose in Siria. Una speranza anche su altri scenari o un inganno universale?

La svolta con la quale Hts cerca di accreditarsi – peraltro non condivisa dalla “base”, a giudicare dalle notizie di violenze e delitti, in particolare contro alauiti, ex soldati governativi e supposti sostenitori del regime deposto – è stata richiesta da quegli sponsor che per tredici anni hanno agevolato in vario modo i gruppi islamisti in Siria, a seconda delle convenienze chiamati “ribelli” e perfino “rivoluzionari” oppure “terroristi”. Quali sponsor statali? Eccoli: Turchia, Paesi del Golfo, Usa e Israele. A pari merito, secondo il Partito comunista turco Tkp.

Con il nome in codice Timber Sycamore, la Cia statunitense e i servizi degli alleati del Golfo portarono avanti per anni un programma segreto di fornitura di armi e addestramento dei gruppi antigovernativi in Siria; finché non ci si accorse che molto finiva nelle mani dello Stato islamico o di sigle affiliate ad Al-Qaeda. Del resto i gruppi terroristici avevano firmato, nel 2014, un patto di non aggressione con l’opposizione moderata o islamista; il nemico comune era il regime di Damasco. Sul lato della Turchia, l’Associazione per la pace di quel Paese, sanzionata dal governo di Erdogan, documentava il ruolo di quest’ultimo nell’agevolare fin dal 2012 il transito attraverso la frontiera turca di migliaia di combattenti islamisti da moltissimi Paesi, anche occidentali: i famigerati foreign fighters. Diversi Paesi hanno fornito quanto meno legittimazione politica ai gruppi armati. Dal canto suo, il ministro degli esteri francese Laurent Fabius si spingeva a dire: «Poi in Siria c’è Al-Qaeda che fa un buon lavoro» (contro il governo Assad).

Dopo il 2016 i jihadisti si sono concentrati nel Nord-Ovest siriano. A Idlib, sotto l’ala turca e con il denaro in particolare del Qatar, Hts ha assunto un ruolo di governo (islamista). La storia di al-Julani inizia quando dalla Siria, suo paese d’origine, si trasferisce in Iraq dove si unisce ad Al-Qaeda (la parte terroristica della “resistenza” all’occupazione Usa); è seguace di Ayman al-Zawayiri. Incercato per alcuni anni dagli Usa a Camp Bucca, conosce Abu Bakr al-Baghdadi, che fonderà lo Stato islamico in Iraq (Isi) intorno al 2006, come successore di al Qaeda. Nel 2011, al-Baghdadi manda al-Julani in Siria con altri, per reclutare combattenti e costituire cellule terroristiche, contro le truppe siriane e i loro alleati iraniani. Il 23 gennaio 2012 viene annunciata la formazione di Jabhat al-Nusra li-Ahl alSham, più conosciuto come Fronte al-Nusra, che diventa un gruppo combattente importante. Nell’aprile 2013, al-Baghdadi annuncia che il Fronte al-Nusra è un’estensione in Siria dell’Isi iracheno e che i due gruppi si stanno fondendo per creare lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis o Isil). Ma al-Julani nega e fa atto di obbedienza ad Al-Qaeda, rendendo al Nusra il suo ramo siriano. Nel 2016, rescinde questo legame e rinomina il gruppo prima Jabhat Fatah al-Sham e poi, nel 2017, Hayat Tahrir al-Sham. Rimaneva una taglia da 10 milioni di dollari sulla sua testa, e su Hts l’accusa di gruppo terroristico. Tutto lavato via dalla conquista di Damasco.

Stato islamico e circoli viziosi fra guerre e terrorismo

Negli ultimi 25 anni il terrorismo di «matrice islamica» è diventato uno dei fenomeni più gravi nello scenario internazionale, apparentemente sfuggendo a ogni logica e ragione. Nell’immaginario collettivo, lo Stato islamico (o Daesh) rimane l’emblema del terrore assoluto, contro le minoranze etnico-religiose, le popolazioni assoggettate, gli avversari militari sul campo e i testimoni indesiderati. Milioni di sfollati e rifugiati. Distruzioni e immiserimento.

Il suo temibile percorso, come quello di Al-Qaeda (nata ai tempi della guerra dei mujiaidin in Afghanistan) non è affatto concluso. Cresciuto in Iraq, si allarga in Siria e nel giugno 2014 dichiara l’istituzione del Califfato nei territori conquistati in Iraq e in Siria, con lo scopo di estendere la propria autorità su tutte le terre abitate da musulmani. Diventa la realtà para-statale di matrice terroristica più consolidata nella storia recente (post 11 settembre 2001). Sviluppa una strategia mediatica terrificante capace di attrarre le nuove generazioni della militanza jihadista internazionale.

Oltre a diversi attentati terroristici fuori dalle aree controllate (Parigi, Bruxelles, Tunisi), lo Stato islamico tenta un’espansione territoriale. Con corto circuiti indicativi. Si pensi alla Libia. Nel Paese nordafricano, totalmente destabilizzato dalla guerra del 2011 condotta dalla Nato a fianco di cosiddetti “ribelli” islamisti e razzisti (si pensi alla deportazione di tutti i cittadini di Tawergha, la città dei libici di origine sub-sahariana), arrivano verso il 2015 “volontari” di ritorno da Iraq e Siria. Il Califfato islamico arriva a controllare Sirte, Derna, Bengasi e il Fezzan. Suscitano sgomento le notizie di atrocità, come la decapitazione di lavoratori edili cristiani (egiziani e un ghanese). E suscitano domande le lunghe colonne di fuoristrada fiammanti color deserto, con la bandiera nera: chi li finanzia?

Dal 2017 l’esperimento della statalizzazione operato dallo Stato islamico collassa, in Siria, in Iraq, in Libia (tre Stati che si erano costruiti su un panarabismo laico). L’entità perde progressivamente i territori controllati grazie a offensive congiunte di eserciti locali e forze internazionali. Ma, dotandosi di strutture regionali coordinate da una leadership centrale, l’organizzazione risulta tuttora attiva in Medio Oriente, Asia e Africa. Là, le branche locali di Daesh quanto di Al-Qaeda continuano a espandere le aree di operazione, cooptando rivendicazioni etnicoterritoriali quanto disagi individuali. Si pensi all’Africa.

Africa, un continente invaso

Con la fine della Libia laica di Gheddafi (2011) a fare da freno, cellule jihadiste e gruppi terroristici hanno preso ulteriore slancio soprattutto nel Sahel, ormai teatro di un conflitto esteso e una delle regioni più instabili del mondo.

A Boko Haram in Nigeria, una delle organizzazioni più letali e presenti da tempo, si sono aggiunti il cosiddetto Stato islamico nella provincia del Sahel (già Stato islamico del grande Sahara), e una ormai radicata presenza di gruppi affiliati ad AlQaeda, come il Gruppo per la salvaguardia dell’islam e dei musulmani (Jnim). Accade in particolare nell’area delle “tre frontiere”, quelle fra Burkina Faso, Mali, Niger. I terroristi fanno stragi nei villaggi e fra i soldati e i volontari, in una guerra che adesso prevede anche il ricorso ai droni, su entrambi i fronti. Salto tecnologico che comporta l’estendersi delle aree infestate, a comprendere le boscose zone di confine con i Paesi costieri (Benin, Togo, Costa d’Avorio, Ghana). Il fenomeno si intreccia con l’operato di gruppi armati con rivendicazioni di matrice etnica e locale.

La minaccia ha da tempo raggiunto l’Africa orientale e centrale. In Somalia, fanno stragi i kamikaze dei gruppi al-Shabab, affiliati allo Stato islamico. In Mozambico dal 2017 nel silenzio del mondo terroristi ugualmente richiamantisi allo Stato islamico attaccano e uccidono comunità, villaggi, città, nella regione settentrionale di Capo Delgado.

In Congo Rdc, in una guerra perenne che ha anche tanto a che vedere con il controllo delle risorse, operano lo Stato islamico della provincia dell’Africa centrale ma anche, così come in Uganda, le Adf (sedicenti Forze democratiche alleate), che secondo una ricerca dell’Onu hanno ricevuto sostegni finanziari dallo Stato islamico, attraverso un sistema finanziario tortuoso. Follow the money.

Una lunga storia dimenticata?

I terroristi. Le loro vittime (Stati e comunità). Le loro modalità di finanziamento. In Siria nella lunga, sfibrante guerra per procura, e in Libia durante i bombardamenti della Nato, si è ripetuto il copione afghano di decenni fa, ammesso dalla stessa Hillary Clinton da segretario di Stato Usa: «Abbiamo aiutato a creare il problema, armando e addestrando in funzione antisovietica i mujaidin in Afghanistan». Per tutti gli anni 1980, nel Paese asiatico erano confluiti, anche con il denaro del Golfo, “volontari” da tanti Paesi che poi, tornati a casa, si dedicavano ad abbattere governi non islamisti. Si pensi alla sanguinosissima guerra in Algeria, nel “decennio nero” dal 1992.

Ma nello stesso Afghanistan, tornato nelle mani dei talebani, e in Pakistan è tuttora attivo l’Afpak (Stato islamico della provincia Khorasan). E branche che si proclamano affiliate all’Isis compiono attacchi terroristici in Russia.

E la domanda centrale rimane: come si finanziano, a parte i saccheggi? La risposta farebbe parte della – certo laboriosa – soluzione.

Marinella Correggia è autrice e giornalista, ecopacifista, volontaria per la giustizia internazionale. Fra i suoi libri: "Si ferma una bomba in volo?" (Cart'armata). "La rivoluzione dei dettagli" (Feltrinelli), "lo lo so fare" e "Cucinare in pace" (Altreconomia). 

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