
Gaza e i vescovi italiani: la guerra, il silenzio e la parola
Tratto da: Adista Notizie n° 23 del 14/06/2025
Tre sono le parole che la tradizione cristiano-cattolica ha saputo esprimere sulle guerre. Da Agostino viene una teoria della “guerra giusta”, che fonda il diritto dei popoli alla autodifesa. Dai papi del ‘900, però, ci viene una definizione di “inutile strage” della guerra come manifestazione dell’umana irrazionalità. Infine, da papa Francesco è venuto il richiamo a non parlare mai di “guerra santa”. Se la giustificazione della guerra è una questione complessa, la sua santificazione è sempre un peccato. Le parole forti con cui Francesco ha commentato, negli anni del suo pontificato, la Prima guerra mondiale restano indimenticabili e profetiche.
Tutta questa tradizione potrebbe suggerire ai vescovi italiani il compito non aggirabile di prendere la parola sulle stragi che a Gaza si stanno consumando ormai da troppi mesi. Una posizione autorevole, espressa nei confronti delle autorità di Israele, potrebbe aiutare a impostare meglio la questione della “tutela dei civili”, che oggi sembra totalmente allo sbando. Una presa di posizione episcopale, tuttavia, dovrebbe certamente chiarire in anticipo alcune cose fondamentali:
a) La protesta contro un governo non è la protesta contro un popolo: criticare il governo di Israele non significa criticare il popolo ebraico. La pretesa di identificare lo stato di Israele con il popolo ebraico è il frutto acerbo di una cattiva teologia. Tanto più è escluso che si possa accusare di antisemitismo chi critica un governo che uccide impunemente dei civili.
b) Alzare la voce in difesa delle vittime palestinesi non significa dare approvazione a forze terroristiche come Hamas. Difendere le vittime di un popolo non significa spalleggiare il terrorismo o la violenza sui cittadini di Israele. Questi sono falsi ragionamenti, sofismi da non alimentare.
È probabile che questi possibili equivoci consiglino ai vescovi italiani un più facile silenzio. Tuttavia di fronte al dolore innocente tacere non è il comportamento che si addice a chi presiede alla carità. Questo per i vescovi italiani sarebbe un compito che discende dalla fratellanza tra tutti gli uomini, ma in particolare dalla “comune radice” che rende i cristiani fratelli/sorelle (minori) del popolo ebraico. Proprio a 60 anni dalla Dichiarazione conciliare Nostra Aetate (1965), forse sarebbe opportuno che la fratellanza tra cristiani ed ebrei avesse la forza della parola, della discussione, della correzione, come è giusto fare tra veri fratelli e vere sorelle, in nome di una comunione superiore.
Tra fratelli e sorelle si può discutere. Anzi, si deve discutere. Abbiamo la stessa radice, addirittura noi siamo l’olivo selvatico innestato sull’olivo buono. Proprio questa cooriginarietà non permette di tacere sulle difficoltà, su atti degni di contestazione o su parole degne di critica. Da una parte come dall’altra, e proprio in virtù di un riconoscimento fondamentale: «Il Sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo» (Nostra Aetate n. 4). È dunque utile discernere tra ciò che ci unisce e ciò che ci distingue.
Gesù Cristo ci lega al popolo ebraico. L’incontro tra il popolo di Dio della Prima Alleanza, da Dio mai revocata (Rm 11,29), e quello della Nuova Alleanza è l’incontro tra le Chiese cristiane e l’odierno Popolo dell’Alleanza conclusa con Mosè: un’unica Promessa che ha, secondo la felice espressione del card. Lustiger, «eredi indivisi». La lotta contro ogni tipo di antisemitismo e di antigiudaismo è una conseguenza, che assume il compito di «decostruire l’antigiudaismo cristiano».
Non dobbiamo nascondere le ovvie differenze: «La fede di Gesù ci unisce, la fede in Gesù ci divide» (Ben Chorim). Gesù per noi è il Messia: questa affermazione genera diversità nel modo di leggere le Scritture, nel modo di leggere la storia, nel modo di guardare il mondo. Le differenze non sono anzitutto errori, ma ricchezze da valorizzare.
Il contesto attuale
Questo discorso vale anche per la lettura del contesto attuale e della guerra che lo caratterizza. Il popolo ebraico ha il diritto di avere uno Stato in cui poter vivere in sicurezza e con serenità. Ma l’approccio alla teologia della terra nella tradizione cristiana non coincide con quello ebraico. La difesa, che a ogni popolo e a ogni Stato non può essere negata, è però sottoposta a un giudizio di legittimità e di proporzionalità. Non ogni difesa è legittima. Una critica forte verso l’uso illegittimo della violenza difensiva contro la popolazione inerme sorge da un esame della situazione e dal giudizio sulla avventatezza e sproporzionalità della reazione: colpire uomini, donne e bambini che cercano il cibo o che si curano in ospedale è barbarie, da chiunque venga l’azione. Si devono condannare, allo stesso modo, le centinaia di morti, feriti e sequestrati del 7 ottobre del 2023, come le decine di migliaia di morti causati da una reazione di difesa che ha perso la sua legittimità, per trasformarsi in crimine di guerra. Alzare la voce, da parte dei vescovi italiani, sarebbe un modo per far memoria di questo testo di papa Francesco: «Le diverse religioni, a partire dal riconoscimento del valore di ogni persona umana come creatura chiamata ad essere figlio o figlia di Dio, offrono un prezioso apporto per la costruzione della fraternità e per la difesa della giustizia nella società. Il dialogo tra persone di religioni differenti non si fa solamente per diplomazia, cortesia o tolleranza» (Fratelli tutti n. 271).
Andrea Grillo è professore ordinario di Teologia dei Sacramenti e di Teologia della Religione al Pontificio Ateneo “S. Anselmo” di Roma; docente di Teologia liturgica e Teologia dell’Eucaristia all’Istituto di Liturgia Pastorale “S. Giustina” di Padova.
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