
Sostenere chi costruisce ponti
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 25 del 28/06/2025
Nei tempi di conflitto, le emozioni si esasperano e il linguaggio pubblico si fa duro, divisivo. Quando si parla di Israele e Palestina, troppe volte si smarrisce la capacità di vedere la complessità: si grida, si semplifica, si giudica. Ma così si allontana proprio quella pace che si afferma di volere. Chi cerca davvero la pace non può permettersi di demonizzare una parte ignorandone l’umanità, né può restare cieco davanti al dolore dell’altra. La pace vera nasce dalla comprensione, dal riconoscimento della ferita che abita entrambi i popoli, dalla capacità di ascolto, dalla giustizia esercitata come mediazione, non come condanna.
In Italia, nei nostri spazi educativi e culturali, abbiamo il dovere di essere costruttori di ponti non complici di muri. Troppo spesso si assiste a campagne unilaterali che ignorano la società civile israeliana o riducono la causa palestinese a slogan. La sofferenza degli ostaggi, le lotte per la libertà nei regimi islamici, il dolore del 7 ottobre e quello quotidiano nei Territori: nulla di tutto ciò può essere ignorato senza perdere in umanità.
Invece di alimentare polarizzazioni sterili, possiamo scegliere un’altra via: sostenere chi, da dentro, lavora per cambiare. Israele è una democrazia imperfetta, ma proprio per questo vi fiorisce una società civile attiva, coraggiosa, resistente. Anche tra i palestinesi ci sono donne e uomini che rifiutano la violenza e cercano, spesso a costo della vita, la strada della coesistenza. Sono queste le voci che meritano il nostro sostegno.
La parola ebraica shalom non significa solo “assenza di guerra”. Deriva dalla radice sh-l-m, la stessa di shlemut – “completezza”, “perfezione”, “integrazione”. Nella Torah, shalom è benessere, prosperità, armonia: una condizione piena, non solo un compromesso tra nemici.
Nella visione ebraica, la pace non è soltanto un obiettivo politico. È un ideale escatologico, un sogno che attende compimento nella futura era messianica, quando «E trasformerai le loro spade in vomeri e le loro lance in falci; una nazione non alzerà più la spada contro un'altra nazione, e non impareranno più l'arte della guerra» (Yeshayahu / Isaia 2:4).
Che questa pace perfetta appartenga all’avvenire non la rende meno vincolante nel presente, tutt’altro.
Il Talmud considera la pace uno dei pilastri su cui si regge il mondo. Rabbi Shimon ben Gamliel insegna che: «Il mondo si regge su tre cose: la giustizia, la verità e la pace» (Pirkei Avot 1:18). Eppure, la pace può avere precedenza perfino sulla verità, quando dire la verità danneggerebbe la possibilità di riconciliazione. Interi gruppi di precetti rabbinici sono stati introdotti mipnei darkhei shalom – «per le vie della pace».
La pace non è un lusso, né un’illusione ingenua. È un impegno quotidiano, tanto pubblico quanto privato. Lo testimonia anche il concetto di shalom bayit, la pace domestica: un valore che pone la convivenza armoniosa al centro della vita familiare. Come in casa, così tra i popoli.
La tradizione ebraica ci offre un modello complesso di leadership della pace, incarnato nella tensione creativa tra Moshe e Aharon.
Moshe è la voce della verità assoluta (emet), del richiamo morale, della legge e della giustizia, anche quando è scomoda.
Aharon è il costruttore di pace (rodef shalom), il sacerdote che media, che avvicina, che preferisce la relazione alla rigidità. «Sii tra i discepoli di Aharon: ama la pace e perseguila, ama le creature e avvicinale alla Torah» (Pirkei Avot 1:12).
Come ha spiegato Rabbi Israel Lipschutz nel Tiferet Yisrael, in riferimento all’interpretazione da Avot d'Rabbi Natan (cap. 12), Aharon non si limitava a "fare" la pace nel senso di creare accordi artificiali, ma piuttosto portava o faceva emergere la pace. Anche se le due parti non desiderano la riconciliazione, bisogna faticare per persuaderle, portando consiglio e sostenedole da lontano, affinché arrivino alla pace.
Nel Talmud (Sanhedrin 6b), Aharon è paragonato a un mediatore che incontra le parti prima ancora che si rechino al tribunale, risparmiando loro la sofferenza del processo. In questo senso, la vera costruzione di pace richiede di essere Aharon dall’interno, senza dimenticare la voce profetica di Moshe.
Anche oggi, ci sono israeliani e palestinesi che incarnano queste due vie. Alcuni denunciano, altri dialogano. Tutti costruiscono. Ecco chi merita di essere sostenuto:
Le voci profetiche – come Moshe Machsom Watch: donne israeliane che ogni giorno si recano ai checkpoint per documentare, osservare, proteggere. Con la loro presenza civile e nonviolenta rendono visibile ciò che si vorrebbe invisibile: la dignità negata ai palestinesi nei passaggi di frontiera.
B’Tselem: fondata da accademici, giuristi e parlamentari israeliani, è una delle più autorevoli organizzazioni per i diritti umani. Con rigorosa documentazione denuncia le violazioni nei Territori Occupati, educando i cittadini israeliani alla coscienza critica e ai diritti umani.
ACRI – Association for Civil Rights in Israel: difende le libertà fondamentali per tutti, ebrei e arabi, cittadini e non. È una voce essenziale contro derive autoritarie e discriminazioni, un presidio democratico nel cuore del conflitto.
Le voci della mediazione – come Aharon Roots / רושֹםיש / Judur: nella regione di Betlemme e Gush Etzion, coloni israeliani e palestinesi dei villaggi vicini si incontrano, parlano, si ascoltano. Lì dove il conflitto è più vivo, scelgono di conoscersi per costruire legami umani.
Standing Together: movimento sociale e politico che unisce arabi ed ebrei israeliani, giovani e meno giovani, attorno a un’idea di giustizia inclusiva. Lottano insieme per diritti civili, ambiente, uguaglianza e convivenza.
The Parents Circle – Families Forum: famiglie israeliane e palestinesi che hanno perso figli, genitori, fratelli. Trasformano il dolore in forza costruttiva, creando spazi di dialogo e percorsi educativi per la riconciliazione. La loro voce è testimonianza vivente della possibilità di pace.
Yesh Din: offre assistenza legale ai palestinesi vittime di violenze da parte di coloni o soldati. Porta i casi nei tribunali israeliani, chiedendo che la legge valga per tutti.
La loro azione è coraggiosa, instancabile.
Ir Amim: si occupa di Gerusalemme, città simbolica e contesa. Monitora politiche che minacciano il tessuto multiculturale, promuove una visione di città plurale e giusta per tutti i suoi abitanti.
Tag Meir: rete di organizzazioni contro il razzismo, nata dopo crimini d’odio. Promuove una società più compassionevole, radicata nei valori ebraici di giustizia e solidarietà. Coinvolge cittadini religiosi e laici, ebrei e arabi.
ALLMEP – Alliance for Middle East Peace: federazione di oltre 160 ONG israeliane e palestinesi, lavora per rafforzare il dialogo, la cooperazione, l’educazione alla pace. È una rete vitale che sostiene e connette migliaia di costruttori di pace.
Green Action: organizza progetti ambientali congiunti, promuove il commercio equo, porta prodotti palestinesi nei mercati israeliani. Con piccoli gesti quotidiani, crea interdipendenza e rispetto reciproco.
Chi, da fuori, sceglie la scorciatoia del giudizio, senza vedere questi sforzi, non è né Moshe né Aharon. È solo spettatore. Ma oggi il mondo non ha bisogno di nuovi accusatori. Ha bisogno di alleati.
Chi può, spiritualmente, moralmente o economicamente, sostenga queste realtà. Non si tratta solo di carità, ma di una scelta strategica per il futuro.
Queste organizzazioni mantengono aperti canali, costruiscono fiducia, preparano il terreno per la pace. Ogni incontro, ogni iniziativa ha un effetto moltiplicatore: fa crescere la speranza.
Sostenere chi costruisce ponti significa scegliere l’umanità contro l’ideologia, la fiducia contro la paura.
«Bemakom she-ein anashim – hishtadel lihyot ish»: «Nel luogo dove non ci sono uomini (degni), sforzati di essere tu un essere umano (degno)» (Pirkei Avot 2:6).
Luisa Atzeni è ingegnere informatico, appassionata di arte e letteratura. Radicata nella cultura ebraica, ha studiato alla scuola del rav. Fabrizio Cipriani
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