
Prefazione
Tratto da: Adista Documenti n° 35 del 11/10/2025
Qui l'introduz<ione a questo testo.
Questo libro dà corpo e voce al grido corale dell’umanità femminile, da millenni schiacciata, conculcata, obbligata a recitare la parte dell’altra metà, la parte tenebrosa, materiale, inferiore, magari infida e traditrice, femminile, appunto, rispetto a quella maschile, luminosa, spirituale, superiore sempre. Siamo così abituati a questa mitizzazione dei ruoli che nemmeno ce ne accorgiamo. Eppure anche la cultura “laica”, dalla donna aristotelica, uomo mancato, a quella freudianamente invidiosa del pene che non ha, fa da controcassa alle immagini di miti religiosi nostrani, secondo cui è Eva la peccatrice, è la donna colei che cede e poi induce in tentazione, colei che tresca col diavolo, si abbandona ai sabba più o meno eroticizzati, e magari, persino morta, ritorna come “arcivampira” a succhiare il sangue degli innocenti. Non sarà un caso, infatti, se nel 1732, quando per la prima volta in Europa vengono “scientificamente” individuati dei vampiri, questi sono riconosciuti nei cadaveri poco decomposti di due donne sepolte di recente, le cosiddette “arcivampire”. E anche se le visioni non sono così truculente, nella dimensione del vissuto religioso, l’inferiorità fattuale delle donne viene sancita in quasi tutte le manifestazioni storiche delle tre religioni abramitiche. Nei vari giudaismi, cristianesimi e islamismi, a parte poche eccezioni di movimenti e gruppuscoli in odore di eresia e magari perseguitati, il potere ufficiale è quasi sempre stato nelle mani di uomini. E nel gioco di specchi tra la quotidianità umana e il mito religioso, anche in questo le figure femminili di solito sono in secondo piano: almeno nel creduto ufficiale, e sia pure con qualche distinguo, Dio è maschio.
Che fare? Le domande esplicite e implicite proposte dall’autrice richiedono risposte. Che non sono facili e non vengono spontanee, specie se uno, come il sottoscritto, è un bianco europeo, parzialmente americanizzato, ormai senescente e ancora per poco incardinato a insegnare in un dipartimento di teologia di un istituto cattolico statunitense: cresciuto, quindi, e maturato in un ambiente “naturalmente androcentrico”. Ci sono vie d’uscita?
La prima questione che questo libro discute è se sia sempre stato così. E la risposta è no.
Nella nostra tradizione culturale e nell’area che gravita attorno al Mediterraneo, la sopraffazione storica e mitizzata della donna avrebbe inizio con l’arrivo di popolazioni indoeuopee (e, nel Vicino Oriente, semitiche), di allevatori che hanno addomesticato il cavallo e sviluppato una metallurgia che offre loro un vantaggio tecnologico incolmabile sulle popolazioni di agricoltori con armi e strumenti del Neolitico. Poiché talora la storia si ripete, una situazione simile si sarebbe ripresentata millenni dopo, quando gli Europei conquisteranno e colonizzeranno quasi tutto il pianeta, a cominciare dalle Americhe. Comunque, a partire dal quarto millennio avanti l’era cristiana, a più ondate, i nuovi arrivati dalle steppe dell’Asia centrale, coi cavalli e con le nuove armi avrebbero importato e imposto anche i loro dèi, maschi, guerrieri, violenti, equivalente mitico di loro stessi, soggiogatori delle popolazioni locali.
La scrittura, e con essa l’inizio per noi della storia, comparve soltanto dopo il loro arrivo e quindi per noi la possibilità di leggere gli eventi più antichi è ridotta.
Le testimonianze che abbiamo ci descrivono l’avvento di società diverse nelle sfumature, ma solidamente guerriere e patriarcali. Uomini e dèi forti della propria mascolinità sono i nuovi modelli, destinati a durare millenni per i nuovi popoli “di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori, di trasmigratori”, come ebbe a dire, senza menzionare donne, Mussolini il 2 ottobre del ’35, annunciando la guerra d’Etiopia.
Perché la storia, tutta la nostra storia, quella che si studiava a scuola fino a ieri, e forse ancora si studia, è una storia di guerre e di uomini, con le donne al massimo ridotte al ruolo materno di crocerossine. Altrimenti,sempre, la donna, avesse o no la “faccetta nera”, è terra di conquista. La donna come la terra, la terra come la donna.
Ma è esistito un prima?
Per decine di migliaia di anni, per tutta l’età della pietra, dal Paleolitico sino alla fine, a quanto pare traumatica, del mondo pre-indoeuropeo, gradualmente soggiogato e distrutto dagli invasori, popolazioni di agricoltori senza scrittura si erano sviluppate creando i primi grandi agglomerati urbani, con poche strutture difensive. Le generalizzazioni ingannano, ma non si sono trovate sepolture di capi maschi guerrieri, con corredi di armi e di vittime sacrificali, e non sono emerse grosse differenze fra le inumazioni di uomini e di donne. Colpisce invece, a fronte di una scarsità di figure maschili, l’enorme abbondanza di statuine di corpi femminili stilizzati, con enormi seni, vulve, glutei, spesso con mani, piedi, teste appena accennati. In piedi, sdraiate, talora sedute, mute di parole, ma ricche di simboli, nelle forme, nei colori, nelle incisioni e nei disegni, sarebbero le testimonianze millenarie del “culto della Dea”.
E allora il colpo d’ala: come in tutte le rivoluzioni che hanno successo, la proposta di questo libro è di tornare in qualche modo alle origini. Origini esplicitamente mitiche e mitizzate, che dobbiamo ri-raccontare, per contrastare i racconti altri che, ripetuti per alcuni millenni, sono diventati la nostra verità. Senza cinismo, ma con occhio disilluso, l’autrice osserva che il racconto ripetuto diventa spesso creduto e quindi reale. Come sanno bene i politici di ogni partito e i sacerdoti di ogni religione, qualsiasi storia, non importa che sia credibile, basta che sia creduta – e perché sia creduta, va ripetuta, fin che diventa una tradizione acquisita e consolidata. Lo abbiamo visto e lo vediamo nella cronaca recente. Perché allora, non raccontare e raccontarci le storie antiche della Dea?
Come tutte le idee umane che, anche quando sono sconfitte, non scompaiono completamente, ma riemergono carsicamente nei nuovi contesti, la Dea uccisa non è mai morta completamente. I frustoli di lei si ripresentano nei paganesimi classici come nelle religioni abramitiche, con aspetti e figure femminili che rispondono a necessità archetipali non solo delle donne, che hanno continuato a vivere in un mondo di uomini, ma anche di quegli stessi uomini che, nella loro realtà più profonda e a volte inconfessata, dalle donne pur sempre dipendono, a partire dalla loro stessa esistenza. Antiche e nuove dèe, vergini e peccatrici, vittime e persecutrici, hanno continuato nei millenni a tramandare presenze femminili, insieme desiderate e temute, nei grandi miti che per un verso sono il frutto della nostra cultura e per altro stanno alla base della stessa, in un continuo interscambio tra realtà vissuta e mondo ideale che tale realtà giustifica. E questo libro scava dunque nel tempo, dalla preistoria al presente dei media, a cercare e raccogliere i frammenti mitici della Dea, la Grande Madre, il cui culto sovrano avrebbe permesso e potrebbe permettere una società più egualitaria.
Il mito dell’età dell’oro? Esattamente questo, ma non nei termini ventilati qualche mese fa dalla retorica dell’ultimo presidente statunitense, quant’altri mai costruttore di miti androcentrici, pericolosamente in grado di influenzare opzioni politiche e sociali a livello planetario. Si tratta di riscoprire il vero mito, se un mito può essere vero, di una vera età dell’oro, sotto lo sguardo materno, benevolo, femmineo, misericordioso della Dea primordiale. Nella speranza che il passato mitico possa ritornare come futuro più umano. Ma perché avvenga, bisogna crederci.
L’autrice, donna anche lei, naviga attraverso questo ventunesimo secolo cristiano, il cui primo quarto trasuda sangue e testosterone, con un sogno coraggioso e un progetto culturale. Se guardiamo alla cronaca politica, nostrana e internazionale, in cui “chi l’ha dura la vince”, il mondo sembra ricadere periodicamente alla mercé dei fascisti perfetti, coi loro libri e moschetti, e dei vari celodurismi del ventesimo secolo, mentre le poche donne emergenti hanno o comunque devono mostrare più pelo sullo stomaco dei loro corrispettivi maschili.
Né induce a sperare la costatazione che non ci furono meno guerre quando le piccole italiane sfilavano intruppate o si davano premi e onori alle madri di decine di figli e nemmeno quando l’Europa moderna vedeva sedere sui troni le varie Caterine, Marie, Vittorie, Elisabette... E il punto, secondo l’autrice, è proprio questo: mascolinizzare le donne non serve. Le Semiramidi sono state storicamente poche, ma non migliori dei molti Sardanapali. Il potere a cui siamo abituati fagocita il gender di chi lo esercita – anche, aggiungerei, nei casi in cui la persona al potere non si riconoscesse in uno schema binario di opposizione maschile e femminile.
Il ricorso cosciente al mito della Dea e alle sue implicazioni può aiutarci a costruire un mondo migliore? Un mondo in cui le donne non siano terra di conquista e nemmeno la terra sia più oggetto di conquista e sfruttamento, ma di amore, affetto e, perché no, venerazione. Questo libro lo propone, come progetto individuale, per noi vivi oggi, nei nostri corpi di carne, nel nostro vissuto quotidiano, nelle nostre relazioni interpersonali, nella nostra vita affettiva e sessuale e anche, ambiziosamente, come progetto collettivo, per tutto quello che di umano esiste in noi e per quanto di salvabile esiste su questo pianeta. Tocca ai lettori e alle lettrici rispondere.
*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza
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