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Crisi della partecipazione. Qualcosa la Chiesa può insegnare alla politica

Crisi della partecipazione. Qualcosa la Chiesa può insegnare alla politica

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 40 del 15/11/2025

Stiamo vivendo il tempo della vulnerabilità della democrazia e di un parziale affievolimento della cultura dei diritti umani. Le istituzioni della democrazia liberale, nate con le rivoluzioni francese e americana e sviluppatesi e rafforzatesi nel secolo scorso, appaiono oggi sfibrate e infiacchite. Certamente esse sono state messe alla prova dal “trilemma”, l’espressione è di Dani Rodrik, cui l’iniqua globalizzazione a trazione turbo-capitalista non ha saputo rispondere. Ci riferiamo alla difficile composizione tra sovranità, diritti umani e sviluppo che ha di fatto disallineato, almeno dal punto di vista degli obiettivi perseguiti, il futuro delle democrazie da quello dell’economia di mercato, aprendo la strada a forme nuove di autocrazia (e/o democrature). Ciò che l’economista di origini serbe Branko Milanovich ha preconizzato come lo scontro prossimo venturo tra due forme alternative di Capitalismo. Uno ancora preoccupato di pensarsi insieme alla democrazia e uno più spudorato verso la concentrazione di potere e di ricchezza. Tra di essi vi è ancora forse un’unica analogia, che diventa però anch’essa terreno di scontro: l’appropriazione di meccanismi e dispositivi tecnologici sempre più predatori ed estrattivi (di risorse energetiche e ambientali ma anche umane e culturali) che determina una distribuzione sempre più diseguale con conseguente esclusione, laddove non espulsione, di milioni di persone che vivono in condizioni di marginalità, povertà assoluta e mancanza di prospettive e di futuro.

Lo scenario della nuova guerra globale nasconde in qualche maniera anche tale scontro.

All’indomani della più grande pandemia dei secoli moderni che sembrava aver fatto emergere la necessità di una nuova globalizzazione capace di governare le crisi ambientale sociale e sanitaria insieme, abbiamo assistito a una brusca inversione di rotta.

Mentre timidamente si era affermata la necessità di un cambiamento di paradigma, anche grazie al contributo del magistero sociale di papa Francesco, è emersa la difficoltà di elaborare una transizione che non fosso soltanto energetica e industriale ma anche sociale, in grado di porre in campo meccanismi distributivi e redistributivi dei vantaggi dovuti alla innovazione guidata dai grandi players globali.

La transizione verde dagli effetti asimmetrici è stata percepita da ampie fasce della popolazione come un fattore di ulteriore e potenziale fattore di disuguaglianza. Quindi qualcosa da cui difendersi insieme a una cultura “globalista” dei diritti, diventata di fatto la piattaforma di azione politica di molte élite radicali e “liberal”. Le risposte delle diverse forme di populismo e nazionalismo emerse in questi anni un po’ ovunque, soprattutto laddove si riducono gli spazi della partecipazione e dell’esercizio di una cittadinanza attiva, hanno contribuito a internalizzare nella dialettica politica lo schema della disuguaglianza proprio dell’economia, traducendolo in termini di polarizzazione e scontro permanente tra posizioni radicali, sempre più identitarie e nuovamente ideologizzate.

C’è una tendenza a non riconoscere lo spazio pubblico come spazio comune, da condividere anche se si proviene da appartenenze e da visioni differenti della vita e del mondo, e soprattutto emerge nuovamente l’istanza a concepire il potere, sovente identificato con la decisione, come qualcosa da accumulare, occupare, mai condividere né distribuire.

Abbiamo assistito, inoltre, in questi anni di drammatica crescita degli scenari di guerra, a una progressiva affermazione della forza come strumento di regolazione da imporre nelle relazioni tra gli Stati, con conseguente indebolimento delle regole e delle istituzioni che avevano popolato quello spazio giuridico globale che avevamo identificato come diritto internazionale.

Invadere un Paese senza temere le reazioni internazionali, trasformare una guerra militare in una guerra civile, rifiutare o limitare le iniziative umanitarie, per non parlare della fine di una stagione di multilateralismo nella diplomazia che cede il posto a una affermazione della forza, spesso tristemente spettacolarizzata in forme che pensavo aver lasciato alle antiche espressioni imperiali.

Di fronte a tale scenario per certi versi involutivo della globalizzazione, la via suggerita dalla Chiesa di Francesco prima, e ribadita anche da Leone XIV, è quella di una sinodalità che ritrova la sua “profezia sociale” di camminare insieme, di dialogare e ritrovare una grammatica che accomuni e che consenta un attraversamento dei conflitti, focalizzando una visione condivisa di bene comune.

La significatività del cammino sinodale è certamente misurata dalla sua attitudine di essere un reale processo concreto, che resiste all’astrattezza del formalismo e del proceduralismo, ma soprattutto tiene lontana l’autoreferenzialità e il ripiegamento verso le questioni interne della vita della Chiesa, esibendo con apparente coraggio integralismo e tradizionalismo.

Il sinodo è partecipazione, non c’è dubbio, ma è in primo luogo esercizio di discernimento, testimonianza di una fede autentica che si mostra docile all’ascolto 15 NOVEMBRE 2025 • N. 40 Adista 5 dello Spirito che anima la vita comunitaria della Chiesa. Il sinodo è ricerca di soluzioni e di decisioni che si costruiscono con un processo di ascolto e confronto, nella valorizzazione piena dei diversi carismi di servizio e di sintesi che sono presenti nella vita ecclesiale.

Anche la Chiesa ha visto, e per molti aspetti vede ancora, di fronte a sé la tentazione della disgregazione e della contrapposizione, una tentazione antica, forse inevitabile, verso la quale il Vangelo ci esorta continuamente a una conversione dello sguardo e a una ritrovata accoglienza dell’altro riconosciuto come fratello. Il Sinodo universale, ma anche il cammino sinodale della Chiesa italiana, sono ancora in mezzo al guado della Chiesa del Concilio Vaticano II che sta imparando a riconoscere sempre più le sfide della contemporaneità come un kairòs per rigenerarsi evangelicamente e spiritualmente. Essa è chiamata – come ha più volte ricordato il pontefice figlio di Sant’Agostino – a essere fermento di unità, a essere un segno di comunione che è dono da accogliere e da custodire nella fatica quotidiana e fraterna della sinodalità.

Ritrovare insieme le ragioni e gli strumenti di un percorso comune, che mette insieme, è la prospettiva del sinodo che può lanciare un messaggio oggi anche alla comunità politica: è una questione di visione e di stile che resiste alla sterile contrapposizione che di fatto paralizza ogni via possibile di ricerca di bene comune. È questa oggi la sfida anche della politica, continuamente tentata di dividersi di fronte a ogni problema e questione sociale, incapace di essere se stessa ossia discussione propositiva e realistica volta alla ricerca di azioni possibili con il massimo vantaggio per tutti, non solo per qualcuno. Per le democrazie costituzionali ciò significa ricordare il patto costituzionale e ritornarvi, ritrovare in esso la grammatica per articolare un discorso comprensibile alle nuove generazioni.

Queste, scendendo in piazza, hanno con grande forza espressiva mostrato che hanno a cuore le sfide più importanti di questo tempo e che sono disposte a giocarsi in prima persona per prendervi parte, ma non riconoscono nella politica di oggi, nel suo ceto, nella sua classe dirigente, nelle sue forme di ingaggio e nelle pratiche di reclutamento e di mobilitazione uno strumento credibile.

C’è molto da fare! E questa, tutto sommato, è ancora una buona notizia. 

Giuseppe Notarstefano è presidente di Azione Cattolica italiana

*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza 

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