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MA PRESTO O TARDI LA STORIA CI DARÀ RAGIONE

Tratto da: Adista Documenti n° 24 del 25/03/2006

Ho appreso della lettera inviata dal card. Arinze al vescovo di San Cristóbal de las Casas, mons. Felipe Arizmendi, nell'ottobre del 2005. In essa gli si comunica la "sospensione di eventuali ordinazioni di diaconi permanenti finché non si sia risolto il problema ideologico di fondo". Per ciò che in essa si espone, la sospensione si basa sull'aspetto ideologico che a giudizio di Roma riveste la formazione di questi diaconi ed è motivata anche dall'aspettativa di un sacerdozio non celibatario che, secondo quanto si afferma, è stata suscitata in maniera indebita nei diaconi indigeni. Per queste affermazioni non vi sono prove degne di fede, ma è bastata la congettura e la parola dei critici per agire contro questo processo, affermando, inoltre, che con la lettera si vuole "contribuire a risanare la vita ecclesiale… aprire la diocesi e… aiutarla ad uscire dall'isolamento ideologico". Qui vedo la gravità di questo procedimento istituzionale, che non prende in considerazione la parola indigena né rende giustizia al lungo processo dei fratelli del Chiapas. Per quanto so, i vescovi e i fedeli della diocesi di San Cristóbal hanno accettato la decisione presa da Roma e andranno avanti, non senza dolore, nella loro azione pastorale e nel loro accompagnamento delle comunità indigene della zona. Le conseguenze nelle comunità native le vedremo più avanti. Sicuramente esse, con l'aiuto di Dio, troveranno forme nuove e migliori di vivere in maniera inculturata la loro fede e il loro impegno cristiano, malgrado le restrizioni imposte.

Come è già di conoscenza pubblica, la lettera del card. Arinze non è recente, poiché è stata scritta immediatamente dopo la visita ad limina dei vescovi messicani, che ha avuto luogo a settembre dell'anno scorso. Durante questa visita alcuni vescovi del Messico non hanno appoggiato la richiesta di mons. Felipe Arizmendi di riaprire l'ordinazione di diaconi indigeni, dopo tre anni di sospensione decisi sempre sotto la pressione di quanti non sono d'accordo con il processo indigeno. Purtroppo, ha avuto più eco nei dicasteri romani la posizione contraria ai diaconi indigeni. Il risultato è stata questa sospensione provvisoria che ora i nemici della causa indigena diffondono in lungo e in largo, cercando di estendere le osservazioni di Roma a tutti coloro che fanno parte della nostra lotta indigena all'interno della Chiesa: cosa che non corrisponde al tenore della lettera del card. Arinze, che di certo, alcuni anni fa, si manifestò a favore del ruolo delle religioni tribali nella logica di salvezza in Cristo, discorso abbastanza coincidente con i lineamenti della Teologia india.

La lettera del card. Arinze a mons. Felipe Arizmendi non ha avuto per sei mesi alcuna diffusione sui mass media, poiché si considerava che fosse espressione congiunturale di una Curia romana che stava appena riprendendo le sue funzioni dopo l'elezione di Benedetto XVI; e si nutriva la speranza che tali questioni indigene fossero riprese successivamente con più calma e pertanto con altro esito. Per questo non si è visto sulla stampa alcun commento alla lettera. Ma ora l'hanno portata alla luce, estrapolando il suo contenuto, con l'intenzione evidente di utilizzarla per mettere a tacere definitivamente la voce indigena all'interno della Chiesa. Non dobbiamo permettere che questo accada per le conseguenze che avrebbe non solo per gli indigeni, ma per la stessa Chiesa, che corre il pericolo di perdere i pochi alleati strategici che le restano nel mondo, tra cui i popoli indigeni.

C'è in Messico un gruppo di persone, che si dicono cattoliche e che hanno potere nei mass media, il quale da tempo opera non solo perché venga liquidata la questione dei diaconi indigeni, ma anche perché si condanni tutta l'opera di mons. Samuel Ruiz, vescovo emerito di San Cristóbal de las Casas, che esso ritiene il maggiore colpevole della problematica indigena. Questo gruppo approfitta di tutte le occasioni che gli capitano per mettere in discussione l'opera del nuovo vescovo di San Cristóbal, mons. Felipe Arizmendi, esigendo che rinunci all'accompagnamento pastorale agli indigeni iniziato dal suo predecessore. Questo gruppo non gradiva il silenzio mantenuto sulla lettera del card. Arinze. Per questo la rilanciano ora pubblicamente con furia, volendo condannare al rogo non solo i diaconi indigeni, ma la Chiesa autoctona e la Teologia india. Essi stanno utilizzando la lettera del card. Arinze perché venga data per morta la lotta degli indigeni all'interno della Chiesa, perché accettiamo di essere stati respinti e condannati e perché non insistiamo più nel nostro impegno di inculturazione della fede cristiana. Questo è l'effetto che vogliono raggiungere in noi e in chi ci appoggia dall'interno della Chiesa.

Può essere che il risultato immediato di questo attacco persistente contro gli indigeni sia che alcune sorelle e alcuni fratelli indigeni gettino la spugna per non continuare ad essere colpiti da questa porzione della Chiesa cattolica che si sta mostrando incapace di intendere l'attuale emergenza dei nostri popoli, poiché la confonde con i fantasmi sorti dalle sue paure di classe sociale e di etnia dominante; può essere che per questo rifiuto la lotta indigena si astenga d'ora in poi dalla ricerca nella Chiesa di spazi di appoggio e di solidarietà che alcuni ecclesiastici non vogliono offrire. Può essere che alcuni fratelli indigeni giungano alla conclusione che hanno perso tempo con la Chiesa e che non vale più la pena attendere che l'istituzione ecclesiastica cambi la sua relazione asimmetrica con i popoli nativi, perché essa è più disposta a mettersi dalla parte di quanti ci opprimono e negano tutti i nostri diritti. Può essere che, con decisioni come quella di sospendere l'ordinazione di diaconi indigeni, la Chiesa effettivamente appaia a molti indigeni come chiusa al dialogo e intollerante, e rischi di perdere l'opportunità storica di stare dalla parte dei gruppi umani che lottano ancestralmente per la propria dignità e identità culturale e religiosa, appoggiandosi anche sul nostro Signore Gesù Cristo. Quanti di noi hanno assimilato nel proprio essere l'amore per il nostro popolo insieme all'amore per la Chiesa, continueranno a rivendicare in ogni modo il posto degno che ci spetta nel mondo secondo il progetto di Dio. E sappiamo che quelli che, dalla Chiesa - della quale siamo anche noi parte - assumono la causa indigena come propria, continueranno ad essere le nostre sorelle e i nostri fratelli di strada nella ricerca di un destino di vita che alcuni sistematicamente ci negano. Presto o tardi la storia ci darà ragione. Come San Paolo, diciamo oggi: "Se Dio è con noi, chi starà contro di noi? Se Egli viene in nostra difesa, chi ci condannerà?" (Rm 8,31 ss).

Gli avversari puntano anche verso la mia persona: mi tengono nel mirino i critici della Pastorale indigena in Messico e in America Latina. In conseguenza di ciò e per ordine dei miei superiori mi trovo ora recluso in una parrocchia della diocesi di Tehuantepec in attesa di un processo sulla mia ortodossia, proprio perché mi ritengono il principale promotore della Teologia india. Che avverrà se i nemici della causa india riusciranno a imporre nella Chiesa le loro decisioni? Non lo so. Solo Dio lo sa. Per quanto sia ottimista, non smetto di preoccuparmi per l'avanzata di queste posizioni intolleranti. Sembra che la paura del terrorismo porti alcuni a voler applicare nella Chiesa la guerra preventiva contro quelli che sono e pensano in modo diverso. Speriamo sia possibile sottarre la nostra Chiesa alla paura della differenza affinché la fede, la speranza e l'amore prevalgano tra di noi, giacché, come ha appena ricordato papa Benedetto XVI, "Deus caritas est".

Con fiducia in Colui che mi sostiene,

Eleazar López

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