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UN UOMO APPASSIONATO

Tratto da: Adista Contesti n° 74 del 21/10/2006

INTERVISTA A ORHAN PAMUK, LO SCRITTORE TURCO VINCITORE DEL PREMIO NOBEL, SUL COMPLESSO RAPPORTO TRA ORIENTE E OCCIDENTE.

QUESTA INTERVISTA, RACCOLTA

DA ROSA MONTERO,

È STATA PUBBLICATA

SUL QUOTIDIANO ARGENTINO “PÁGINA 12”.

TITOLO ORIGINALE: “NO SE PUEDE DEMOCRATIZAR

UN PAÍS

BOMBEARDANDOLO”

Mi lasci dire che questo “molto normali” non mi piace perché mi sa di psicanalisi.

È un equivoco che deriva dal fatto di usare una lingua, l’inglese, che non è né la sua né la mia. Intendevo dire che è qualcosa di molto comune. Ma, in ogni caso, deve essere amaro crescere proprio in questa progressiva alienazione dal contesto, in questa crescente solitudine, come è capitato a lei.

Bene, ti vai costruendo una vita da scrittore, naturalmente, e da questo punto di vista non sei più uguale a nessuno. Ma non mi sto riferendo alla vanità narcisista degli autori che si credono unici. Distinguiamo fra questo narcisismo, che non condivido e non mi interessa, e il lavoro che faccio. La maniera in cui vedo questo lavoro, il modo in cui scrivo i miei racconti, è sempre cercando quello che c’è nel più profondo dell’essere umano e cercando di portarlo in superficie, per dimostrare che tutti siamo uguali, gli uni agli altri. Sì, è vero, apparteniamo a comunità differenti e a volte in conflitto fra di loro, la comunità della moschea o del partito politico che sia, però al di là di questo siamo tutti molto simili. E per poter portare in superficie questa essenza comune bisogna scrivere al di là delle idee comunitarie, bisogna scrivere liberi da esse, a partire dal significato di base ed universale dell’umano. E fare questo non è molto comune. Da qui la solitudine dello scrittore, non perché sia un individuo speciale ed unico, ma perché deve sforzarsi di scrivere dall’esterno delle prospettive limitate delle diverse ideologie comunitarie.

E mi dica, perché è tanto suscettibile rispetto alla psicanalisi?

No, non è questo, è che la parola normale mi ha ricordato una scena di un film di Woody Allen nella quale il personaggio va dallo psicanalista, si sprofonda sul divano e dice “Ho ucciso mia madre, ho stuprato mia sorella piccola…”, sciorina un mucchio di barbarie orrende, e lo psichiatra annuisce placidamente e dice: “È molto normale, molto normale”…

Un’altra cosa affascinante del suo libro Istanbul è la riflessione che fa sulla città. Dice che è piena di amarezza per la perdita e la decadenza dell’impero ottomano, per la sensazione di sconfitta. Credo che le sue riflessioni possano estrapolarsi in un ambito generale, perché nella crescita dell’integrismo islamico credo influisca il sentimento di umiliazione delle società arabe.

L’umiliazione ovviamente è una cosa orribile, dà origine a sentimenti di vendetta, di ira, di violenza, sentimenti nazionalisti e di rifiuto verso tutti quelli che ti umiliano. Ed è molto chiaro che non si può spingere un Paese verso lo sviluppo democratico bombardandolo e uccidendo i suoi abitanti, perché questo demonizza la democrazia tanto quanto demonizza gli aggressori. Capisco questo molto bene. Ma, d’altra parte, non si possono giustificare tutti i problemi dell’Oriente con l’argomento dell’umiliazione.

Certo che no. Infatti, lei dice nel suo libro anche un’altra cosa che mi sembra molto lucida: “L’amarezza paralizza Istanbul, ma è anche una scusa per la paralisi”. E spiega che, nell’impulso verso l’occidentaliz-zazione che ha vissuto la Turchia, c’era, più che un’ansia di vera modernizzazione, un desiderio di dimenticare questa amarezza. In questo modo si sono abbandonati i valori culturali propri e non li si è sostituiti con nulla, dando luogo ad un gran vuoto. Mi sembra che anche questo sia un problema generale dell’Islam.

No, non è di tutto l’Islam, ma dell’Islam turco, perché in Turchia la repubblica moderna ha tentato di rompere con l’Islam sociale e imporre che le relazioni con il religioso si mantenessero nell’ambito del privato, individuale, sullo stile dei cristiani. E tagliando l’influenza sociale della religione, forse sono andati un po’ troppo a fondo e hanno tagliato anche le parti morali e letterarie dell’Islam. Non sarebbe stato tanto grave si fossero introdotti altri valori - l’umanesimo etico occidentale, la letteratura occidentale -, però non si è fatto e ne è nato un gran vuoto.

Giusto, ma credo che questo sia un problema generale nella modernizzazione dei Paesi islamici. Una docente algerina, appartenente all’élite progressista, mi raccontava come la sinistra del suo Paese avesse rifiutato completamente la cultura islamica, negli anni Sessanta e Settanta, per compiere il salto verso la modernizzazione, e che ora crede che questo sia stato un errore, che avrebbero dovuto piuttosto progredire dall’interno.

Non mi paragoni con gli algerini. Qual è la domanda?

Signor Pamuk, lei è uno degli intellettuali più interessanti e rispettati e la sua opinione rispetto alle difficili relazioni fra Oriente e Occidente mi interessa molto.

Suppongo che la questione sia se una radicalizzazione dell’occidentalizzazione è qualcosa di negativo. E sì, credo di sì, che può essere negativo. Si dà il caso che la mia idea di Occidente sia libertà, democrazia e diritti della donna, tre cose che l’Oriente non ha. Abbiamo altre cose. Per esempio, fraternità. Wow! Siamo grandi, siamo formidabili in questione di fraternità! Funziona bene da noi questo dettato della Rivoluzione francese. L’uguaglianza? Bene, neanche l’ugua-glianza sta tanto male, ci sono filosofi islamici dell’uguaglianza. Ma non abbiamo libertà, democrazia e diritti della donna. Il resto non mi interessa. Puoi portare vestiti orientali o occidentali, vivere in case tradizionali o no. Non mi importa niente di tutto questo. Quello che mi importa è che la gente sia libera di scegliere quello che vuole. Il problema è che, al termine della Guerra fredda, l’Occidente - specialmente gli Usa - ha avuto bisogno di individuare un nuovo nemico e ha inventato l’Islam come nemico. È un nemico che inoltre si adatta molto bene a questo ruolo, perché c’è un mucchio di Paesi non democratici e perché molti sono “arrabbiati”soprattutto a causa della questione palestinese. Ma l’Occidente è così implacabilmente potente… Guardi quest’ultima guerra, così ingiusta, così crudele, e i Paesi occidentali l’hanno approvata. Alla fine l’Occidente vincerà e tutti i Paesi saranno occidentalizzati, è inevitabile. Quello che dovrebbe aver chiaro l’Occidente è che l’Islam non rappresenta nessuna minaccia per loro. Non è una minaccia. Poi c’è il terrorismo, questo sì è una minaccia…

Anche per il mondo islamico…

Sì, ma stiamo parlando di Occidente. Succede con il terrorismo che i mezzi di comunicazione tentano di fomentare l’equivoco islam uguale terrorismo. E non è così. Se un gruppo terrorista occidentale mette una bomba, non se ne deduce che la colpa sia della democrazia… Quello che, sì, c’è nel mondo islamico è un sentimento crescente di rabbia per tutte le guerre sofferte negli ultimi anni. Sono quelle che fanno infuriare la gente, non l’idea dell’Occidente. E quanto più si parla di terrorismo islamico, tanto più si cercano scuse per legittimare più bombe e più morti.

Per questo dicevo prima che il terrorismo integralista è un minaccia anche per l’Islam. I terroristi uccidono più musulmani che occidentali.

Perché è più difficile uccidere occidentali.

Non credo sia solo per questo, ma perché l’essere umano è solito sentirsi più arrabbiato e violento contro la gente vicina che non la pensa allo stesso modo.

Oh, sì, è vero, lo so bene.

E perché l’Islam non si è evoluto verso una società più secolarizzata? Leggendo il suo magnifico romanzo Il mio nome è rosso (pubblicato in italiano da Einaudi nel 2001, ndr), si deduce che uno degli ingredienti storici che hanno influito su questa situazione è il fatto che i Paesi arabi non hanno vissuto il Rinascimento…

Questa è una visione etnocentrica che non condivido: l’Islam non ha avuto il Rinascimento e perciò è rimasto indietro… Senza dubbio, le società islamiche, Turchia compresa, non sono società aperte, e molte delle istituzioni sociali che hanno fatto dell’Europa quella che è non ci sono nel mondo islamico, sono d’accordo. Non c’è democrazia, c’è corruzione, ma da qui a dire che hanno saltato il Rinascimento molto ci manca, è totalmente paternalista!

Nell’ottobre del 2003, durante la promozione di Il mio nome è rosso lei ha detto in un’intervista: “Non partecipando alla trasformazione che si produsse con il Rinascimento, è come se il mondo orientale fosse rimasto fermo per trecento anni”.

Ah sì? Ho detto questo? Beh, sì, posso averlo detto.

Perciò, se lo dice lei, non è paternalismo, se lo dico io sì? Lei è molto sofistico, signor Pamuk, molto sofistico.

Va bene, va bene. Abbasserò il tono. E poi io non mi riferivo a lei, ma a questa semplificazione generale: “Oh, l’Islam è così perché ha perduto il Rinascimento”. È così riduttivo, semplificatore, paternalista. E poi non serve a niente andare a ritroso nella storia, a che serve?

Ma per cercare di capire perché siamo come siamo, e pertanto non ripetere gli errori e provare ad emendarli. E son d’accordo con lei, non si tratta di cercare risposte magiche o riduttive, ma di riflettere sulle possibili influenze. Come il fatto che la stampa sia stata proibita per secoli nel mondo arabo, per esempio.

Guardi, questo tipo di mentalità è troppo superficiale. Uno dovrebbe passare quattro anni a riflettere sul tema per arrivare a qualcosa. Affinché non mi dica che sono sofistico, prendiamo l’esempio di Hitler: perché è venuto fuori Hitler? Provi a spiegarmelo. Perché lei non se lo domanda?

Ma certo che me lo domando! Ogni momento. E ho alcune idee al riguardo, che adesso tralascerei. I tedeschi son decenni che se lo chiedono e cercano di spiegarlo.

Bene, ma non in un’intervista, dove le cose che dici vengono tanto semplificate che finiscono per diventare un cliché irriconoscibile

.

Perché suppone che semplificherò le sue parole? Questa è una semplificazione da parte sua.

Diciamo che quanto più si parla di Islam, impuntandosi sulla mancanza di democrazia e altro senza parlare di tutte le qualità positive che possiede, come, per esempio, la compassione, tanto più mi sento nauseato.

Mi sembra sensato e rispettabile. Allora passerò ad un altro tema. Che neanche le piacerà per l’implicazio-ne psicologica… Lei ha detto in un’intervista: “Alcuni scrittori hanno un mondo da esprimere. Altri quello che fanno è proteggere la loro vita con la scrittura. Io faccio parte di questo secondo gruppo. Per me la scrittura è una forma di terapia e ho bisogno di scrivere ogni giorno”.

Bene, non è solo terapia, ma in parte sì. Cioè, a volte mi sveglio a metà della notte e mi metto a scrivere, e lo faccio perché mi diverte, come un bambino che si mette a giocare. Dunque, c’è anche un lato ludico. Ma, d’altra parte, se a causa di un viaggio sto due o tre giorni senza scrivere, mi sento un po’ impazzire.

Sì, credo che la maggior parte degli scrittori pensino che la scrittura salvi dalla pazzia.

Da circa 35 anni porto avanti un diario, e non perché penso che la mia vita sia tanto importante da scrivere su di essa, ma perché veramente è una specie di terapia per me. E inoltre, se un giorno scrivo un buon paragrafo, ho una sensazione come di riuscita, la soddisfazione di aver fatto qualcosa di buono quel giorno.

Guardi, penso che gli scrittori siano persone che hanno avuto un vissuto anticipato della decadenza. Che, prima dei dodici, tredici anni, mettiamo, hanno vissuto la perdita più o meno traumatico del mondo infantile.

Ah, no, no, no, io ho avuto un’infanzia molto felice! (lo dice scherzando, ridendo di se stesso, in modo affascinante).

Lei racconta, in Istanbul, che la sua infanzia è stata precisametne un insieme di perdite, un modello di infanzia complicata… È nato in una famiglia ricca, ma sua padre si è affrettato ad impoverirla, i suoi genitori non andavano d’accordo e ogni tanto scomparivano, lei stesso è stato cacciato da casa a cinque anni e spedito a vivere per un certo periodo con un parente…

Non mi parli di queste cose tristi, non mi ricordi queste pene, voglio dimenticarle (di nuovo ridendo). Bene, parlando sul serio, la verità è che non so perché scrivo. Vedo i miei amici scrittori intorno a me e la maggior parte di essi ha avuto un’infanzia spaventosa, e allora mi considero meravigliosamente fortunato per quella che ho avuto… Però sì, è vero che… credo di non avere avuto una famiglia molto felice quando ero piccolo. Tutti i litigi fra mio padre e mia madre, e io e mio fratello maggiore venivano picchiati ogni momento… Inoltre, io ero il figlio piccolo e nei Paesi mediterranei è costume medievale che il fratello maggiore è sia il re e il minore una specie di servo. Però ero anche un bel bambino e venivo costantemente baciato da tutte le donne che erano intorno, le zie, le vicine, le nonne… mi facevano i complimenti… questo compensava abbastanza.

Continua a scrivere il libro sulla classe alta turca?

Sì, lo sto finendo. Uscirà l’anno prossimo. Sono contento. I miei amici dicono che è il libro per il quale sarò ricordato.

Ci pensa al fatto di essere ricordato, di passare alla posterità?

Sì, sono tanto imbecille che ci penso. Realmente ti trovi a pensare che ricordi solo pochi autori di cento anni fa, meno ancora di duecento anni fa, nessuno di cinquecento… ossia è vera idiozia aspirare a rimanere nella memoria, però non posso evitarlo. Immaginare che ti possano leggere per varie generazioni è una specie di consolazione.

Di consolazione per la morte.

Sì, è così.

Bene, abbiamo finito.

Già? Mi ha fatto piacere conversare con lei.

Anche a me, anche se, più che conversare, abbiamo discusso. Lei è un battagliero, signor Pamuk.

No, io sono molto appassionato, il che è diverso.

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