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LE SFIDE CHE LA DEMOCRAZIA PONE ALLA CHIESA

Tratto da: Adista Documenti n° 38 del 17/05/2008

La Chiesa, malgrado tutto, è più di una democrazia

Non c’è bisogno di aver vissuto a lungo per sapere che questo tema è stato tabù nella coscienza cristiana, nel senso che praticamente a nessuno capita di mettere in relazione la Democrazia con la Chiesa. La Chiesa non è evidentemente una democrazia e, soprattutto, non ha al suo interno, nella sua struttura e funzionamento, esperienza di democrazia.

Tuttavia, se guardiamo all’insegnamento e alla vita di Gesù, nessuno può mettere in dubbio che egli invita i suoi seguaci ad un radicale spirito democratico e ad una pratica dei valori democratici. Allora, cosa è successo - si chiede Andrés T. Queiruga - perché molti, troppi, possano affermare che la Chiesa non è né può essere democratica? (Latinoamerica 2007, La democrazia nella Chiesa, p. 46).

In un bell’articolo su Concilium (Critica alle democrazie attuali e cammini di umanizzazione, settembre 2007, pp. 83-97) J. Sobrino descrive le idee e gli ideali che la tradizione biblico-gesuanica apporta per umanizzare la democrazia. A suo giudizio, il Vaticano II, fedele alle tradizioni della prima Chiesa e ispirato dai migliori valori della democrazia, ha segnato una nuova direzione, definendo la Chiesa come "popolo di Dio" e dopo, a Medellín, come "Chiesa dei poveri".

La definizione "popolo di Dio" è stata ritenuta pericolosa dallo stesso card. Ratzinger, in quanto porterebbe ad una comprensione sociologica della Chiesa, e la "Chiesa dei poveri" non ha goduto di vento a favore nell’istituzione. Superando deficienze secolari, "si trattava di superare la disuguaglianza, l’autoritarismo dei signori di questo mondo, la concentrazione del potere in poche mani, l’emarginazione dei laici, soprattutto della donna, l’impossibilità di fare appello, la pretesa dell’autorità di non dover render conto... Era ed è innegabile il desiderio di una Chiesa più umana, più coerente con quello a cui ha dato vita Gesù e più simile a Gesù. Questo è ciò che era in gioco in una Chiesa ‘popolo di Dio’, con le sue analogie con il meglio della democrazia" (idem, p. 94).

È bene, pertanto, chiarire che la Chiesa non solo è e può essere una democrazia, ma che è molto più che una democrazia: "Se qualcuno continua a pensare che usare la parola ‘democrazia’ in relazione alla Chiesa può minacciare o oscurare la confessione del suo mistero, che non lo faccia mai ridimensionando l’invito di Gesù a valori di umiltà e servizio... Il cambiamento può avvenire solo alzando la posta: se non ‘democrazia’, allora molto di più che democrazia" (ibid, p. 47).

Non sarebbe giusto, in questo senso, che la Chiesa si erigesse a guardiana della democrazia, segnalando deficienze, contraddizioni e abusi che l’accompagnano, senza vivere "in casa" le migliori tradizioni che essa predica a chi sta fuori. "Se, come afferma Casaldáliga, la democrazia che conosciamo è una democrazia che ripugna e indigna" (Latinoamericana 2007, Esigiamo e costruiamo un’altra democrazia, p. 10), cosa dovrà fare la Chiesa per non apparire più come nemica della democrazia e per smettere di perdere credibilità? Risponde Casaldáliga: "Perfino Dio deve essere democratizzato in altro modo e la rispettiva esperienza religiosa della fede deve aprirsi al dialogo nel pluralismo e deve condividere l’azione sulle grandi cause comuni della vita e di tutto l’essere dell’universo" (idem, p. 11).

Per non cadere in confusione e contraddizione, la questione richiede un trattamento chiaro: cosa intendiamo quando parliamo di democrazia e Chiesa?

Il nostro modello di democrazia

Sicuramente, nel nostro mondo occidentale, la maggioranza delle persone fa propria la forma di vita democratica. Non solo la fa propria, ma ne è orgogliosa e, in ogni caso, la considera come la forma meno cattiva. Fortunatamente cominciano a risuonare - e forte - voci che mettono in discussione il nostro modello di democrazia. Non si tratta però di negare i successi e i progressi propri della nostra democrazia occidentale.

Sulla base della democrazia greca, si cominciò a ordinare la convivenza in modo che le decisioni fossero prese da tutti e non da uno solo (re) o da una minoranza (aristocrazia). Fu un progresso, ma non vi prendevano parte gli schiavi, gli stranieri e le donne; la maggior parte delle persone restava fuori dal potere.

Le democrazie moderne hanno tentato progressivamente di far partecipare tutti al potere, unico modo per aver ragione dell’esclusione, del privilegio e del dominio degli uni sugli altri. Sarebbe bastato emanare Costituzioni, istituire Tribunali, decidere l’elezione di rappresentanti e promulgare leggi che assicurassero l’uguaglianza di tutti, mediante un’applicazione rigorosa della giustizia. Scomparse la monarchia e le classi privilegiate, tutti sarebbero stati uguali e liberi.

Ci sono stati progressi e conquiste molto positive nella classi dei lavoratori. Ma gli antichi detentori del potere – clero e nobiltà – sono stati rimpiazzati da altri: i padroni dell’industria, del commercio e, più vicino a noi, le multinazionali: "La modernità aveva configurato lo Stato come forza indipendente, autonoma, incaricata di assicurare giustizia e prosperità mediante la collaborazione di tutti i cittadini, considerati uguali in forza di leggi applicate a tutti indistintamente e in difesa di tutti i diritti. Non ci sarebbero più state vittime della dominazione perché tutti avrebbero potuto contare sulla protezione della legge applicata da un sistema giudiziario imparziale" (J. Comblin, Crisi della democrazia, Latinoamericana 2007, p. 323).

La dittatura economica all’interno della democrazia

Partendo dal nostro livello di vita confortevole, continuiamo a conservare il mito che la democrazia sia il miglior sistema di vita per la convivenza. È, certamente, migliore della tirannia. Ma sarebbe illusorio misconoscere il potere inimmaginabile che le nuove forze economiche hanno acquisito, e il modo in cui lo esercitano e lo impongono nelle nostre democrazie.

Fra le migliaia e migliaia di società private inventariate, le 200 più potenti controllano (dati 2002) più del 23% del prodotto mondiale lordo (più di tutta la ricchezza prodotta nel pianeta in un anno). È importante sottolineare le caratteristiche di queste nuove forze economiche.

Sono nelle mani di gruppi di livello mondiale: la loro ricchezza va crescendo e concentrandosi; gli Stati stanno perdendo la possibilità di controllarle.

Impongono sempre più la loro volontà: le multinazionali muovono e controllano il commercio, possono contare sul-l’esenzione di imposte e su altri vantaggi e finiscono per costituirsi in monopoli; il loro maggiore successo è stato convincere la coscienza pubblica che lo Stato non può assumere iniziative economiche e deve lasciarle alle imprese private. In questo modo, i partiti politici diventano i divulgatori dell’ideologia neoliberista e i funzionari delle multinazionali.

Detto ciò, è chiaro che la democrazia perde il suo contenuto dal momento in cui gli Stati concedono autonomia alle multinazionali. Queste muovono i loro capitali per il mondo intero. I cittadini e la classe operaia trovano grandi difficoltà ad agire efficacemente contro di loro: "La globalizzazione degli scambi di servizi, di capitali, di brevetti ha condotto negli ultimi dieci anni all’instaurazione di una dittatura mondiale del capitale finanziario. Ristrette oligarchie transcontinentali, che detengono il capitale finanziario, dominano il pianeta... I padroni del capitale finanziario globalizzato esercitano diritto di vita e di morte su miliardi di esseri umani. Mediante la loro strategia di investimenti, le loro speculazioni borsistiche, le alleanze che stabiliscono, decidono giorno per giorno chi ha diritto a vivere in questo pianeta e chi è condannato a morire" (J. Ziegler, Diritti umani e democrazia mondiale, Latinoamericana 2007, p. 26).

"I popoli non hanno scelto i loro governi perché li ‘portassero’ al Mercato, ma è il Mercato che in tutti i modi possibili condiziona i governi perché gli ‘portino’ i popoli. Il Mercato è, oggi più che mai, lo strumento per eccellenza di un autentico, unico e incontrovertibile potere, il potere economico e finanziario multinazionale, questo sì non democratico perché non è eletto né è retto dal popolo, e non ha per fine la sua felicità" (J. Saramago, Sulla democrazia, Latinoamericana 2007, p. 35).

Le conseguenze sono quelle che tutti vediamo e soffriamo: la dittatura neoliberista ci invade con l’industria del divertimento, fa in modo che ci dimentichiamo dei diritti umani, ci convince che non c’è nulla che si possa fare, che non c’è alternativa possibile. Com’è possibile che, dall’inizio della guerra in Iraq, una potenza che si proclama la prima e più importante nel mondo, e tale viene riconosciuta, possa, con la complicità di altre democrazie, giustificare e ritenere normale e inevitabile il prolungamento di una invasione che provoca più di cento morti al giorno? Che ne è allora delle Costituzioni? A che servono le elezioni? Quanti credono ancora in esse? Non è normale che cresca la consapevolezza che il sistema democratico attuale non funziona?

Ma per cambiare il sistema sarà necessario distruggere il potere dei nuovi signori feudali. Chimera o utopia?

Democrazia e diritti umani

Non credo di sbagliarmi affermando che una democrazia politica è ben poca cosa se non è allo stesso tempo una democrazia economica e culturale. Identificare la democrazia con la mera forma politica è lasciarla senza contenuto. Gli eletti dal popolo sono nei partiti, nel Parlamento e nel governo per qualcosa di più. I partiti e le altre istituzioni sono necessari, ma nella consapevolezza che il potere che è stato loro conferito proviene dal popolo e deve essere utilizzato per i fini e i diritti del popolo. Il potere, se proviene dal popolo e deve essere esercitato per il bene del popolo, deve essere amministrato a beneficio del popolo. Cambiamenti politici a livello di partito e di governo che non siano accompagnati da cambiamenti economici e culturali non rispondono a quello che il popolo desidera quando vota.

Come ha detto Boutros Boutros-Ghali, "i diritti umani sono, per definizione, la norma ultima di tutta la politica, sono assoluti e localizzati e per ciò stesso costituiscono una irriducibilità umana, la quintessenza dei valori che ci permettono di affermare che siamo una sola comunità umana" (J. Ziegler, idem, p. 27). La democrazia serve per assicurare l’uguaglianza e la fraternità o per coprire l’imposizione capitalista, con il suo modello di società egoista e senza ideali?

Malgrado tutte le debolezze e le insufficienze, dovremmo insistere perché i diritti umani diventino realtà, coscienti che, anche in democrazia, essi vengono strumentalizzati per gli interessi degli uni o degli altri gruppi e non per il bene e i diritti dei cittadini. È ingiusto che i diritti umani si trasformino in privilegi per le minoranze e per i potenti e possano essere usati addirittura contro i diritti della maggioranza. È questo che bisogna smascherare. Quando una minoranza ha il potere di imporre le proprie condizioni commerciali, ha il potere di dominare la vita: nega le condizioni reali perché si possa vivere biologicamente.

Per far sì che tutti i cittadini godano dei diritti umani, non basta l’affermazione astratta che questo è un diritto di ogni essere umano; questo è già un diritto in molti Paesi democratici, ma non lo è in altri, anche se formalmente democratici. Posso e devo tendere utopicamente al conseguimento dell’ideale (è un diritto di ogni essere umano), ma devo verificare e lottare concretamente perché questo diritto sia rispettato nella realtà quotidiana di altri Paesi. Allora, la lotta e il compito decisivo si concretizzano ponendosi non a lato di coloro che godono di questi diritti, ma di coloro che mancano di essi, di coloro che sono deboli o oppressi e non di coloro che sono forti e oppressori.

La Chiesa e suoi differenti modelli

Quanto abbiamo detto della democrazia, possiamo dirlo della Chiesa: non la si può ridurre ad un solo modello. La Chiesa ha il suo percorso storico – magnifico e terribile, dialetticamente illuminante – all’interno del quale abbiamo avuto fedeltà all’origine e allontanamento da essa.

Modello tridentino

Senza dilungarmi troppo, vorrei soffermarmi sul modello di Chiesa che ha dominato per secoli fino al Vaticano II. Mi riferisco alla Chiesa riformata da Gregorio VII e post-tridentina. Le sue linee fondamentali sono state le seguenti:

1. La Chiesa è come uno Stato al cui vertice c’è il papa, assistito dalle congregazioni romane, che si riconosce egemone rispetto agli altri Stati.

2. Lo statuto costituente della Chiesa è caratterizzato dalla disuguaglianza, sulla base della distinzione tra due generi di cristiani: i chierici e i laici.

3. In essa, è basilare la gerarchia clericale con i suoi vari gradi. La disuguaglianza si dispiega dall’alto al basso, in una visione piramidale: la piramide ha un vertice, il papa; da lui deriva il potere dei vescovi, la nobiltà ecclesiastica; e più giù c’è il basso clero, i cosiddetti "sacerdoti". Questi gradi esauriscono il diritto e l’autorità. Infine, c’è lo stato laicale, la base immensa della piramide: vassalli, servi della gleba, gente semplice.

4. Questa struttura ecclesiastica sarebbe tale per diritto divino e, pertanto, immutabile. Come pure il potere che detiene e che da essa deriva.

5. Questa Chiesa realizza il Regno di Dio a partire dal "potere ecclesiastico" che discende in maniera piramidale fino ai fedeli. Il popolo non deve far altro che ricevere e mettere in pratica quello che risiede nelle alte sfere.

6. Per questa Chiesa, il Regno di Dio è una cosa del-l’"aldilà", una questione relativa all’altra vita; non un progetto storico con esigenze di trasformazione per il presente, ma un simbolo di rassegnazione storica e di evasione dalla storia.

7. Questa Chiesa dimentica la caratteristica fondamentale del Regno di Dio che annuncia Gesù: un Regno dei poveri, per la loro liberazione. Cioè, mentre nelle alte sfere si combattono battaglie per il dominio del mondo, l’immensa base ecclesiale non deve fare altro, per volontà divina, che sottomettersi e non contare nulla.

Modello del Vaticano II

Il semplice paragone fra l’ecclesiologia tridentina e quella del Vaticano II fornisce la chiave per capire i conflitti intraecclesiastici attuali e tutti i procedimenti contro quanti si impegnano ad esigere che si percorra il cammino tracciato dal Vaticano II, che ha il suo punto nevralgico nella democratizzazione della Chiesa. Il cambiamento operato è evidente soprattutto nella Lumen gentium e nella Gaudium et spes. Possiamo sintetizzarlo nei seguenti punti:

1. Il punto gravitazionale nella Chiesa è la comunità (popolo di Dio) e non la gerarchia. "Popolo di Dio" è per il Concilio la realtà che ingloba la Chiesa, che si riferisce a quanto di basilare e comune c’è nella nostra condizione ecclesiale, cioè nella nostra condizione di credenti. E siamo tutti, senza eccezione, in questa condizione. La divisione chierici/laici è superata da un approccio nuovo: ciò che di sostanziale c’è nella Chiesa è la comunità, la gerarchia è il relativo che non ha ragion d’essere in sé e per sé se non in relazione e subordinazione alla comunità.

2. La funzione della gerarchia è ridefinita in relazione a Gesù, servo sofferente e non pantocrator (signore di questo mondo); solo a partire da chi è stato crocefisso dai poteri di questo mondo si può fondare e giustificare l’autorità della Chiesa. La gerarchia è un ministero (diakonia=servizio) che richiede di farsi servi. Occupare questo luogo (quello della debolezza e dell’impotenza) è quello che le compete, quello che è veramente suo.

3. Scompare la Chiesa come "società di disuguali": "Non c’è di conseguenza nessuna disuguaglianza in Cristo e nella Chiesa" (cfr LG, 12).

Nessun ministero può essere collocato al di sopra di questa comune dignità. La maggiore dignità è nell’ugua-glianza comune. I chierici non sono gli "uomini di Dio" e i laici gli "uomini del mondo". Questa dicotomia è falsa. Usiamo un linguaggio corretto se, invece di chierici e laici, parliamo di comunità e di ministeri.

4. Tutti i battezzati sono consacrati come casa spirituale e sacerdozio santo (LG 10). Pertanto, non sono solo i preti ad essere "sacerdoti" perché il sacerdozio è comune. Questo cambiamento è fondamentale: "In Cristo si è prodotto un cambiamento del sacerdozio" (Eb 7,12). In effetti, la prima espressione del sacerdozio di Gesù è che "si fa in tutto simile ai fratelli": è compassionevole, prova sofferenza, nella sua vita mortale innalza preghiere con grida e lacrime, cioè si identifica con il suo popolo, senza vergognarsi di chiamare gli altri fratelli.

Gesù, quindi, non si ritira nell’ambito del sacro, dei riti, ma continua ad essere laico anche se costituito come sacerdote. Il sacerdozio originale di Gesù è quello che bisogna portare avanti nella storia, ed è la base per capire ogni altro sacerdozio all’interno della Chiesa e, naturalmente, il sacerdozio comune.

Perciò la Chiesa intera, popolo di Dio, porta avanti il sacerdozio di Gesù, senza perdere la laicità, nell’ambito del profano e dell’impuro, di quanti sono stati "gettati fuori": sacerdozio non centrato sul culto ma sul mondo reale. Questo sacerdozio appartiene al piano sostanziale, l’altro - il presbiterale - è un ministero e non può essere compreso a prescindere dal sacerdozio comune. Il sacerdozio comune è superiore; quello presbiterale, essendo subordinato a quello comune, è inferiore.

Nel primo millennio, il ministero presbiterale era inteso in riferimento alla comunità, e il popolo partecipava alzando la mano. Prescindere dalla partecipazione del popolo rendeva nulle e invalide le ordinazioni. Nel secondo millennio, il ministero è inteso in riferimento a Cristo che agisce nella Chiesa attraverso il sacramento. L’ordinazione avviene imponendo le mani, gesto che è posteriore ed è espressione del sacramento dell’Ordine. Il potere sacerdotale ha avuto un’evoluzione - espressa nei gesti - fino a configurarsi come un potere isolato dalla comunità, sostantivato in sé, in pura verticalità.

Ruolo della Chiesa nella democrazia secondo la tradizione originale, recuperata nel Vaticano II

Quanto detto sull’evoluzione della democrazia e sui due modelli di Chiesa ci permette di trarre alcune conseguenze:

1. In ogni tipo di organizzazione e di governo della convivenza umana, la Chiesa di Gesù apporta valori fondamentali che rivelano la sua identità e la rendono incompatibile con quelle forme di convivenza che non coltivano questi valori.

2. Tenendo presenti i principali problemi che oggi opprimono la nostra democrazia e considerando che la Chiesa offre proposte per la soluzione di questi problemi; che non esiste processo economico-politico dissociato da un determinato tipo di cultura (filosofica, etica, religiosa); che la cultura della democrazia è stata invalidata e stravolta dal-l’ideologia specifica del neoliberismo; che la democrazia ha bisogno, per sopravvivere e rigenerarsi, di alcuni valori essenziali, quali saranno questi valori, queste energie di base che la Chiesa, al meglio di se stessa, potrebbe apportare?

Ne voglio segnalare quattro:

1. Primato degli ultimi. La Chiesa dovrebbe proclamare e testimoniare che, come criterio di organizzazione sociopolitica e di educazione, si dovrebbe adottare il criterio in base al quale tutti gli uomini sono fratelli e, se sono fratelli, occorre lottare perché le relazioni siano di uguaglianza e perché scompaiano gli ostacoli che rendono l’uguaglianza impossibile: il denaro e il potere. Bisogna stabilire come priorità che le maggioranze che vivono nella miseria e nell’esclusione, gli ultimi, siano i primi, di modo che sia a partire dal mancato rispetto dei loro diritti e dalle loro necessità che si cominci ad organizzare la società. Se Gesù chiama i poveri beati è perché assicura che la loro situazione cambierà e per questo è necessario creare un movimento che sia capace di ottenere il cambiamento, restituendo loro dignità e speranza. Dunque, la precedenza agli ultimi: "Il cristianesimo originario si oppone al regno del denaro e del potere come meccanismo di dominazione, e introduce una passione nella storia: che gli ultimi smettano di essere tali, che si adottino comportamenti e si organizzino politiche ed economie che diano loro la precedenza per costruire una società senza ultimi né primi o, almeno, con la minore disuguaglianza possibile fra gli esseri umani chiamati ad essere fratelli" (R. Díaz Salazar, La Izquierda y el cristianismo, Taurus, 1998, p. 354).

2. Individuare le cause della disuguaglianza. In sintonia con questa passione per gli ultimi, operare con sensibilità e criterio per individuare, nel nostro mondo, le cause e i meccanismi che producono i primi e maggiori problemi di disuguaglianza e ingiustizia.

3. Anteporre i bisogni degli ultimi. Creare una volontà collettiva che sia capace di anteporre le necessità degli ultimi e che articoli politiche e comportamenti sociali solidali con la conseguente adozione di sforzi e di rinunce comuni. Se la passione per gli ultimi diventa idea e forza morale in grado di mobilitare, avremo allora la possibilità di politiche internazionali di solidarietà, di democrazia economica, di assunzione della povertà evangelica, fino a creare nuovi soggetti sociali con una nuova scala di valori antropologici e una nuova finalità per la vita personale e collettiva.

4. Cultura del samaritano. Far propria al cultura del samaritano di fronte al prossimo in stato di necessità: sentire come proprio il dolore degli oppressi, farsi a loro vicini e liberarli. Senza questo impegno, tutta la religiosità è falsa: "Il cristianesimo originario presenta valori di fondo che, nel loro complesso, configurano un determinato spirito o forza socio-vitale molto importante per la sinistra. Il primato degli ultimi, la passione per la loro liberazione, la critica delle ricchezze, la vicinanza alle vittime dello sfruttamento, l’anelito a costruire la fraternità a partire dalla giustizia e oltre, la scommessa per uno stile di vita centrato sull’abban-dono del possesso e la comunione di beni, l’unione fra il cambiamento dell’interiorità dell’uomo e la trasformazione della storia, ecc. sono proposte vitali molto preziose per la cultura socialista" (R. Díaz Salazar, idem, p. 399).

Jon Sobrino, nell’articolo citato, tenendo conto della tradizione biblica cristiana e di fronte a quello che sta succedendo oggi nelle nostre democrazie, espone le seguenti proposte per aiutare ad umanizzare la democrazia: la compassione nei confronti del popolo crocefisso; la giustizia; la parzialità nei riguardi del povero.

Partire dalla croce dei popoli è partire da quanti non hanno potere e, come tali, soffrono tutte le pene. A loro le nostre democrazie - eurocentriche - sottraggono tutto: vita, cultura, dignità e libertà. E di fronte a questi popoli crocefissi non c’è altra posizione onesta che quella di "farli scendere dalla croce", perché in loro si trova la presenza di Dio.

L’ingiustizia fa sì che molti esseri umani muoiano di fame, siano assassinati. La bontà di Dio, che è buono con tutte le sue creature, deve mostrarsi nella concreta trasformazione di un mondo ingiusto in uno giusto. La giustizia si oppone al disprezzo, alla violenza, alla menzogna, alla schiavitù, alla morte. Nella misura in cui eliminiamo questo, la vita sarà giusta e sarà umana.

Una politica democratica di impronta cristiana si misura sui poveri. Continuare a parlare nelle nostre democrazie di uguaglianza è una menzogna, perché non è così; bisogna introdurre il criterio della parzialità. È il povero sofferente che deve venire per primo. Si deve porre non l’uguaglianza ma il povero al centro della vita democratica.

C’è un avvertimento di Gesù di Nazareth - e voglio che sia la mia conclusione - con cui dovrebbero confrontarsi tutti i poteri: civili e religiosi, democratici, monarchici, socialisti, di qualsiasi segno: "Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti" (Mc 10,41; Mt 20,25).

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