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SUL SOCIALISMO DEL XXI SECOLO

Tratto da: Adista Documenti n° 44 del 07/06/2008

 

"Più che mai credo che la lotta per il socialismo latinoamericano deve affrontare l'orrore quotidiano con l'unico atteggiamento che un giorno gli darà la vittoria: curando attentamente, gelosamente, quella capacità di vivere che desideriamo per il nostro futuro, con tutto quello che presuppone di amore, di gioco e di allegria".

Julio Cortazar, dal Libro de Manuel

 

In occasione del Foro sociale mondiale di Porto Alegre del 2004, e cioè 5 anni dopo la sua elezione, il presidente venezuelano Hugo Chávez lanciò l'idea del «socialismo del secolo XXI», aprendo così un ampio dibattito all'interno dei movimenti sociali, soprattutto in Venezuela. L'espressione socialismo fu da lui usata per la prima volta in questa occasione e con un cenno fugace, a conferma della problematicità insita nell'uso di questa parola, quasi come l'effettuazione di un sondaggio sulle reazioni che avrebbe suscitato. Ecco le sue parole: "sono pure convinto [...] che è possibile trascendere il capitalismo attraverso la strada del socialismo".

Successivamente lo stesso Chávez raccontò come il suo pensiero, partendo da un interesse iniziale per la terza via di Blair e Giddens, fosse approdato al bolivarismo e infine, dopo i reiterati tentativi interni/esterni fatti per rovesciare il suo regime, alla maturazione dell'idea della necessità di un nuovo socialismo - che non nega la precedente fase bolivariana ma la include - decisamente antimperialista e, almeno nelle sue parole, chiaramente né calco né copia delle esperienze del socialismo reale.

Dopo quel primo accenno, il discorso sul socialismo venne ripreso più ampiamente nel febbraio 2005 in occasione del Forum di Caracas, in un discorso in cui più esplicitamente affermò (trascrizione del testo orale):

"Nel quadro del modello capitalista è impossibile dare soluzione al dramma della povertà, è impossibile risolvere il dramma della miseria, della disuguaglianza. Molti parlano e hanno scritto sulla terza via, sul capitalismo dal volto umano, sul capitalismo renano, sul capitalismo marziano e su non so quale altro, cercando di mettere la maschera al mostro; maschera però che cade al suolo frantumata dalla realtà. Io stesso devo confessarlo, e non occorre confessarlo perché già lo sanno, soprattutto i venezuelani, in una certa epoca ho camminato riferendomi alla terza via [...] no, (essa) è una menzogna, è una menzogna. E allora, se non è il capitalismo, che cosa è? Io non ho dubbi, è il socialismo. Ma allora quale socialismo? Quale fra i tanti? Potremmo anche pensare che non è nessuno di quelli che sono stati, anche se ci sono esperienze, ci sono successi in molti esempi di socialismo [...] dovremo inventarcelo [...] dovremo inventare il socialismo del Secolo XXI e dovremo vedere per quali vie, ci sono molte vie, lo sappiamo [...] ora la via verso questa meta della costruzione di un progetto sociale, la via che seguiamo in Venezuela o che stiamo costruendo deve essere considerata puramente come un riferimento, perché ogni popolo ha le proprie situazioni, ha una sua storia, ha le sue specificità".

 

 

Parlare del socialismo in America latina implica soffermarsi innanzi tutto sul pensiero di due figure storiche fondamentali, anche se distanti nel tempo e in contesti diversi fra loro, José Carlos Mariátegui e Ernesto Che Guevara. Mariátegui (1894-1930), secondo Löwy, è il vero antesignano del socialismo "latinoamericano", cioè un socialismo contestualizzato nella realtà del subcontinente e non assunto acriticamente dall'esperienza euroasiatica: "Sicuramente non vogliamo che il socialismo in America rappresenti un calco e una copia. Deve consistere in una creazione eroica. Dobbiamo dar vita, grazie alla nostra specifica realtà, nel linguaggio nostro proprio, al socialismo amerindio. È una missione, questa, degna di una nuova generazione" (J.C. Mariátegui, Aniversario y Balance).

Mariátegui era convinto che il socialismo avrebbe ricevuto un grande contributo da parte dei popoli indigeni che già per cultura propria erano naturalmente comunitari. È noto come invece il modello socialista che si era imposto nella maggioranza dei partiti comunisti latinoamericani dell'epoca fosse quello sovietico e come gli indigeni non solo non venissero inclusi nella loro prospettiva rivoluzionaria ma anzi ignorati, quando non apertamente combattuti, per la loro resistenza a una dottrina a loro ideologicamente estranea. È pure noto che il Partito socialista peruviano, fondato da Mariátegui, nel corso della prima Conferenza comunista latinoamericana di Buenos Aires del giugno 1929, non fosse stato riconosciuto come membro dell'Internazionale comunista ed anzi invitato a sciogliersi. Mariátegui, gravemente ammalato, morì giovane, all'età di 36 anni, lasciando però una forte eredità intellettuale che ancora oggi fa discutere. Egli aveva ben compreso che il socialismo latinoamericano avrebbe dovuto avere una propria originalità ritagliata sulla realtà concreta e sulla cultura propria dei popoli della regione e che il mondo indigeno ne avrebbe dovuto costituire una componente sostanziale. Anche altre correnti di pensiero latinoamericane, da Martí a Sandino - per non citare che due nomi fra i più noti - costituiscono il patrimonio della "sinistra" storica latinoamericana, prima di giungere alla figura a noi più vicina, quella del Che Guevara, di stampo inizialmente più "ortodossamente" marxista e poi sempre più evoluta criticamente verso una concezione umanista che si distanziava dalla versione sovietica. Scrive Löwy: "Dal 1959 fino al 1967, il pensiero del Che ha conosciuto un processo di notevole evoluzione, allontanandosi ogni volta di più dalle illusioni iniziali sul socialismo sovietico e dallo stile sovietico (vale a dire stalinista) del marxismo. In una lettera del 1965 a un amico cubano, egli critica aspramente l'‘ac-quiescenza ideologica’ che si manifesta a Cuba con la pubblicazione di manuali sovietici per l'insegnamento del marxismo. Tali manuali, che definisce ‘mattoni sovietici’, ‘presentano l'inconveniente di non permettere di pensare: il Partito lo ha già fatto per te e tu sei tenuto a mandarlo giù’. Si percepisce, soprattutto negli scritti dal 1963 in poi, il rigetto, in modo sempre più esplicito, ‘del calco e della copia’ e la ricerca di un modello alternativo, il tentativo di formulare un'altra via al socialismo, più radicale, più egualitaria, più fraterna, più umana, più coerente con l'etica comunista [...]. Il motore di questa ricerca di una strada nuova - ben al di là delle specifiche questioni economiche - è la convinzione che il socialismo non ha senso - né può trionfare - se non rappresenta un progetto di civiltà, un'etica sociale, un modello di civiltà completamente alternativo ai valori del meschino individualismo, dell'egoismo feroce, della concorrenza, della guerra di tutti contro tutti propri della civiltà capitalistica, il mondo in cui ‘l'uomo è lupo per l'altro essere umano’".

Il Che, di cui sfortunatamente gli ultimi scritti sono tuttora in parte "secretati" a Cuba, aveva una visione chiara della centralità dell'etica in un'esperienza autenticamente comunista, in opposizione a quella in atto in Unione sovietica: "Il socialismo economico senza la morale comunista non mi interessa. Ci battiamo contro la miseria, ma anche contro l'alienazione [...]. Se il comunismo ignora i fatti di coscienza, potrà costituire un sistema di ridistribuzione, ma non è certo una morale rivoluzionaria".

Un socialismo che non sia quindi né calco né copia di esperienze "importate", secondo il pensiero di entrambe queste figure fondamentali per l'elaborazione di un nuovo pensiero socialista latinoamericano avente la questione etica come centrale. La realtà latinoamericana da questo punto di vista è assai complessa, con una miriade di gruppi tuttora caratterizzati da modelli esogeni che vanno dal marxismo-leninismo, al trotskismo, al maoismo nonché allo stalinismo. Una sintesi originale di cultura indigena e di analisi marxista è invece quella degli zapatisti del Chiapas, di cui si parla in altra parte del libro, per un approfondimento della quale rinviamo, oltre che ad altri, ad un testo di Gustavo Esteva, tradotto in italiano nel dicembre 2005. Il socialismo del secolo XXI è stato oggetto di dibattito anche nell'incontro in memoria di Andrés Aubry tenutosi nel dicembre 2007 presso il Cideci a San Cristóbal, di cui sarà importante disporre degli atti visto il numero e il nome dei partecipanti.

 

Un contenuto ancora da definire con chiarezza

Il citato discorso di Chávez lascia tuttavia ancora nel vago i contenuti di questo nuovo socialismo, di cui pure tanto si parla e si scrive, e malgrado l'intenso dibattito non è possibile per ora vederne con chiarezza i contenuti e neppure le prese di distanza dal socialismo reale su due temi non secondari: il modello economico produttivista e incurante dell'ambiente e il centralismo decisionale. In questo senso la proposta di una nuova Costituzione venezuelana, sottoposta a referendum il 2 dicembre 2007 e bocciata con minimo scarto, dava indicazioni piuttosto deludenti mentre nell'intervista concessa nel 2005 a Manuel Cabieses Donoso della rivista cilena Punto final, interrogato in proposito, Chávez aveva risposto: "Credo che debba essere un socialismo nuovo, con basi fresche, adatto alla nuova era che sta appena cominciando. Per questo mi sono azzardato a chiamarlo socialismo del secolo XXI, come progetto. Credo che esso sia un obiettivo, una sfida [...] non si tratta di cercare un illuminato che ci prepari un modello che tutti poi copieremo. Sarebbe assurdo, costruiamolo a partire dalle nostre radici, dai nostri aborigeni, dalle comunità del Paraguay o del Brasile, dal socialismo utopico di Simon Rodriguez, dalla proposta di Bolivar di libertà e uguaglianza, dalla proposta di Artigas, il grande uruguaiano, di invertire l'ordine della giustizia, eliminando i privilegi".

Come si desume da queste parole, nel pensiero di Chávez questo nuovo socialismo sembra permeato da una molteplicità di riferimenti non marxisti, da Gesù Cristo ad alcuni "padri" dell'indipendenza latinoamericana o della storia più specificatamente venezuelana, per cui stupisce invece l'o-rientamento espresso nel testo costituzionale citato. "Certamente l'uso della parola socialismo è fortemente evocativo di un'esperienza storica complessa ed ambigua, e il suo revival dovrebbe essere accompagnato da una critica inequivoca della sua realizzazione storica".

Acutamente Atilio A. Boron scrive: "Le forze di sinistra, sia al governo che all'opposizione, si trovano ad affrontare sfide formidabili. Le seconde, in quanto oppositrici di una varietà di governi borghesi, perché devono realizzare la proposta gramsciana di costruire partiti, movimenti e organizzazioni genuinamente democratici e partecipativi allo scopo di prefigurare il tipo di città futura cui aspirano. E, come se quanto detto ora non fosse già un compito enorme, la sinistra oppositrice deve anche dimostrare la sua capacità di neutralizzare l'azione degli apparati ideologici della borghesia e far pervenire il suo messaggio e il suo discorso all'insieme della popolazione, che non ha di sicuro le orecchie preparate per ascoltare un messaggio socialista. Difatti, i pregiudizi coltivati e inculcati con abilità dai pubblicisti della destra l'hanno resa profondamente refrattaria a qualsiasi discorso che parli di socialismo o di comunismo. Ai suoi occhi esso equivale a violenza e morte, e malgrado la sinistra sia stata vittima di entrambe le cose nella storia recente della nostra regione, la si accusa di essere la rappresentante e la portatrice di queste disgrazie. In siffatto atteggiamento promosso senza posa dalle ideologie della destra vi è una componente importante di rassegnazione e di pessimismo che non può essere ignorata, e che determina la vanità di ogni tentativo di superare il capitalismo. L'audacia potrebbe essere seguita da un bagno di sangue e nessuno lo vuole. Pertanto, la sfida della credibilità della sinistra è notevole. Ha progredito molto in questo campo, ma resta ancora tanto da fare".

Questo brano evoca chiaramente il rischio di possibili reazioni negative di una parte dei potenziali alleati nelle lotte per il cambiamento del sistema, rischio che spiega l'iniziale cautela di Chávez a usare la parola socialismo, e quindi la necessità di rendere alla parola socialismo una credibilità storica sottolineandone la novità dei contenuti, la pluralità, la pragmaticità anziché la rigidità di un'ideologia che tutto prevede, determina e quindi obbliga ad un preciso percorso preconfezionato. Forse avrebbe dovuto tenerlo presente, vista la sua accelerazione verso questa prospettiva socialista ancor prima di averla meglio definita, verso il "partito unico" della sinistra venezuelana, il Psuv, e verso la nuova costituzione, mettendo a rischio l'intero progetto di uscita dal neoliberismo.

 

 

Il dibattito suscitato da questa riesumazione del socialismo, seppur in questa chiave "nuova", si è ampliato e ha subito preso percorsi diversificati, alcuni dei quali, non si può negare, fortemente ideologizzati e ripetizioni di altri già noti, che non sembrano corrispondere al pensiero iniziale di Chávez. Il richiamo al socialismo anche così formulato sembra lasciare fredde molte fasce del mondo indigeno rivoluzionario, in quanto categorie estranee, e quindi con poca eco nelle loro cosmovisioni. Alcuni amici indigeni, interpellati su cosa pensassero del dibattito sul socialismo del secolo XXI, hanno preferito glissare. Uno di loro ha così eluso la domanda rispondendo: "noi siamo per la ricchezza e la creatività della vita" sottintendendo "piuttosto che per le elaborazioni ideologiche". Queste posizioni possono lasciare perplesso chi si è nutrito del pensiero marxista o comunque chi fa riferimento a strutture del pensiero occidentale, ma sembrano perfettamente consone alle cosmovisioni indigene, anche se altri neghino questa diversità culturale affermando che gli indigeni devono prendere coscienza di essere proletari sfruttati e nulla più.

Per prendere coscienza di questa diversa cosmovisione è interessante la lettera di Evo Morales ai capi di Stato sudamericani, dell'ottobre 2006, ricca di richiami ai valori etici fondamentali ma anche di indicazioni programmatiche. Di questa ci limitiamo a riportare il brano in cui egli definisce l'obiettivo della politica: perseguire il ben vivere (espressione da lui impiegata anche nel discorso alle Nazioni Unite del 2006): "La nostra meta deve essere forgiare una vera integrazione per ben vivere. Diciamo ben vivere perché non aspiriamo a vivere meglio degli altri. Noi non crediamo nella linea del progresso e dello sviluppo illimitato a prezzo dell'altro e dell'ambiente naturale. Dobbiamo renderci complementari e non competere. Dobbiamo convivere e non approfittarci del vicino. Ben vivere significa non pensare solo in termini di reddito pro-capite bensì di identità culturale, di comunità in armonia fra noi e con la nostra madre terra".

Qui sono ben chiari alcuni principi cui dovrebbe ispirarsi un nuovo socialismo, consapevole degli inganni del mito dello sviluppo, del senso del limite e dell'integrazione nel pensiero economico delle esigenze dell'ambiente.

Nel corso dell'incontro indigeno continentale tenutosi a La Paz nell'ottobre 2006 sul tema Dalla resistenza al potere il ministro degli Esteri boliviano ha così presentato la filosofia politica di Morales (sunto mnemonico del curatore): "la visione di Evo è radicata nel pensiero indigeno. Egli è critico verso il sistema democratico classico che dà il potere a chi ha avuto più voti ma che esclude di fatto una parte, quella perdente. Come è critico sia verso il pensiero liberista che pone al vertice dei valori il denaro sia verso quello socialista che vi pone l'uomo ma separato - se non addirittura in opposizione - alla natura, cui invece è indissolubilmente legato non in un rapporto di potere e dominio ma di coessenza". Del resto il vicepresidente boliviano Alvaro García Linéra in una conversazione con due giornalisti ha affermato: "Noi non pensiamo al socialismo in un futuro prossimo ma a una profonda rivoluzione democratica decolonizzatrice", parlando addirittura, in altra intervista, di "capitalismo andino" come obiettivo economico di medio termine.

 

 

Il socialismo del secolo XXI, per essere includente e plurale, dovrà riflettere attentamente sul lemma zapatista "costruire un mondo capace di contenere molti mondi diversi". È del resto evidente la diversità di modello cui si ispirano i tre leader progressisti più in vista: il filone più strettamente marxista di Fidel Castro, quello più pragmatico e con forti riferimenti autoctoni di Hugo Chávez, intriso di cosmovisione andina quello dell'indio Evo Morales. Diversità che però non impedisce loro di trovare sintonie politiche come l'espe-rienza dell'Alba, l'Alleanza bolivariana per le Americhe, in cui alla competizione neoliberista si privilegia la complementarità delle rispettive economie.

Ma il nodo centrale di qualunque modello che si voglia nuovo e realista è il nodo ecologico, ormai discriminante, e non solo per il mondo agricolo ma anche per quello urbano. È utile ricordare che ormai oltre il 50% della popolazione mondiale vive in città che sono spesso vere e proprie megalopoli. Il famoso urbanista Mike Davis verso la fine degli anni Novanta scrive: "I dannati della terra di Franz Fanon si sono dunque spostati dalle campagne verso le grandi città. Negli anni Novanta il mondo si urbanizza molto più in fretta di quanto previsto dal pur catastrofico Club di Roma negli anni Settanta, e in molti casi la maggior parte della nuova popolazione urbana non ha alcun rapporto formale con l'economia mondiale dominata da Philips, General Motors e Toyota. La classe sociale a più rapida crescita del pianeta è rappresentata dagli abitanti giovani delle favelas, che sopravvivono grazie ai miracoli quotidiani dell'economia informale esistente nelle più grandi città del mondo. Alla fine del decennio saranno un miliardo [...]. Il nocciolo del mio ragionamento (che non è poi così originale) è che le città giganti degli anni Novanta, affamate di lavoro, diventeranno l'epicentro di grosse crisi sociali/ambientali agli inizi del XXI secolo. Oppure daranno luogo a olocausti per fame, di dimensioni mai più viste sin dal 1840, o causeranno nuove guerre per il controllo delle risorse vitali delle città, come le fonti d'acqua e i fiumi [...]. Le megacittà più povere sembrano destinate a diventare inferni. In effetti, gli istituti di ricerca e le pubblicazioni neo-liberiste già parlano chiaramente della prossima ‘selezione’ della razza umana".

La città come inferno ma, prosegue Davis, anche come possibile soluzione: "La città è il problema ambientale centrale del prossimo millennio, ma può anche essere la soluzione [...]. L'intelligenza sociale non-utilizzata della città - che si esprime quotidianamente nell'economia di sopravvivenza dei poveri - è una forza nascosta considerevole. Al centro di ogni visione socialista globale, quindi, deve esserci un programma di ristrutturazione urbana ecologica, creatrice di nuovi posti di lavoro. Ciò implica, necessariamente, la riscoperta di un'eredità perduta: il sogno della città socialista, come si era sviluppato tra il 1890 e il 1934 [...]".

Purtroppo, come qualcuno ha notato, il crimine organizzato in molti paesi ha egemonizzato le periferie delle grandi città e non sarà facile per i movimenti sociali crearvi spazi di autonomia territoriale, mentre il problema di un forte movimento sociale urbano saldato a quello contadino o indigeno è condizione per una reale uscita dal sistema. Per questo rivestono molta importanza le esperienze dei sem techo (Senza tetto) in Brasile, Paraguay ecc, quelle delle fabbriche occupate in Argentina o Venezuela, dei pueblos jovenes in Perù o dei microgoverni barriali in Bolivia, di cui abbiamo parlato.

 

 

Il dibattito (e il percorso) è iniziato e non resta che seguirne lo sviluppo con interesse e qualche apprensione. Il pregio maggiore dell'iniziativa di Chávez è stato forse quello di voler ridare dignità all'idea socialista, prendendo decisamente le distanze dal socialismo reale del XX secolo, e di voler tracciare un orizzonte verso cui indirizzare le varie forze operanti contro il neoliberismo, certamente frammentate e procedenti in ordine sparso. Il socialismo del secolo XXI, per non restare una ipotesi astratta e per affermare la sua capacità di essere pluralista ed efficace, deve riflettersi in politiche concrete relative alla gestione del potere, alla democrazia dal basso, al ruolo dello Stato e al modello economico. Per contro, il limite del discorso di Chávez, apparso più evidente negli ultimi mesi, è il pensare che un vero socialismo nuovo possa essere promosso dall'alto. Ormai i documenti sul tema si vanno moltiplicando, alcuni rilevanti, altri inessenziali, alcuni neo o vetero dogmatici, altri di effettiva ricerca di un modello sociale non egemonizzato dalla sola preoccupazione economica e con più ampio respiro umanistico. Un tema in particolare ci sembra fondamentale nella ricerca di un socialismo nuovo, e che invece il vecchio aveva trascurato: quello del posto che l'uomo e l'ambiente, strettamente correlati, occuperanno nell'economia politica futura.

 

 

Ma non manca anche chi, da sinistra, ritiene il discorso sul socialismo una zavorra da abbandonare, come ha affermato Gustavo Esteva al Memorial Andrés Aubry "...Planeta Tierra: movimientos antisistémicos...", svoltosi nel dicembre 2007 presso il Cideci di San Cristóbal de Las Casas, nel quale si è anche parlato del Socialismo del secolo XXI: "Nelle circostanze attuali dobbiamo smettere di guardare in alto, verso i poteri costituiti, e dobbiamo estirpare alle radici l'ossessione di prendere il potere con qualunque mezzo. Dobbiamo abbandonare lo Stato come orizzonte esclusivo della teoria e dell'azione politica, per avventurarci nel mondo della pluralità e costruire nuove prospettive. La politica come ricerca del bene comune implica lasciarsi dietro nozioni obsolete come la sovranità nazionale o l'imperialismo statunitense, per fare fronte con chiarezza alla nuova logica imperiale del capitale statunitense. È necessario rinunciare seriamente al socialismo, riconoscere che esso è arrivato al suo termine. Sapere che il futuro non è predeterminato e che al capitalismo non segue il socialismo bensì qualcosa d'altro da inventare è assai inquietante per quanti di noi siamo stati formati in questa tradizione e abbiamo dedicato buona parte della vita a lottare per questo ideale. Affermare teoricamente e praticamente questa convinzione è un impegno urgente".

Prima di concludere occorre notare come, al chiudersi del libro, cioè nel dicembre 2007, crescano le preoccupazioni circa il modello economico realmente esistente nei tre Paesi politicamente più innovatori dell'America latina. La Bolivia sembra non riuscire a sganciarsi dal ruolo di paese cerniera del grande progetto infrastrutturale dell'Iirsa, che oltre a devastare l'ambiente riconferma l'America latina come Paese esportatore di materie prime e quindi sottomesso al gioco delle grandi multinazionali mondiali o delle politiche non troppo dissimili dei nuovi giganti economici asiatici. Inoltre la sua pretesa nazionalizzazione degli idrocarburi è una falsa nazionalizzazione. Il Venezuela sembra sganciarsi con difficoltà dalla dipendenza dall'esportazione del petrolio e di altre materie prime e deve affrontare nuovi conflitti con comunità indigene presenti nelle zone di nuova o accresciuta estrazione mineraria e ora deve fare i conti coi quasi 3 milioni di astenuti al referendum costituzionale. L'Ecuador reprime con durezza le proteste indigene originate dalle accresciute e devastanti miniere a cielo aperto. Ancora una volta la gestione del potere sembra contraddire i migliori propositi e ciò fa temere che il "nuovo socialismo" resti nuovo più nelle speranze che nella realtà.

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