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COLONIA AFRICA

Tratto da: Adista Contesti n° 66 del 27/09/2008

 

La storia della presenza militare e commerciale degli Stati Uniti in africa, dilagata sotto l’amministrazione bush.

 

Questo articolo di Mnuyi kabunda, docente  all'istituto internazionale di diritti umani di Strasburgo, è comparso sulla rivista  “pueblos”  (14/8/2008). Titolo originale: “de las intervenciones puntuales de la guerra fría a la expansión económica y militar”

 

Quando Bill Clinton affermò nel 1995: “Abbiamo bisogno di una politica africana”, mise in evidenza l’assenza di una politica statunitense verso l’Africa chiaramente definita. Oggi, l’Africa è una fetta importante della politica estera degli Stati Uniti, la cui presenza nel continente viene giustificata con la lotta globale contro il terrorismo e con l’importanza assunta dal Golfo di Guinea, che rappresenta attualmente il cinque per cento della produzione mondiale di petrolio e il 54 per cento della produzione africana (2003). La presente analisi intende ripercorrere le varie attività statunitensi in Africa durante il bipolarismo Est/Ovest, nel periodo successivo alla guerra fredda, per mettere l’accento sul periodo attuale o del dopo 11 settembre, mettendo in rilievo gli avvenimenti internazionali che hanno influito sul suo ri-orientamento in un senso o nel- l’altro.

Durante la Guerra Fredda, l’Africa è stata un terreno di scontro fra le superpotenze, insieme alla tradizionale rivalità tra Francia e Gran Bretagna, le quali non hanno rinunciato alla loro influenza sulle antiche colonie. Pertanto gli Stati Uniti, che avevano affidato il ruolo di gendarme del continente ai loro alleati della Nato, si limitarono, in Africa, ad attività mirate a contrastare l’influenza dell’Unione Sovietica: la pianificazione dell’assassinio da parte della Cia del primo ministro congolese, Patricio Lumumba, considerato un alleato di Mosca, l’appoggio alla Unita (Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola) di Jonas Savimbi in Angola contro il governo marxista-leninista del Mpla (Movimento Popolare per la Liberazione del’Angola) e la spedizione sovietico-cubana, fino alla collaborazione con il Sudafrica dell’apartheid nella lotta contro la “minaccia comunista” nell’Africa australe.

A quell’epoca, quando il continente era diviso tra “progressisti” filosovietici e “moderati” filo-occidentali, si procedette alla suddivisione dei compiti fra l’“imperialismo globale”, assicurato dagli Stati Uniti (incaricato del rifornimento della logistica), l’“imperialismo secondario”, assunto dalla Francia (alla quale si affidò il “ruolo di gendarme dell’Africa” per gli interventi diretti, dati i suoi diritti storici e culturali in questo continente) e l’“imperialismo di staffetta”, affidato ora all’uno ora all’altro dei Paesi africani alleati, dotati di una certa capacità militare per farsi carico del mantenimento dell’ordine filo-occidentale in una determinata regione del continente (Marocco, Zaire e Sudafrica). In questo modo, durante la Guerra Fredda, gli Stati Uniti appoggiarono le dittature africane di destra in nome dell’anticomunismo, soprattutto dopo l’installazione sovietica in Angola e in Etiopia.

È necessario sottolineare quell’inciso della politica africana nordamericana rappresentato dall’Amministrazione Carter, reticente ad attività militari statunitensi all’estero. Colpito dalle esperienze disastrose e umilianti degli interventi in Vietnam, Iran e Afghanistan, il mandatario statunitense basò i suoi interventi in Africa su tre principi: la preservazione dell’indipendenza degli Stati africani, il non-trasferimento in questo continente del conflitto Est/Ovest e la promozione dello sviluppo e dei diritti umani, lasciando alla Francia la responsabilità dell’Africa francofona.

Il risultato fu una presa di distanza dalle dittature africane, come quella di Mobutu, che si mantenevano grazie all’appoggio della Francia e di Israele. Queste due potenze avevano deciso di far fronte all’egemonia comunista in Africa, dato il passo indietro dell’Amministrazione Carter. L’Amministrazione Reagan, che le successe a novembre del 1980, adottò un atteggiamento di totale offensiva, opposto a quello del suo predecessore: interventi militari diretti per appoggiare e rassicurare gli alleati africani, contenimento del comunismo in Africa e pressione verso le potenze occidentali per una difesa comune in questo continente. Il risultato di questa politica di ritorno in Africa fu l’appoggio incondizionato ai regimi corrotti e repressori come quello di Mobutu e la consegna all’Unita di Savimbi dei temibili missili Stinger per lottare contro la presenza sovietico-cubana in Angola.

 

L’interesse geopolitico e neoeconomico del post-guerra fredda

 

L’operazione Restore Hope in Somalia nel 1993 da parte dell'Amministrazione Bush senior, nel tentativo di fermare il signore della guerra somala, Aidid Mohamed, si risolse in un intervento militar-umanitario disastroso e umiliante per gli Usa nel Nordest e nell'Africa centrale. Questa politica spiega perché l'Uganda e il Rwanda hanno violato l'integrità territoriale della Repubblica del Congo, sottomessa a saccheggi, come mettono in evidenza i cinque rapporti successivi delle Nazioni Unite, che non hanno suscitato alcuna protesta dell'Amministrazione nordamericana per queste gravi violazioni della legalità internazionale.

 

Il dopo 11 settembre

 

Nella stessa linea delle scelte precedenti, a partire dagli attentati dell’11 settembre 2001, sorge la “dottrina Bush” della “guerra preventiva”. L’Africa entra nella strategia globale della politica estera nordamericana e diventa terreno privilegiato delle attività antiterroristiche, soprattutto avendo, gli Stati Uniti, subìto gli attentati contro le loro ambasciate a Nairobi e a Dar Es Salaam nell’agosto del 1998.

Queste strategie militari hanno avuto una sponda economica con l’adozione dell’Agoa (African Growth and Opportunity Act, l'Accordo per la crescita e l'opportunità dell'Africa, firmato il 18 maggio 2000, ndt), consistente nel concedere alcuni benefici doganali ai Paesi africani rispettosi dei principi di democrazia liberale alla statunitense e dell'economia di mercato, soprattutto a quelli che si impegnano a non attentare agli interessi degli Usa e ad aiutarli nella lotta al terrorismo. L'Agoa, adottato dall'Amministrazione Clinton, fu recuperato e meglio definito dall'Amministrazione di George W. Bush, che introdusse delle condizioni politiche (buon governo, economia di mercato e lotta contro la povertà) per l'aiuto nordamericano all'Africa.

È stato adottato anche l’African Crisis Response Initiative (Acri), convertito nel  2002 in Acota (African Contingency Operations Training Assistance), destinato a rafforzare la presenza militare statunitense nel continente. L'obiettivo dichiarato è l'aiuto agli eserciti africani nei momenti di crisi. La realtà è che gli Stati Uniti, come gli altri importatori di petrolio, hanno offerto aiuto finanziario e militare ai governi dei Paesi produttori di petrolio, per ottenere una stabilità che faciliti lo sfruttamento dell'oro nero, chiudendo gli occhi davanti alla violazione dei diritti umani ad opera dei suddetti governi, generalmente antidemocratici. È quello che le popolazioni africane chiamano la "maledi-zione del petrolio" (conflitti nati dalle rivalità fra potenze extra-africane, instabilità politica, corruzione delle classi governative, malgoverno).

Per raggiungere tutti questi obiettivi, gli Usa si distinguono per presenza fisica nella zona: l’installazione di una base militare a Gibuti e la creazione di una task force nel giugno del 2002 che raggruppa 9 Paesi della regione (Gibuti, Etiopia, Eritrea, Kenya, Uganda, Sudan, Tanzania, Somalia e Yemen) per controllare il Corno d'Africa, il Mar Rosso e lo Yemen; il Pan-Sahel, creato alla fine del 2002 e che raggruppa 8 Paesi confinanti (Algeria, Mali, Marrocco, Mauritania, Niger, Senegal, Chad e Tunisia), per impedire che la frangia sahelo-sudanese diventasse terra di nessuno, della quale possono approfittarsi i terroristi per attentare agli interessi statunitensi e ai loro alleati. Infine, gli Usa progettano la creazione di una grande base permanente nel Golfo di Guinea, con un sistema di vigilanza radar nello spazio marittimo di São Tomé e Principe, per assicurarsi l'approvvigionamento di petrolio nella costa occidentale del continente e controllare l'Africa centrale. Di fatto, le importazioni nordamericane di petrolio che vengono dal Golfo di Guinea rappresentano dal 12 al 20% del suo approvvigionamento totale e potrebbero arrivare al 35% nel 2020.

Per rendere chiara la loro volontà di controllare economicamente e militarmente l’Africa, gli Usa creano il Comando Militare Unificato per l’Africa (Africom), annunciato da George W. Bush a febbraio 2007 ed entrato in funzione il giorno 1 ottobre 2007. L’installazione del quartier generale di Africom in Africa è previsto per l’ottobre 2008. Il comando di questo centro è stato affidato al generale afroamericano William E. Ward. Ha come principale compito quello di coordinare e razionalizzare tutte le attività militari e di sicurezza nella zona, dall’Algeria fino a Pretoria. Attività tutte mascherate da operazioni  civili e umanitarie. Esiste una riluttanza da parte dei Paesi africani ad accogliere questa sede, giacché oltre a temere di attirare nel continente i terroristi nella loro guerra globale contro gli interessi nordamericani, considerano l’Africom come lo strumento commerciale degli Usa per raggiungere vari obiettivi: contrastare nel continente l’influenza della Francia e della Gran Bretagna, contenere l’offensiva commerciale cinese, dissuadere i Paesi emergenti che progettano di installarsi in questo continente, come l’India o il Brasile, lottare contro Al Quaeda rafforzando l’iniziativa Pan-Sahel e la lotta contro i Tribunali Islamici in Somalia a partire dal territorio etiope, e assicurare lo sfruttamento del petrolio africano al fine di ridurre la loro dipendenza dal Medio Oriente. Strateghi nordamericani, potenti uomini d’affari con importanti interessi petroliferi e legati alle idee di Samuel Hungtinton (la “teoria dello scontro di civiltà”) e Francis Fukuyama (la “teoria della fine della storia”) pensano che il petrolio africano fa parte della strategia di sicurezza nazionale Usa per preservare lo status di unica potenza mondiale mediante l’eliminazione di tutti i rivali da tutti gli ambienti, in particolare attraverso le azioni militari preventive e unilaterali. Bush si è dato questo obiettivo fin dal suo arrivo alla Casa Bianca nel 2001, ispirandosi alla “dottrina Wolfowitz”, uno dei neoconservatori dell’entourage di Bush e uno degli artefici della guerra in Iraq con la politica mondiale di controllo dell’offerta energetica.

La politica africana degli Usa, nelle mani di Obama o Clinton e di McCain, è un’incognita. La “rivoluzione democratica del mondo” di George W. Bush subirà un chiaro regresso, più con Hillary Clinton o Barack Obama (l’‘incoronazione’ di Obama quale candidato democratico alle prossime elezioni presidenziali Usa è successiva alla pubblicazione del presente articolo, ndt), sensibili ad una certa dose di multilateralismo e di multipolarità, meno con McCain, partigiano dell'unilateralismo politico, economico e militare. In entrambi i casi, la conquista economica dell'Africa continuerà il suo corso al di là della sua conquista militare. n

 

 

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