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FINE-VITA: MA I VESCOVI NON CREDONO NELL’ALDILÀ? UN DOCUMENTO DI “NOI SIAMO CHIESA”

Tratto da: Adista Notizie n° 108 del 31/10/2009

35263. ROMA-ADISTA. Se non si vuole dilatare lo scisma già esistente all’interno della Chiesa è necessario in primo luogo che, sulle questioni del fine-vita e del testamento biologico, si apra un dibattito vero. È questa l’esortazione contenuta nel documento elaborato dalla sezione italiana di Noi Siamo Chiesa e diffuso il 15 ottobre scorso, in concomitanza con la ripresa in Parlamento della discussione sui Dat, le  ‘Disposizioni Anticipate di Trattamento’.

“Per anni - si legge nel documento - la linea dei vescovi è stata quella di ritenere inutile una legge sul fine-vita, preferendo una situazione indeterminata in cui non ci fossero diritti e doveri ben definiti e senza procedure certe a cui fossero tenuti i soggetti coinvolti (personale sanitario e pazienti)”.

La svolta si è avuta nel luglio del 2008 quando il Tribunale Civile di Milano autorizzò Beppino Englaro a staccare il sondino che teneva in vita sua figlia Eluana: in settembre il comunicato finale della Conferenza Episcopale Italiana riunita nel suo Consiglio permanente auspicava che fosse approvata una legge “a fronte del rischio di pronunciamenti giurisprudenziali che aprano la strada nel nostro Paese all’interruzione legalizzata della vita mediante la sospensione dell’idratazione e del nutrimento”. “Da allora - prosegue il documento - questa posizione è diventata la linea della maggioranza di governo”: “I contenuti del ddl Calabrò infatti sono del tutto omogenei alle sollecitazioni della Cei”.

“Quanto risulta poco comprensibile nella linea che sta prevalendo nella maggioranza parlamentare e negli interventi di parte ecclesiastica - sottolinea il documento di Noi Siamo Chiesa - è l’accanita volontà di intervenire sul fine-vita, da una parte con tecnologie sempre più sofisticate e invasive, dall’altra con interventi autoritativi di tipo legislativo. Questi interventi puntano a impedire, in casi estremi, la dignità del morire e soprattutto una vera libertà dell’ammalato nel poter disporre di sé, in particolare in caso di perdita della conoscenza, attribuendo al personale medico un potere di decisione eccessivo (e non gradito)”: “Ciò - si legge - ci sembra tanto più inaccettabile quando questa difesa della sopravvivenza ad ogni costo e con ogni mezzo, e lo scarso rispetto di chi vi è coinvolto, viene da quanti dovrebbero avere sulla fine della vita la convinzione che si tratta di un passaggio a una condizione migliore, come conseguenza di un disegno provvidenziale”. A volte, continua il documento, sembra “quasi di trovarsi di fronte a ragionamenti che riflettono una cultura materialista, quasi ostile al compimento del cammino storico della creatura umana, attaccati alla prosecuzione a tutti i costi della vita terrena come se, oltre, non ci fosse nulla”.

“È a partire dalla nostra convinta presenza nella Chiesa - precisa il documento - che ci permettiamo di esprimere posizioni critiche sulle scelte e sulle argomentazioni che, in questi mesi e su questo problema, sono state espresse dalle gerarchie. Ci sembra che una assenza di ascolto, all’interno e all’esterno della Chiesa, e un insufficiente approfondimento dei problemi siano alla base di prese di posizioni che ci appaiono non sufficientemente meditate”. “Siamo convinti - prosegue il documento - che, su una questione di così grande importanza, non ci possa essere, e neppure apparire, il sospetto che l’obiettivo di ottenere questa legge sia perseguito mediante compiacenze o silenzi nei confronti di politiche odiose sotto altri profili (legge sulla sicurezza, moralità pubblica e privata, rottura delle regole della vita democratica, bocciatura della legge contro l’omofobia ecc…). Siamo anche convinti che esista una sproporzione, facilmente percepibile in tutto il mondo cattolico, almeno in quello italiano, tra questo accanito e assorbente impegno per la difesa della vita biologica e un inferiore impegno a favore della vita dei tanti che nel loro percorso quotidiano sono in condizioni di grave sofferenza fisica o morale o in situazioni sociali difficili. Alla fine della nostra riflessione critica ci sentiamo in diritto di chiedere, e quasi di pretenderlo come atto dovuto, che nella nostra Chiesa su queste questioni si apra una discussione da subito, a tutto campo, sui media e nelle strutture di base e senza che nessuno sia etichettato a priori o come ortodosso o come dissidente. Non esiste infatti un pensiero unico”. Senza una svolta, conclude Noi Siamo Chiesa, “l’assenza di dibattito e questa linea autoritariamente decisa potranno forse, nel breve periodo, soddisfare bisogni di identità o fragili convinzioni di principio o forse ottenere risultati concreti, cioè una legge gradita. Ma, nel lungo periodo, siamo convinti si crei una situazione perdente, sia dal punto di vista dell’annuncio dell’Evangelo che dal punto di vista pastorale e che lo scisma interno, già esistente nella nostra Chiesa, possa estendersi”.

Anche le Comunità Cristiane di Base hanno preso la parola sull’argomento: in un documento diffuso il 21 ottobre scorso, infatti, sottolineano come la spaccatura che si sta verificando sul tema non passi attraverso la divisione fra laici e cattolici o fra credenti e atei, quanto piuttosto “fra laici, di ogni fede, cultura, religione, rispettosi del pluralismo esistente nella società democratica e persone che ritengono di essere coerenti con le proprie idee e la propria fede solo se s'impegnano perché la loro visione della vita e della natura sia imposta a tutti con forza di legge”. “Giovanni Paolo II ha riconosciuto dopo 500 anni l'errore compiuto da chi, in nome della natura e della fede, da essi male interpretate, si oppose a Galileo e gli fece ingiustamente violenza. Rischiano di ripetere lo stesso errore oggi - concludono - quei pastori, teologi e parlamentari che sempre in nome della natura e della fede si oppongono così aspramente a una legge capace di riconoscere il diritto di ogni persona di rifiutare idratazione e alimentazione forzate con dichiarazioni che siano rispettate da tutti anche nel caso che quella stessa persona si trovi in coma irreversibile”. (i. c.)

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