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FRA PAURA E SPERANZA

- Costa d’Avorio: a due mesi dal secondo turno delle presidenziali, i contendenti e i loro militanti sono ancora in lotta

Tratto da: Adista Contesti n° 16 del 26/02/2011

Tratto dal quotidiano cattolico francese La croix (27 gennaio 2011). Titolo originale: La peur règne sur Abidjan

L’appuntamento è nel quartiere di Treichville, 120mila abitanti, davanti ad una stazione di servizio. Ci si ritrova senza salutarsi, la telefonata che ha definito l’incontro forse è stata ascoltata. Si segue una camionetta fino ad una stradina affollata. Là si entra nella gabbia di una scala fatiscente, dove dei bambini mezzo svestiti giocano fra sacchi di riso.

Si va su nella terrazza dell’edificio, proprietà di un guineano, abitato da nigeriani e burkinabé. Si domina il quartiere. Del bucato steso è asciutto, due pecore belano, tre donne accovacciate cucinano, cinque giovani uomini sono seduti.

«Da qui possiamo vedere se le Forze di Difesa e Sicurezza (Fds) pro-Gbagbo entrano nel quartiere», spiega Mohamed. Commerciante ivoriano, originario del nord del Paese, è uno dei cinque commissari politici del quartiere per il Rhdp, la colazione di Alassane Ouattara, recluso all’Hotel del Golf, dall’altra parte della laguna.

 

«Le milizie massacrano per uccidere l’idea di rivoluzione»

«Le milizie di Gbagbo massacrano per uccidere l’idea di rivoluzione nella testa di noi militanti. La gente ora esita a rispondere alle parole d’ordine di mobilitazione che ci invia l’Hotel del Golf. Dopo il 16 dicembre la persone stanno attente».

Quel giorno, Giullaume Soro, il primo ministro di Alassane Ouattara, ha chiamato i suoi sostenitori a marciare sulla televisione pubblica (Rti) nel quartiere di Cocody. A Treichville, come a Abobo (650mila abitanti) o Adjamé (350mila), tre quartieri favorevoli a Ouattara, i giovani erano già scesi in strada.

Le forze pro-Gbagbo che assediavano i quartieri hanno sparato. Dozzine di sostenitori di Ouattara sono caduti. Gli altri si sono ricordati dei 300 morti sotto i colpi delle forze pro-Gbagbo durante un’altra marcia, nel marzo 2004.

Sulla terrazza dell’edificio di Treichville, il racconto dei cinque giovani uomini narra di sangue e di bastonate. Fofana andava alla marcia: «Sono stato fermato dalla guardia repubblicana. Mi hanno chiesto i documenti, hanno visto che il mio nome era del Nord. Mi hanno picchiato e fermato. Come se esistesse un delitto patronimico. Eravamo più di 200 al posto di polizia. Dopo due giorni, la Croce Rossa è venuta e ci ha dato da mangiare. Un ufficiale ivoriano ci sorvegliava. Originario del Nord, aveva brigato per essere messo a guardia delle nostre celle. Non si è allontanato per una settimana, per proteggerci. E poi ci hanno liberato».

«Abbiamo perso le elezioni, ma non vi cederemo il potere»

Quel 16 dicembre, Issiaka era lì per caso. È un giovane nigeriano, commerciante ambulante di vestiti per bambini. È ancora stralunato, mostra il suo braccio ingessato, le ferite lasciategli dalle pallottole, le cicatrici della sua operazione. Seduto vicino a Issiaka, Alì è un militante della Fesci, l’organizzazione studentesca ivoriana. Solo che era favorevole a Ouattara, e questo non è piaciuto al movimento studentesco che sostiene il presidente uscente.

«Dopo il secondo turno delle elezioni, ero a casa, perché non potevo più andare a scuola. La preside mi aveva detto: “Ti tengo d’occhio”. Un camion della guardia repubblicana è venuto da me. Mi hanno schiaffeggiato, picchiato, portato al commissariato. Ho potuto chiamare mio fratello che ha avvertito l’Onuci (Operazione delle Nazioni Unite in Costa d'Avorio, ndt). Il giorno dopo, mi hanno liberato minacciandomi: “Quello che fai è pericoloso. Tu hai tradito la tua organizzazione”».

Issa, un giovane sarto ivoriano, voleva partecipare alla marcia del 16 dicembre. Una pallottola l’ha preso alla spalla. È stato assistito dall’Onuci, ma non potrà mai più servirsi del suo braccio per lavorare. «Ho voluto manifestare perché ci hanno rubato la vittoria. Anche i militanti di Gbagbo lo riconoscono ora. Si beffano di noi dicendoci: “Abbiamo perso le elezioni, ma non vi cederemo il potere”».

 

Ad Abidjan, la minaccia e la speranza vengono dall’estero

A Saint-Albert-le-Grand, una parrocchia adiacente all’università di Cocody, gli studenti sono amareggiati. Prima che un vicario della parrocchia venisse a dir loro che non era possibile parlare con i giornalisti, Silvestre, uno studente pro-Gbagbo, stava spiegando: «Era un errore organizzare queste elezioni senza aver prima disarmato i ribelli. Era un tranello teso a Gbagbo che è stato costretto ad accettarlo. Bisogna che la situazione si risolva in modo pacifico e che i due antagonisti possano discutere».

L’appello alla pace e al dialogo proviene ripetutamente dalla fazione pro-Gbagbo che non capisce «l’accanimento della comunità internazionale nel voler metter su Ouattara», dice Kouakou Krah. Questo deputato Fpl, musulmano della regione del Nord-Est, spiega che il suo candidato «ha vinto secondo le leggi ivoriane, essendo stato riconosciuto vincitore dal Consiglio Costituzionale, mentre Ouattara ha vinto secondo le leggi della comunità internazionale».

Ad Abidjan, la minaccia e la speranza – a seconda da dove si guarda – vengono dall’estero: da un intervento militare esterno o da un embargo alle esportazioni di cacao. Fra i militanti di Ouattara, molti pensano che solo l’estero potrà fare esplodere la potente cappa che opprime Abidjan.

 

«Non siamo come i tunisini che hanno avuto la forza di sollevarsi»

«Non siamo come i tunisini che hanno avuto la forza di sollevarsi. Qui c’è povertà», dichiara Mohamed, a Treichville. Continua ad obbedire all’Hotel del Golf che lancia parole d’ordine specialmente per l’operazione “città morta” destinata a bloccare l’attività economica della città, malgrado i rischi e i problemi di una vita quotidiana già così difficile.

Alcuni vorrebbero che Ouattara li armasse. Altri non si sentono capaci di lottare contro i miliziani reclutati e allenati dalla fazione avversa. È il caso di Youssouf. È lui che fa il corrispondente dall’Hotel del Golf ad Adjamé. Dopo che i suoi vicini gli hanno detto che da lui erano arrivati i poliziotti, ha voluto nascondersi nell’ammezzato di un laboratorio di riparazioni.

«La mia famiglia mi aiuta per mangiare. La notte, passeggio per restare sveglio. Ho la responsabilità di 19 sotto-sezioni del partito, ognuna con una ventina di giovani». Youssouf è riuscito a resistere, con una paura da mal di pancia. Non vuole armi. «Penso che questo legittimerebbe le forze di Gbagbo a massacrarci». Nondimeno vorrebbe trovarsi al Golf: «Per la mia sicurezza, preferirei stare là. Un generale è utile se è vivo», crede.

 

«Il presidente ha promesso che tutto finirà alla fine del mese».

Ma Youssouf non andrà all’Hotel del Golf. I militari pro-Gbagbo non hanno tolto i blocchi attorno all’Hotel. Per andare al Golf bisogna prendere un elicottero dell’Onuci. Il volo, assicurato due volte al giorno, dura sette minuti. Stavolta fra i 27 passeggeri ci sono un ambasciatore occidentale e il suo consigliere, due giornalisti stranieri, tecnici ivoriani della manutenzione. Arrivati al parco dell’Hotel costruito per turisti che non verranno per parecchio tempo, si passa davanti alle tende dove dormono i soldati giordani, senegalesi, bengalesi, dell’Onuci, e alla piscina che serve da lavatoio.

Ismaël è uno dei 200 manifestanti bloccati lì dal 16 dicembre. Gioca a Scrubble a fianco alla sua macchina, con la quale aveva raggiunto il Golf il giorno della marcia. Poi si sdraia sotto il tendone tirato su per la campagna del suo candidato o nella sua macchina, secondo l’umore.

«Per il nuovo anno, il capo di Stato ci ha dato 20mila franchi cfa a testa. Cifra che ci paga il sapone e le ricariche telefoniche per chiamare la famiglia. Siamo nutriti gratuitamente. Il presidente ci ha promesso che tutto finirà nel giro di un mese. È stancante non far niente». Vicino all’elicottero si gioca la semifinale del torneo di football fra la squadra del Rhdp e quella delle Forze Nuove, i militari del Nord addetti alla sicurezza del presidente.

 

La paura non abbandona i militari pro-Ouattara

Ouattara, con il suo governo e la sua amministrazione, vive all’interno dell’Hotel. Hanno accesso al bar e alle camere climatizzate. Un gendarme francese dell’Onuci spiega: «La raccolta delle immondizie e le pulizie avvengono normalmente. I convogli di camion passano per la strada la mattina presto. Certo, le persone dall’altra parte potrebbero tagliare il telefono, l’acqua o l’elettricità. In questo caso si cercherebbero alternative».

Sotto il tendone, un militante si è improvvisato imam. «Conosce bene l’islam. Ci ha detto che Dio voleva che un giorno rimanessimo bloccati qui, ma che ne usciremo presto o tardi e che non bisognerà vendicarsi», spiega Isamel, dopo la preghiera del venerdì.

A Abobo, non si è ancora disposti al perdono. I militanti di Ouattara vorrebbero che prima l’Hotel del Golf consegnasse loro le armi. Da gennaio, hanno sconfitto i Fds, le forze pro-Gbagbo, ad Abobo. Hanno visto membri dell’esercito raggiungerli. Hanno capito che anche loro potevano essere spaventati. Ma in questo bastione pro-Ouattara, la paura non lascia i militanti.

Sanno di essere più numerosi, ma vivono nel terrore delle armi dei loro avversari. La casa di Traoré è stata bersaglio di spari, perché egli è un dirigente del Rhdp di Ouattara. Da allora si nasconde: «Bisogna che trovi vari chili di riso per la ventina di persone che dipendono da me. Qui tutti hanno paura. Le famiglie fanno la colletta per nutrire i giovani che fanno sorveglianza e battono sulle pentole se le milizie la notte vengono a cercare qualcuno».

 

«Credo che abbia i mezzi per farci uscire dal baratro»

Traoré disegna su un foglio la geografia di Abobo: i villaggi dei popoli della laguna, in mezzo ad accampamenti di persone del Nord, come lui; la scuola che serve da accampamento ai mercenari angolani e liberiani, il commissario che recluta in base a criteri etnici e può bloccare la grande strada con controlli o altro, i «Giovani patrioti» del campo Gbagbo che si riuniscono ogni sera nel loro “parlamento”, i giovani reclutati nelle scuole e che fanno footing nelle strade sotto la protezione dei “kalachs” (i kalashnikov, ndt).

Traoré pensa che «tutti quelli che potrebbero rassicurarci qui a Abobo sono al Golf». Intanto, «in questa polveriera vede il campo di fronte armarsi rapidamente. Ci vogliono massacrare».

Per ora questi militanti continuano a combattere la loro paura, perché credono nel loro presidente. Accettano, loro, i giovani, di essere in prima linea, mentre i più grandi non si espongono. «Quando sono stato arrestato dai Cecos (Centro di Comando delle Operazioni di Sicurezza, ndt), si sono stupiti che fossi diplomato. Trovano aberrante che degli intellettuali corrano rischi per Ouattara».

Questi militanti seguono il loro presidente, non solo perché è un uomo del nord del Paese come loro. Ad Adjamé, Tahirou riassume la sua lotta a mani nude: «Credo che ci siano le possibilità per farci uscire da questo baratro. Desidero che il potere gli sia reso in modo pacifico. Ho già 38 anni e gli anni passano in questo abisso. Più l’epilogo tarda, più tutto ciò ci danneggia».

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