Obama e il Medio Oriente Cambia la storia ma non le parole
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 45 del 04/06/2011
Voglia di ascoltare o paura di soccombere? Anche stavolta i potenti si dimostrano non all’altezza della reale situazione dei popoli. Un discorso tanto atteso, quello tenuto da Obama il 19 maggio scorso, a due anni da quello del Cairo, che mi ha profondamente deluso per le sue affermazioni sul conflitto israelo-palestinese.
Un discorso che non passerà alla storia perché, nel contesto straordinariamente nuovo di rivoluzioni profonde, ha espresso le vecchie logiche di una politica incapace di ascoltare le richieste dei popoli in rivolta, tremendamente impaurita di venire travolta da questo vento impetuoso di novità.
Certo Obama ha detto che «i confini di Israele e Palestina dovrebbero essere basati su quelli del 1967, con delle correzioni stabilite di comune accordo, così che possano essere individuati e stabiliti confini sicuri». E che «il popolo palestinese ha il diritto di governarsi e realizzare le proprie potenzialità in uno stato sovrano». E allora ci viene da sussurrare «è già qualcosa», abituati come eravamo alle esternazioni di Bush. Ma cosa significa oggi questo per la geografia politica di quella regione? Cosa prevede Obama? È al corrente del “groviera di fatto” in cui è ridotta la Cisgiordania? Sa che questa sua proposta significherebbe smantellare le colonie (tutte illegali), abbattere il muro, liberare Hebron, restituire terre, case, strade e proprietà ai palestinesi, legittimi abitanti di una terra devastata? È disposto davvero a intraprendere questa strada?
Il raggiungimento di questi obiettivi, che sono la speranza di chi in Israele e in Palestina cerca pace, non è impossibile. Temo però che il presidente Usa abbia semplicemente fatto uso di un po’ di retorica, smentendosi poi con numerosi lapsus e ossimori che rivelano la sua vera paura, che intralcia l’onestà di un progetto di pace per quella terra.
Ripetutamente Obama evoca la sicurezza, ma la affianca sempre e solo ad Israele, che egli riconosce come “Stato ebraico” (v. Adista n. 83/10, ndr) per due volte. «Una pace duratura potrà esserci solo con due Stati per due popoli. Israele come Stato ebraico, patria per il popolo ebraico, e la Palestina come patria dei palestinesi». È gravissimo avallare la definizione di Israele come “Stato ebraico”, quindi confessionale ed etnico, e accostarvi (ecco l’ossimoro) l’aggettivo democratico, come fa Obama in un altro passaggio, senza pensare al diritto all’esistenza e alla legittima permanenza in Israele di quel milione e duecentomila cittadini israeliani che ebrei non sono. Che progetto di pace ha per loro il presidente?
«Una Palestina indipendente, un Israele sicuro». Perché Obama non usa il plurale? Perché non ipotizza la realizzazione di due Stati indipendenti e sicuri? Perché non fa il salto di qualità e sogna, con i popoli del Mediterraneo, sicurezza per tutti e libertà per tutti? Ecco il lapsus. È così preoccupato di garantire la sicurezza ad Israele, che nemmeno accenna al fatto che la sicurezza deriva dalla fiducia reciproca, e questa dal rispetto dei diritti di tutti. E arriva così ad affermare che la Palestina dovrebbe nascere come «Stato sovrano e non militarizzato». Sarei davvero felice che l’imposizione riguardasse tutte e due le parti in conflitto. Ma questo non sembra il ragionamento di Obama, visto che ha affermato anche che «dal punto di vista della sicurezza, ogni Stato ha il diritto all’autodifesa e Israele dev’essere capace di difendersi da sé contro qualsiasi minaccia». Ancora una volta, Israele ha il diritto sacrosanto di difendersi militarmente. La Palestina invece, diventasse mai uno Stato, sarà “sovrana” e “indipendente” solo nella misura in cui garantirà la sicurezza... a Israele!
«Ora, non possiamo esitare a schierarci dalla parte di chi sta cercando i propri diritti». In conclusione, Obama afferma di schierarsi dalla parte dei deboli, di chi chiede diritti. Mi domando a chi sta pensando. Mi domando perché ritiene inaccettabile che Hamas e Fatah siano finalmente giunti ad un accordo, per quanto travagliato. Perché i deboli, quando si mettono insieme, fanno paura, invece che far sorgere il sorriso sulle labbra di chi si propone come pacificatore?
Eppure, ho ancora nell’orecchio il grido Kifaya! (basta!), che come una brezza primaverile ha accompagnato i giovani delle piazze mediorientali. Quando il vento è giunto anche tra i giovani palestinesi, in pochi ce l’hanno raccontato. Eppure è con loro, non attraverso vecchie logiche e stanchi sterili proclami, che la pace potrebbe iniziare a respirare.
* Pax Christi (bettatus@libero.it)
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