“Vite senza corpi”, vive nella memoria. Per ricordare il dramma dei desaparecidos
Tratto da: Adista Documenti n° 56 del 16/07/2011
DOC-2367. ROMA-ADISTA. Qualsiasi volto abbia, il male non può avere l’ultima parola. Neanche quel male, pur dilagante, che domina la vicenda della Esma, la Scuola di Meccanica della Marina di Buenos Aires diventata durante la dittatura il più noto centro di detenzione clandestina: «uno degli esempi più tragici del genocidio perseguito con lucida spietatezza dai militari golpisti», come la definisce Cristiano Colombi del Sal, curatore, insieme a Jorge Ithurburu di 24marzo Onlus, del volume Vite senza corpi. Memoria, Verità e Giustizia per i desaparecidos italiani all’Esma (ed. Goreé, Siena, 2011, 16 euro), un libro che raccoglie le storie e le testimonianze legate al secondo dei processi sui desaparacidos svoltisi in Italia (dopo quello, conclusosi in primo grado il 6 dicembre del 2000, contro Guillermo Suarez Mason, Santiago Omár Riveros ed altri che Adista ha seguito con attenzione per tutta la sua durata; v. nn. 19/95; 9, 19 e 25/96; 15, 49 e 67/97, 9 e 44/99; 41, 47, 83 e 89/00; 24/01).
«Un disegno di sterminio - quello cui rispondeva la Esma - subdolo, nascosto, clandestino, che creava una sorta di realtà parallela, una realtà di morte e di oblio, che per funzionare doveva allo stesso tempo affermarsi e negarsi». Un disegno che doveva «sembrare perfetto ai suoi autori», evidenzia Colombi, ma che pure «non ha funzionato»: «La sparizione di decine di migliaia di vittime non è servita a cancellarne la memoria. Le loro vite si sono inabissate nel profondo dell’oceano, ma sono riemerse. Le loro storie hanno continuato ad essere scritte da chi non è sparito», alimentate «dalla speranza, dalla perseveranza, dalla dedizione. Dalle testimonianze di chi, non importa come o perché, è sopravvissuto». Così, i fili dei ricordi si sono intrecciati di nuovo. Le sequenze del Dna sono state ricostruite. Il lavoro collettivo è ripreso. Si è diffuso, ha convocato chi era stato disperso, ha contagiato nuove persone».
Ed è proprio frutto di questo lavoro collettivo il processo Esma (relativo ai casi «semplicemente simbolici» di Angela Maria Aieta e Giovanni e Susana Pegoraro), di cui i testi raccolti nel libro ripercorrono la vicenda lungo i tre gradi di giudizio, dando conto del lavoro paziente di preparazione, degli oltre trenta anni di lotta per la verità, dei «sentimenti di passione, indignazione, amore, solidarietà» che, conclude Colombi, «ci sono oggi consegnati dalle vite scomparse, ma non uccise».
Sono i sentimenti che emergono dalla toccante cronaca del processo ricostruita dalla giornalista Cecilia Rinaldini, nello svolgersi delle udienze di Rebibbia (8 giugno 2006-14 marzo 2007) fino alla condanna all’ergastolo di cinque alti militari legati al famigerato grupo de tarea 3.3.2, «gruppo operativo che all’interno della Esma decideva chi dovesse sopravvivere e chi morire», come spiega nella sua requisitoria il Pm Francesco Caporale. Si tratta di Jorge Raul Vildoza, comandante del gruppo; di Jorge Acosta, «la mente perversa che - riferisce Uthurburu - dirigeva i sotterranei della Esma e diceva di ricevere i nomi dei morituri direttamente da Dio»; del tenente Alfredo Astiz, «uno che - spiega Caporale - godeva nel raccontare agli internati la fine che facevano le persone gettate in mare»); di Antonio Vañek, il numero due della Marina dopo il golpista Massera; e del prefetto navale Héctor Antonio Fébres, il responsabile della sottrazione dei neonati, assassinato in un carcere della provincia di Buenos Aires («probabilmente - scrive l’avvocato Nicola Brigida - perché non rivelasse l’elenco dei militari che “rubarono” i neonati appena partoriti dalle madri “in cattività”») prima del processo di appello, il 10 dicembre 2007. Ed è proprio sulle sofferenze delle donne che all’Esma hanno partorito e sono state private dei loro bambini e uccise che si sofferma il racconto dell’avvocato Marcello Gentili, in particolare riguardo al caso della gravidanza e del parto della giovanissima Susana Pegoraro, del trafugamento della sua bambina e dell’omicidio della madre.
E, accanto a questo, il caso - ricostruito nel libro dalla giornalista Anna Maria De Luca - di Angela Maria Aieta, «la semplice ragazza giunta dalla Calabria» che da madre, moglie e nonna «diventò una spina nel fianco della dittatura». Sequestrata il 5 agosto 1976 da un gruppo di militari - «quindici, a bordo di tre macchine, per sequestrare una casalinga cinquantacinquenne» - e condotta alla Esma, Angela è rimasta fino alla fine, come ha testimoniato un’altra detenuta, Marta Remedios Alvares, una persona «capace di offrire aiuto, capace di credere di poter fare ancora qualcosa per qualcuno». Una persona in grado di conservare quell’integrità continuamente minacciata nei campi di sterminio. «Ogni giorno – scrive nel suo impressionante intervento dedicato al tema della tortura Mario Villani - avevo un unico obiettivo, arrivare in vita al giorno dopo. Ma non si trattava semplicemente di sopravvivere, ma di sopravvivere come me stesso, il più integro possibile. Mi terrorizzava l’idea che riuscissero a farmi diventare simile a loro». Ed è proprio per questo che, sottolinea Villani, la cosa peggiore non era la tortura fisica, ma quella psichica, quella che poneva continuamente il detenuto di fronte a «situazioni dilemmatiche – “maledetto se lo fai!, maledetto se non lo fai!” - » di cui gli esempi offerti da Villani mostrano tutta la possibile spietatezza; quella che si traduceva in tecniche di distruzione della personalità, «contro le quali abbiamo dovuto lottare, non sempre con successo, noi prigionieri dei campi». E, passando dalla tortura ai torturatori, il ritratto che ne offre Villani è quello di burocrati che «si recavano quotidianamente alla sala delle torture come chi va in ufficio. Finito il loro lavoro, tornavano nelle loro case ed ai loro quartieri e svolgevano la vita di un normale cittadino. Si recavano al cinema con le loro mogli, allo stadio a vedere una partita di calcio, controllavano i compiti dei loro figli ed alcuni si recavano persino in chiesa». È la quotidiana banalità del male di cui parla anche l’avvocato Giancarlo Maniga, quella di «un vasto strato di genere umano che operava, ormai, per banale e quotidiana routine»: «Ogni giorno, dall’alba al tramonto, una routine di nefandezze; giustificata da ordini superiori ottusi, ritrasmessi e accolti acriticamente con pari ottusità. Così per anni. Poi, col successivo cambio di regime e con la cessazione di tali atroci consuetudini, il rientro nella normalità di occupazioni usuali, sempre con apparente “sostenibile” leggerezza. Come se nulla fosse accaduto». Ma, anche al di là delle nefandezze dei torturatori, la crudeltà di chi, alle richieste disperate delle madri in cerca dei loro figli scomparsi, rispondeva: «Signora non si preoccupi tanto per sua figlia, faccia finta che è in vacanza», come ricorda Vera Vigevani Jarach nel suo racconto sugli inizi delle Madres de Plaza de Mayo, di cui è stata una delle prime protagoniste. E, di fronte a tutto ciò, il grande valore della memoria, «la Memoria – scrive la Vigevani - come baluardo contro i genocidi, il terrorismo di Stato, la repressione, le dittature. Per non restare mai indifferenti, per non restare mai più passivi».
Di seguito, alcuni stralci del capitolo di Cecilia Rinaldini (claudia fanti)
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