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ELEZIONI IN GUATEMALA: SUL PAESE LA MINACCIA DEL PUGNO DI FERRO

Tratto da: Adista Notizie n° 67 del 24/09/2011

36300. CITTÀ DEL GUATEMALA-ADISTA. Per la fragile democrazia guatemalteca, traballante frutto degli accordi di pace firmati dal governo e dalla guerriglia nel 1996, non si preannuncia nulla di buono: il candidato dell’estrema destra, l’ex generale Otto Pérez Molina, del Partito Patriota, non è riuscito a imporsi già al primo turno delle elezioni generali, l’11 settembre scorso, ma è difficile che al ballottaggio del prossimo 6 novembre la vittoria possa sfuggirgli. A contendergliela, peraltro, sarà comunque un candidato di destra, Manuel Baldizón, di Libertà Democratica Rinnovata (Lider), il quale è riuscito a intercettare parte dei voti che erano destinati a Sandra Torres, la ex moglie dell’attuale presidente Álvaro Colom, a cui è stata negata l’iscrizione come candidata presidenziale del partito al governo, l’Unione Nazionale della Speranza (Une), di carattere vagamente socialdemocratico (il suo divorzio da Colom non è bastato ad aggirare la legge che impedisce ai parenti dei presidenti in carica di presentare la propria candidatura).

Di certo, se ad assumere la guida del Paese fosse Pérez Molina, non ci sarebbe da dormire sonni tranquilli: indicato dagli organismi di difesa dei diritti umani come responsabile dei massacri nella regione indigena del Quiché, durante gli anni ’80, accusato dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani dell’assassinio del guerrigliero Efraín Bámaco, nel 1992, e sospettato di coinvolgimento nel caso dell’omicidio di mons. Juan José Gerardi, Molina ha già promesso di governare «con pugno duro» per porre fine alla violenza che devasta il Paese (con un bilancio di 15-20 vittime al giorno), senza escludere il ricorso a task forces proprio della tattica militare usata dall’esercito contro la guerriglia negli anni ’80 e ’90. Una tattica che, secondo Karl Heuberger, responsabile per il Centroamerica dell’ong evangelica svizzera Heks-Eper, colpirebbe «principalmente i difensori dei diritti umani e il movimento sociale nella sua totalità». E «la cosa curiosa, o tragica, o patetica – sottolinea Petrona Ixcoy su Rebelión del 26 luglio,  – è che molta gente, anche nella zona di guerra in cui egli ha commesso massacri, voti per lui».

Davvero in pochi, poco più del 3%, hanno votato invece per il premio Nobel per la Pace Rigoberta Menchú (con un programma riformista invero assai timido), sostenuta da una coalizione, il Fronte Ampio, di cui fanno parte, tra l’altro, l’ex guerriglia dell’Urng (Unità Rivoluzionaria Nazionale Guatemalteca) e il partito indigeno Winaq, in un Paese, peraltro, in cui il 70% della popolazione è indigeno (assai significativo che i rappresentanti maya al Congresso non superino la decina).

 

La violenza della povertà

Se il tema della violenza (tanto del crimine organizzato quanto della delinquenza comune) è stato al centro del dibattito politico, opportunamente gonfiato dai mezzi di comunicazione, non è di sicuro questo il principale problema del Paese, essendo la violenza, come ha sottolineato il gesuita Juan Hernández Pico, strettamente vincolata «alla povertà, alla negazione della dignità umana, al razzismo». Quella povertà che, evidenzia il gesuita, provoca la denutrizione del 49% dei bambini e che spinge ad affrontare «la terribile minaccia della “Bestia”» (come viene chiamato il treno che attraversa il Messico diretto alla frontiera con gli Stati Uniti, sul cui tetto si ammassano i migranti, che spesso finiscono per cadere a causa della stanchezza) o «gli attacchi della polizia messicana e dei narcos» o «i disumani pericoli del deserto dell’Arizona». Come evidenzia Marcelo Colussi su Argenpress del 14 settembre, «la maggiore causa di morti quotidiane non è data da fatti violenti, ma dalla denutrizione», aggravata da una crisi alimentare prolungata riconducibile alla cessione di grandi estensioni di terre coltivabili alle transnazionali legate alla produzione di agrocombustibili, all’attività mineraria e a progetti idroelettrici – in prima fila la canadese Goldcorp e l’italiana Enel - con la conseguente distruzione della produzione indigena e contadina locale. «Ci troviamo – spiega in un’intervista rilasciata al giornalista uruguayano Raúl Zibechi (Adital, 2/8) il docente universitario Mario Godínez, dell’organizzazione ambientalista Ceiba – di fronte a un fenomeno di espansione del modello capitalista per due vie: la crescita dell’agrobusiness, soprattutto della canna da zucchero e della palma africana, e l’estensione dell’attività mineraria», di fronte a cui però cresce la resistenza delle comunità indigene e contadine in difesa delle risorse naturali. «Le consultazioni comunitarie contro i progetti minerari hanno dato vita a un processo di resistenza che si è esteso a tutto il Paese», ma che si scontra con forze potentissime: «Prima – spiega Godínez – sapevamo da dove veniva la repressione. Oggi la questione è molto più delicata: ti può attaccare un cartello di narcos per conto di un’impresa, o direttamente l’impresa con le sue guardie private, o lo stesso Stato».

Tra i tanti conflitti in corso, si tenta la via del dialogo nel conflitto che oppone l’Enel Green Power (la società del gruppo Enel che gestisce il business relativo alle energie rinnovabili) alla comunità maya ixil di Cotzal, relativamente alla costruzione da parte dell’impresa italiana della centrale idroelettrica di Palo Viejo, nel Quiché (v. Adista n. 26/11). Dopo i momenti di massima tensione vissuti lo scorso marzo, quando centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa hanno seminato il terrore nella comunità indigena, ha preso il via a maggio, con la mediazione, tra gli altri, di mons. Álvaro Ramazzini, un difficile dialogo tra l’azienda e la comunità, con gli indigeni che rivendicano il diritto di amministrare il 20% dell’energia elettrica prodotta, oltre alla richiesta di un indennizzo di 8 milioni di quetzales annui nei primi vent’anni per i danni causati dall’opera, e l’Enel che prende tempo, forse in attesa, sospetta la comunità, che arrivi al potere l’uomo del “pugno duro”, Pérez Molina - per di più cognato del rappresentante generale dell’Enel in Guatemala - a risolvere la vertenza a colpi di repressione (vertenza di cui si sta occupando in Italia la “Campagna di solidarietà con le comunità Maya-Ixil del Guatemala”, coordinata da Pippo Tadolini, pippotadolini@tin.it). E non è un caso che, tra tutti i candidati a sindaco di Cotzal, l’unico che si è rifiutato di impegnarsi a sostenere le richieste della comunità indigena sia proprio quello del Partito Patriota di Pérez Molina. (claudia fanti)

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