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COME USARE LA SPESA PUBBLICA PER DIRITTI, PACE, AMBIENTE

Tratto da: Adista Documenti n° 44 del 08/12/2012

IL “CAMBIO DI ROTTA” DI CUI HA BISOGNO L’ITALIA

La Legge di Stabilità del 2013 si colloca dentro il quadro di una crisi i cui dati sono noti: quest’anno il Pil diminuisce del 2%, un terzo dei giovani non ha lavoro, la spesa sociale si è di fatto dimezzata provocando uno smantellamento del welfare, abbiamo oltre 160 crisi industriali in atto con il rischio di perdere altri 300mila posti di lavoro, più di un miliardo di ore di cassa integrazione nel 2012, più di un milione di posti di lavoro persi dall’inizio della crisi, il potere d’acquisto tornato ai valori di dieci anni fa, oltre cinquanta comuni di media grandezza che il prossimo anno rischiano il dissesto finanziario e di non poter pagare più gli stipendi ai propri dipendenti. (...).

Noi proponiamo un “cambio di rotta”: basta con il neoliberismo, basta con le politiche di austerity, basta con la subalternità ai mercati finanziari, basta con una politica economica che sta aumentando le sofferenze sociali e accentuando la depressione e la recessione dell’economia reale. Basta con una cura da cavallo che sta uccidendo il cavallo. (…).

Si sottoscrivono misure sbagliate e insostenibili come il Fiscal Compact (il “Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria”, ndr): per rispettare quegli impegni dovremmo avere 5-6 punti di avanzo primario l’anno per 20 anni da destinare alla riduzione del debito. Per intenderci: 40-50 miliardi l’anno di manovre per 20 anni. Il governo Monti, delle tre parole con cui ha avviato la sua opera riformatrice – rigore, crescita ed equità – ha applicato solo la prima e solo a danno dei lavoratori, dei pensionati e dei giovani. Ha varato discutibili provvedimenti sulle pensioni e sulla riforma del mercato del lavoro. Le misure sulle liberalizzazioni sono state un flop. E poi tanti, tanti tagli: alle risorse come ai diritti. (…).

La politica italiana si è attardata sugli equilibri nelle coalizioni, sulle alleanze e sulle convulsioni di un sistema politico allo sbando. È mancato largamente in questi mesi il merito dei problemi: il programma e gli obiettivi che sarebbe necessario darsi per fronteggiare la crisi e avviare un modello di sviluppo radicalmente diverso da quello che abbiamo conosciuto fino ad oggi. (…). Nel merito, tutto il dibattito (quando c’è) si sta riducendo a essere a favore o contro il “montismo” (la scelta è scontata), come se si trattasse di una sorta di mantra che ci evita di affrontare le questioni concrete che abbiamo sul tappeto e che Sbilanciamoci! e altri hanno posto in questi mesi (…).

Il “cambio di rotta” di Sbilanciamoci! consiste, dunque, nell’uscire dalla crisi in un modo diverso da quello con cui ci si è entrati. Serve un modello di sviluppo in cui alcune merci, consumi, pratiche economiche siano giustamente condannate alla decrescita (il consumo di suolo, la mobilità privata, la siderurgia inquinante) e altre siano invece destinate a crescere; quelle di un’economia diversa che abbia tre pilastri: la sostenibilità sociale e ambientale; diritti di cittadinanza, del lavoro, del welfare degni di un Paese civile; la conoscenza come architrave di un sistema di istruzione e di formazione capace di far crescere il Paese con l’innovazione e la qualità. Ma non c’è possibilità di uscita dalla crisi se non si ristabiliscono condizioni di uguaglianza e di giustizia economica e sociale: serve una redistribuzione della ricchezza del 10% più agiato a favore del 90% della popolazione che soffre il peso della crisi. (…).

Il “cambio di rotta” che vogliamo deve ripartire, ancora, dalle persone, dagli anziani e dai disabili che sono abbandonati dallo Stato, dagli operai dell’Alcoa che devono salire sui silos per farsi ascoltare, dai cittadini immigrati lasciati affogare nel canale di Sicilia, dai giovani che tornano a emigrare all’estero, dagli studenti che vengono espulsi dalle università, dalle donne discriminate sui posti di lavoro. Dalle persone, da loro si costruisce il cambiamento di cui abbiamo bisogno: ascoltiamo la loro voce, le loro sofferenze, le loro speranze. (...).

IL QUADRO GENERALE

(…) L’ampiezza delle cinque manovre dei governi Berlusconi e Monti per il triennio 2012-2013-2014 sfiora i 120 miliardi di euro (Banca d’Italia), a cui devono essere contabilizzati i nuovi provvedimenti della Legge di Stabilità. L’effetto delle manovre è stato quello di una crescita del Pil negativa per il 2012 (-2,4%), con delle previsioni “ufficiali” per il 2013 pari a -0,2%. (…). Utilizzando un modello prudenziale relativo all’impatto dei provvedimenti adottati dal governo sulle previsioni economiche, le stime di crescita del Pil per il 2013, in realtà, dovrebbero essere comprese tra -2,5 e -3%. (…). Inoltre, indipendentemente dalle manovre correttive, il debito pubblico continua a crescere. (…).

LE MANOVRE DI MONTI

Fin dai primi giorni il governo Monti ha concentrato i suoi sforzi su provvedimenti necessari per ristabilire l’equilibrio finanziario pubblico compromesso dalla crisi. (...). Tra i provvedimenti del governo, i più significativi in termini di impatto sui conti pubblici sono tre: il decreto Salvaitalia di fine 2011, la Spending Review di agosto 2012 e il Decreto di Stabilità di novembre 2012. (…).

Il Decreto Salvaitalia. Il Decreto Salvaitalia di fine 2011, concepito con l’obiettivo di dimostrare ai mercati internazionali e alle istituzioni europee la capacità del governo di raggiungere la stabilità finanziaria, si è concentrato su un mix di maggiori entrate e minori uscite ancora più pesante delle manovre estive.

Le attese, alla vigilia del provvedimento, di tassazioni sui grandi patrimoni e sul lusso e di inasprimenti fiscali sui capitali scudati sono state deluse da una legge che, a fronte di misure timide su questi aspetti, si accanisce sui ceti meno abbienti (con un reddito disponibile già eroso dalle manovre precedenti), che si ritrovano a pagare gli inasprimenti fiscali dell’Imu, dell’Iva, delle accise e delle addizionali Irpef. I lavoratori dipendenti che già subiscono le ristrettezze della cassa integrazione, dello spettro della disoccupazione, delle dinamiche salariali in stallo e, nel caso del pubblico impiego, addirittura dei salari congelati, sono stati il principale bersaglio del Decreto Salvaitalia.

Proprio i lavoratori dipendenti pagano il salvataggio dell’Italia con pensioni più basse e più lontane nel tempo, minori garanzie sul lavoro, grazie anche alla riforma Fornero, che ha abbassato sia gli oneri monetari sia quelli amministrativi per le imprese che licenziano, seguendo la logica che il recupero di competitività delle imprese italiane si ottiene rendendo i licenziamenti più economici. (…). Le imprese sono considerate le uniche destinatarie di spesa pubblica meritevoli di attenzione per lo sviluppo: esse beneficiano di provvedimenti favorevoli come quelli sullo sviluppo e la semplificazione degli oneri amministrativi. Nella logica del governo ogni euro lasciato nelle tasche degli imprenditori rende molto di più per la crescita di quelli lasciati nelle tasche di lavoratori e pensionati. Nel dettaglio, il Decreto Salvaitalia prevede fra il 2012 e il 2014 di aumentare le entrate di 80 miliardi di euro, grazie all’Imu, alle accise sulla benzina e all’addizionale Irpef, ovvero a tipologie di prelievi che colpiscono prevalentemente i cittadini meno abbienti.

I capitali scudati passano pressoché indenni gli effetti del decreto, con un gettito simile a quello dell’imposta sui titoli (non scudati); l’Imu, che colpisce anche la prima casa dei cittadini, in realtà prevede un ventaglio di esenzioni, tra cui spicca quella per la Chiesa, ed agevolazioni (ad esempio l’Imu ridotta per i costruttori). Sul versante delle spese, si nota come le vittime della manovra siano i pensionati odierni e futuri e gli enti territoriali. Questi ultimi, già bersagliati dalle manovre estive, si ritrovano con minori trasferimenti statali per quasi 8,4 miliardi di euro in tre anni. Per i cittadini, il Salvaitalia significa meno servizi, più tasse e un modello economico di riferimento basato sul liberismo dei grandi gruppi di potere internazionali.

La Spending Review. (…) La Spending Review, che dovrebbe consistere in una riallocazione razionale delle risorse, nella versione del governo Monti è un taglio generalizzato alle risorse della pubblica amministrazione locale e centrale che vale quasi 26 miliardi di euro in tre anni. Nell’ampio spettro delle misure incluse nella legge, spiccano i tagli agli enti locali, alla sanità e ai ministeri che si concretizzano non solo in minori costi di gestione degli uffici, ma anche in tagli lineari ai trasferimenti agli enti locali, già colpiti pochi mesi prima, e alle piante organiche della pubblica amministrazione. L’applicazione, ancora non completa, di tutte le misure previste dal provvedimento dovrebbe ridurre il personale statale tramite pensionamenti anticipati e mobilità, per diverse decine di migliaia di unità, pregiudicando l’erogazione di alcuni servizi e il funzionamento stesso delle strutture. (...).

La Legge di Stabilità. (…). Il segno politico della Legge di Stabilità è la continuità. (…). Inoltre, l’ulteriore riduzione dei trasferimenti agli enti locali, complessivamente pari a 2.200 milioni di euro, e il taglio di 1.800 milioni dei ministeri prefigurano una pubblica amministrazione residuale rispetto all’insieme dell’economia del Paese. (…). Così facendo, diventa sempre più difficile giustificare le tasse se ad esse non corrisponde un servizio. Il taglio agli enti locali e alla sanità rischiano di compromettere quel delicato equilibrio tra imposte e servizi che rendono un Paese civile e moderno. (…).

GIUSTIZIA E LEGALITÀ FISCALE

In questi anni abbiamo avuto un’enorme redistribuzione della ricchezza dal 90% al 10% della popolazione più agiata. Questa redistribuzione è avvenuta anche grazie a politiche fiscali che hanno favorito la rendita finanziaria, i capitali, le classi di reddito più alte. (...). La strada del cambiamento passa attraverso una nuova politica fiscale che colpisca le rendite finanziarie, che sia fortemente progressiva, che investa le produzioni e i consumi socialmente ed ecologicamente dannosi. (…). Serve una politica fiscale di favore per il lavoro, i beni comuni, l’ambiente e l’economia verde, la produzione di beni e servizi pubblici e sociali. Abbiamo una pressione fiscale alta, ma non insostenibile. Quello che serve è una redistribuzione del “carico fiscale” con un’accentuazione della pressione sui privilegiati e il 10% di agiati a favore della società e del lavoro. La tassazione sul patrimonio è in vigore in molti Paesi europei e in alcuni di questi l’imposizione fiscale sugli scaglioni più alti di reddito è maggiore che in Italia.

Colpire l’evasione. In Italia la forma più alta di ingiustizia fiscale è l’evasione. È anche in questo campo che si manifesta il collante di un anomalo blocco liberista che unisce i corposi interessi del 10% di privilegiati (grazie al trattamento di favore verso la rendita e la speculazione) e una parte dei “nove su dieci” che dall’evasione fiscale o dalle piccole forme di elusione dei doveri fiscali (…) hanno tratto piccoli, ma concreti vantaggi. (…). Quali potrebbero essere le misure da varare? In particolare, per le imprese, la reintroduzione del reato del falso in bilancio e dell’elenco clienti-fornitori (che permette l’incrocio dei versamenti e dell’adempimento degli obblighi fiscali) cancellato da Tremonti, l’obbligo di ispezione fiscale delle imprese dopo tre anni di denuncia di mancati ricavi. Gli operatori finanziari italiani che hanno sedi operative o legali nei paradisi fiscali dovrebbero subire sanzioni di carattere normativo e amministrativo (da definire). È necessario poi portare la riduzione a 300 euro dell’uso del contante e l’obbligo della tracciabilità dei pagamenti per l’acquisto di beni e servizi a favore delle imprese.

Penalizzare i privilegiati e gli speculatori. In questa crisi i ricchi non stanno pagando alcun prezzo. Negli ultimi anni lo scudo fiscale e l’allentamento della lotta all’evasione fiscale li hanno ancora di più premiati. Si impone il varo di una tassa patrimoniale permanente sopra il milione di euro, con una base imponibile minima del 5X1000, aumentata progressivamente con l’entità dei patrimonio. Le rendite finanziarie dovrebbero essere tassate alla fonte con un’imposizione fiscale e la Tobin Tax – come promesso dall’ultima Legge di Stabilità del governo Monti – dovrebbe essere rapidamente introdotta.

Rendere progressivo il sistema fiscale. Il nostro sistema fiscale ha perso in questi anni la sua impronta progressiva. Non si tratta solo di raccogliere più risorse, quanto di dare un maggiore senso di giustizia fiscale. Per questo le aliquote e gli scaglioni dovrebbero essere rivisti radicalmente. Sopra i 70mila euro l’imposizione fiscale dovrebbe essere del 50%, sopra i 150mila euro del 60% e sopra i 200mila euro del 70%. Contemporaneamente dovrebbe essere ridotta di due punti l’imposizione fiscale sui redditi inferiori ai 23mila euro. Detrazioni e deduzioni non dovrebbero essere possibili per redditi familiari complessivi superiori ai 70mila euro.

Un fisco per orientare produzioni e consumi. Serve innanzitutto una “fiscalità ambientale” che colpisca le produzioni dannose per l’ambiente. La misura principale è la Carbon Tax sulle emissioni di Co2, sperimentata solo temporaneamente in Italia nella seconda metà degli anni ‘90 e poi non più applicata. La tassa di circolazione sulle automobili dovrebbe essere proporzionale – come già avviene in Francia – all’emissione di Co2 e non alla potenza del motore. Accanto a questa servirebbero misure – mantenendo quelle attuali – di incentivazione fiscale per le energie rinnovabili, la mobilità sostenibile, il lavoro (le assunzioni a tempo indeterminato), il welfare (a favore di chi – soggetti pubblici e no profit – eroga servizi sociali). (…). Andrebbe accentuata la pressione fiscale a danno delle imprese che fanno ricorso al lavoro precario e andrebbe resa più pesante la pressione fiscale su alcune produzioni, attività economiche, servizi socialmente dannosi: dalla tassa sul porto d’armi al mercato invasivo della pubblicità, dal business dei diritti televisivi sul cosiddetto sport spettacolo ai consumi di lusso. (…).

AMBIENTE E SVILUPPO SOSTENIBILE

L’ambiente nella Legge di Stabilità. Di fatto ormai – anche a causa della Legge di Stabilità e del Bilancio dello Stato – stiamo assistendo ad una progressiva “liquidazione” del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e degli enti da questo vigilati, che ha origine nei provvedimenti sulla contrazione della spesa pubblica approvati nel 2010, e per la marginalità che la spesa ambientale ha anche nel Ddl sulla Legge di Stabilità 2013 (…). Questa tendenza non è stata né contenuta né invertita dal governo in carica, che attraverso le “riduzioni lineari” prodotte dal decreto sulla Spending Review ha portato il bilancio annuale di questo dicastero a poco più di 450 milioni di euro. Ciò significa che nell’arco di quattro anni le risorse destinate al Ministero dell’Ambiente sono state ridotte di 3/4 (…).

In pratica, rileviamo che nel nostro Paese c’è un Ministero, di gran lunga all’ultimo posto tra i dicasteri con portafoglio, che sopravvive a se stesso, avendo a malapena le risorse per pagare il personale e vede praticamente azzerata la sua capacità operativa, mettendo in seria discussione nei fatti non solo la sua vocazione alla tutela dell’ambiente, del territorio e del mare, ma la sua stessa esistenza. (…).

Ci domandiamo, inoltre, come si possa andare avanti con questa evidente marginalità delle risorse dedicate alla tutela del patrimonio ambientale del Paese o più in generale alla messa in sicurezza del territorio, che di fatto è la più grande opera pubblica su cui sarebbe prioritario investire. Il ministro Corrado Clini, nel giugno 2012, ha dichiarato che sarebbe necessario avviare a questo scopo un piano quindicennale dell’ammontare di 41 miliardi di euro. Ma mentre non c’è traccia nella manovra in discussione in Parlamento di tali strumenti, nel Ddl sulla Legge di Stabilità 2013 vengono destinati alla Protezione Civile poco più di 73 milioni di euro, proprio nel momento in cui aumentano, tra l’altro, i fenomeni atmosferici estremi attribuibili ai cambiamenti climatici in atto e i danni conseguenti a persone e cose. (…).

La corruzione inquina l’ambiente. La corruzione non impoverisce soltanto l’economia del Paese e i bilanci delle famiglie, ma rappresenta una minaccia devastante per l’ambiente in cui viviamo. Sempre più spesso, infatti, attività illegali come il traffico illecito di rifiuti o l’abusivismo edilizio, magari “rivestito” con il rilascio di concessioni illegittime, sono accompagnate da un sistematico ricorso alla corruzione di amministratori pubblici e rappresentanti politici, funzionari incaricati di rilasciare autorizzazioni o di effettuare controlli. (…). I numeri parlano chiaro: dall’1 gennaio 2010 al 30 settembre 2012 sono state 1.109 le persone arrestate in Italia nelle 78 inchieste relative a episodi di corruzione connessi ad attività dal forte impatto ambientale. Le inchieste analizzate hanno riguardato il ciclo illegale dei rifiuti (dai traffici illeciti agli appalti per la raccolta e la gestione dei rifiuti fino alle bonifiche); il ciclo illegale del cemento (dall’urbanistica alle lottizzazioni, dalle licenze edilizie agli appalti pubblici); le autorizzazioni e la realizzazione di impianti eolici e fotovoltaici; le inchieste sulle grandi opere, le emergenze ambientali e gli interventi di ricostruzione. (…). La “corruzione ambientale”, nel senso del suo impatto sul patrimonio naturale, sul territorio e sul paesaggio, è un veleno che attraversa il Paese: sono 15 le regioni coinvolte nelle inchieste, con 34 procure impegnate, omogeneamente distribuite tra Nord (13), Centro (11) e Sud Italia (10). (…). La corruzione in campo ambientale produce, accanto alla gravità di questi numeri, serie conseguenze per la sicurezza e la salute dei cittadini: dalle opere pubbliche realizzate con il “cemento depotenziato”, come ospedali, scuole e viadotti, che passa i controlli grazie all’uso di tangenti, ai “ripristini ambientali” delle cave trasformate in discariche abusive di rifiuti (…). Ma fenomeni corruttivi accompagnano spesso anche i fenomeni illeciti lungo la filiera agroalimentare, dalle truffe all’accesso ai fondi comunitari. (…). 

LA CULTURA

È inconcepibile che nelle misure del governo Monti orientate allo sviluppo non ci sia traccia della cultura e dell’attività produttiva che la densità culturale del nostro Paese genera: dell’industria culturale propriamente detta (il cinema, l’editoria, la televisione, l’industria musicale); delle industrie creative, quelle cioè che della cultura e della creatività si alimentano (dal design, all’architettura, alla comunicazione, all’artigianato artistico, alla stessa enogastronomia di qualità); delle attività produttive connesse alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio culturale (…).

Eppure, secondo un recentissimo rapporto di Unioncamere e della Fondazione Symbola costruito sulla base del perimetro del comparto definito dall’Unione Europea, sono impegnate in queste attività 1.400.000 persone e la ricchezza prodotta rappresenta il 4,9% del Pil, senza contare l’effetto determinante che queste attività hanno per l’attrazione turistica del nostro Paese e per la promozione dei nostri prodotti nel mondo. (…).

Il numero di persone che ha partecipato ad attività culturali è aumentato considerevolmente fra il 2001 e il 2010. (…). E questo nonostante negli stessi anni ci sia stata un’accentuata diminuzione delle risorse pubbliche impegnate in tal senso. Il bilancio del Ministero dei Beni culturali è passato infatti dai 2.386 milioni del 2001 ai 1.425 milioni del 2011, collocandosi agli ultimi posti per la percentuale di spesa del Pil a ciò dedicata (0,21%) fra tutti i Paesi Ocse (in linea del resto con la posizione occupata sulla scuola, l’università e la ricerca).

Il progressivo disimpegno pubblico ha rilevanti conseguenze sul settore sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Nel 2011, ma il fenomeno sembra ancora più accentuato nel 2012, la tendenza all’incremento dei consumi culturali sembra invertirsi. Diminuiscono del 2,7% le presenze nei teatri, del 3,8% quelle ai concerti classici, dell’1,3% le visite ai siti archeologici e ai monumenti. I cittadini italiani, che hanno tenuto e incrementato i loro consumi culturali anche in anni durissimi come quelli dal 2008 al 2010, sembrano ora piegati dalla durezza con cui la crisi e le manovre del governo colpiscono i loro redditi, e i consumi culturali sono attratti nelle più generale depressione dei consumi. (…). L’industria culturale e creativa, l’artigianato di qualità, lo stesso turismo, così come la promozione dei prodotti italiani nel mondo traggono il proprio valore aggiunto dallo straordinario patrimonio culturale del nostro Paese, dalla bellezza delle nostre città e del nostro paesaggio, che ancora resistono all’incuria e alle dissennate cementificazioni del più recente passato. Ed è proprio il patrimonio culturale, la conservazione e la manutenzione dei nostri monumenti, delle nostre città, dei nostri archivi, delle nostre biblioteche quello che la Spending Review inesorabilmente colpisce. (…). Il quadro è reso ancora più drammatico dal protrarsi dei tagli alle autonomie locali, in primo luogo ai Comuni, come via maestra per contenere la spesa pubblica.

I Comuni hanno investito in questi anni in attività culturali il 3,6% dei loro bilanci, a fronte dello 0,21% del bilancio dello Stato, del 2,6% delle Province, dello 0,60% delle Regioni. Sono stati un elemento essenziale della tenuta del patrimonio culturale del nostro Paese, di quello storico e di quello contemporaneo. Gli ultimi tagli rischiano di far vacillare questo argine. E gli effetti sono già visibili nel contrarsi della spesa pubblica nei bilanci comunali del 2011 rispetto al 2010. È una conseguenza quasi inevitabile – dato che la cultura non rientra tra le funzioni essenziali attribuite ai Comuni dall’attuale impianto federalista – che la spesa decrescente si concentri sulle funzioni essenziali, lasciando senza risposte il crescere della domanda di cultura che nelle città si registra. (…). Con i tagli ai Comuni, e con le sordità dell’impianto federalista vigente, rischia di venir meno la ragione fondamentale dell’intervento pubblico sulla cultura, che è quella dell’equità, (…) di offrire cultura a tutti i cittadini, di farne un elemento inscindibilmente connesso all’idea di cittadinanza. L’assenza della cultura tra le funzioni essenziali la esclude anche da ogni intervento solidaristico e perequativo, con effetti drammatici nel Mezzogiorno, dove sono tante le città senza una biblioteca pubblica, e dove le Regioni non hanno brillato – anche perché la spinta tremontiana tendeva a dirottare le risorse verso altri lidi e altre priorità – nell’utilizzazione delle risorse comunitarie destinate ai progetti culturali. La riprogrammazione delle risorse da parte del ministro Barca segna una significativa inversione di tendenza, da seguire con attenzione. (…).

LA PROSPETTIVA DI NUOVE PRODUZIONI E CONSUMI

Gli italiani spendono meno, ma anche meglio: il biologico, infatti, nel carrello degli italiani nei primi 6 mesi di questo “annus horribilis” aumenta del 6,1% proprio mentre i consumi alimentari calano del 3%. Il fatturato del settore è triplicato passando da meno di un miliardo di euro nel 2000 agli oltre tre miliardi attuali. L’Italia è Paese leader in Europa per il numero di aziende biologiche presenti sul territorio, cresciute dell’1,3% nel solo ultimo anno, attestandosi sulle 48.296 unità, con un fatturato interno di oltre un miliardo e 550 milioni di euro. Rispetto alla mobilità, nel 2011 abbiamo registrato lo storico sorpasso dell’acquisto di biciclette: a fronte delle 1.748.143 auto immatricolate, infatti, sono state vendute 1.750.000 biciclette: ovvero 2000 pezzi in più a cui andrebbero aggiunte le oltre 200mila bici recuperate grazie agli interventi di ciclofficina (…). Il sorpasso è storico: l’ultima volta accadde nel 1964, e mette a fuoco il deciso cambio nello stile di vita degli italiani. Forzato dalla crisi? Forse. È un fatto, però, che la III Conferenza internazionale sulla decrescita per la sostenibilità ecologica e la giustizia sociale che si è tenuta quest’anno a Venezia ha registrato migliaia di presenze non solo di esperti e studiosi, ma di amministratori locali e delle comunità interessate a cambiare priorità nelle scelte quotidiane, collettive e individuali. Beni, saperi, servizi, strumentazioni, infrastrutture, norme e istituzioni sociali vengono definiti “beni comuni” con l’intento di sottrarli dalla sfera della proprietà esclusiva (privata e/o pubblica) e dalle logiche del mercato per instaurare, invece, un sistema di gestione che consenta un uso universalmente accessibile (condiviso e inclusivo) e “capace di futuro” (rispettoso dei cicli geo-bio-chimici e dei tempi di rigenerazione delle risorse naturali).

Tra grandi infrastrutture e cambiamenti strutturali. (…). Mentre le autorità locali verificano in concreto che cosa comporti nella qualità della vita sociale, economica e ambientale dei propri concittadini cambiare modello produttivo/distributivo, il governo taglia la spesa pubblica alla cieca senza tenere conto della sua diversa qualità. (…). In Toscana, ad esempio, le emissioni di gas serra derivanti dall’attività agricola sono pari al 3% della quantità totale di Co2. Il dato è inferiore alla metà della media nazionale, dove l’agricoltura contribuisce per circa il 7% al totale delle emissioni di Co2. (…). La regione ha un “plus” ambientale dovuto alla politica di conservazione territoriale in atto: i boschi toscani infatti, che coprono circa il 50% della superficie regionale, hanno la capacità di assorbire circa 10 milioni di tonnellate di Co2. Ma c’è di più: l’obiettivo che ha mosso la Regione Toscana è stato quello di studiare la possibilità di ridurre le emissioni di gas serra nell’ambito dell’intera filiera agro-alimentare, sia migliorando o modificando le pratiche agricole correnti, che individuando modelli più virtuosi di trasformazione, distribuzione e consumo, soprattutto dei prodotti agricoli freschi, a partire dall’approfondimento di due casi studio: il pomodoro da mensa e il latte fresco. La ricerca ha messo chiaramente in evidenza come sia possibile contribuire a questo obiettivo con la gestione dei terreni e la diffusione di pratiche colturali sostenibili. (…).

Un’Italia diversa. Questo è lo spazio per progettare l’alternativa. Parafrasando “The future we want”, lo slogan del Summit 2012 delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile Rio+20, le associazioni, imprese, reti e movimenti delle economie solidali hanno portato le pratiche di transizione verso economie e società solidali e resilienti all’interno di spazi come Sbilanciamoci! per presentarle sui tavoli istituzionali nazionali in cui si decide il nostro futuro, a livello locale, nazionale e globale. Queste le pratiche alternative:

- I Gruppi di Acquisto Solidale (Gas) che si coordinano in rete sono circa 1.000 in tutta Italia e sono formati da gruppi di persone che decidono di incontrarsi per acquistare all’ingrosso prodotti alimentari o di uso comune.

- Il progetto Res/Des (Reti di economia solidale e Distretti di economia solidale) è un esperimento in corso per la costruzione di una economia “altra”, a partire dalle mille esperienze di economia solidale attive in Italia. Questo progetto in costruzione, come sta avvenendo in diversi altri luoghi in giro per il mondo, assume la “strategia delle reti” come approccio fondativo. Intende cioè rafforzare e sviluppare le realtà di economia solidale attraverso la creazione di circuiti economici e relazionali, in cui le diverse realtà si sostengono a vicenda creando insieme spazi di mercato finalizzato al benessere di tutti. (…).

L’esperienza di queste buone pratiche ha “fatto scuola” di alternative possibili e ha permesso anche a imprese “normali” di imboccare strade virtuose. (…).

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