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La memoria pericolosa di San Romero d’America. Ricordando l’arcivescovo a 33 anni dal suo martirio

Tratto da: Adista Documenti n° 14 del 13/04/2013

DOC-2514. ROMA-ADISTA. Passano gli anni - e sono ormai 33 - ma la memoria di mons. Oscar Romero non perde colpi. Da San Salvador, dove migliaia di persone hanno preso parte alle commemorazioni per l’anniversario dell’assassinio di San Romero d’America, fino a Roma, dove hanno avuto luogo, per iniziativa del Cipax e del Comitato romano Oscar Romero, le tradizionali celebrazioni in memoria dell’arcivescovo martire - con la partecipazione, quest’anno, del Premio Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquivel, della pastora battista Elizabeth Green e del vescovo ausiliare di Roma Matteo Zuppi – in tanti hanno reso omaggio a colui che è considerato il simbolo più alto e più pieno della Chiesa della Liberazione.
Sull’onda emotiva dell’inizio di un nuovo pontificato, è tornata ad affiorare anche la speranza che giunga finalmente a conclusione il processo di canonizzazione dell’arcivescovo, avviato a Roma nell’ormai lontano 1996. Una speranza che la gerarchia ecclesiastica salvadoregna ha espresso nel suo modo consueto, sempre molto preoccupata ed attenta a neutralizzare la figura dell’arcivescovo privandola della sua dirompente dimensione profetica: mons. Romero «deve essere visto come il pastore che ci unifica», ha precisato l’arcivescovo di San Salvador José Luis Escobar Alas, mettendo in guardia dal rischio di trasformarlo in un «personaggio politico». «È possibile – ha dichiarato – che si cerchi di appropriarsi di qualche vantaggio politico, esaltando o attaccando l’immagine di monsignor Romero a favore o contro un’idea politica, e questo non sarebbe giusto», tanto più perché, ha spiegato, ciò finirebbe per compromettere anche il processo di canonizzazione. Molto tiepido, peraltro, mons. Escobar si è mostrato anche riguardo alla sempre viva questione dell’annullamento o meno della Legge di Amnistia promulgata nel 1993, su cui ancora una volta sono tornate a farsi sentire le organizzazioni di difesa dei diritti umani. Nella Chiesa salvadoregna, ha spiegato Escobar, «non abbiamo un’opinione unificata al riguardo», anche se, ha assicurato, «siamo a favore della giustizia» (come le due cose possano conciliarsi l’arcivescovo non lo ha spiegato): l’annullamento della Legge di Amnistia, ha detto, potrebbe condurre a «una spirale di violenza», incoraggiando chiunque a pretendere risarcimenti per i danni subiti, tanto per via giudiziaria quanto per via economica».
«Molto ottimista» riguardo al processo di canonizzazione di mons. Romero si è detto il vescovo ausiliare di San Salvador Gregorio Rosa Chávez, che tuttavia già nel 2008 esprimeva la sua impressione che ci si trovasse «già nella retta finale del processo» (pur ammettendo che la retta potesse «anche essere molto lunga»; v. Adista n. 29/08): il nuovo papa, ha spiegato, «ha una devozione» per Romero e la «convinzione totale che sia un santo e un martire», motivo per cui tutto sembrerebbe spingere in direzione della sua beatificazione, «per quanto i tempi di Dio non corrispondano ai nostri» (Religión Digital, 18/3). In ogni caso, il 24 marzo, che quest’anno coincideva con la Domenica delle Palme, Bergoglio non ha fatto alcun riferimento a mons. Romero, né l’arcivescovo compare nell’elenco dei 63 nuovi beati di prossima proclamazione (in maggioranza martiri della guerra civile spagnola, dei regimi comunisti e del nazismo), i cui dossier il nuovo papa ha ereditato da Benedetto XVI, dando prontamente il suo via libera.
Sul riconoscimento ufficiale della santità di mons. Romero, peraltro, si confrontano, come è noto, posizioni diverse e persino opposte, tra chi ritiene, ed è un’immensa folla di credenti, che l’arcivescovo martire sugli altari avrebbe dovuto esserci già da tempo e chi non vorrebbe vedercelo mai; tra chi, specie nella gerarchia ecclesiastica, vuole che venga santificato solo quando nessuno potrà più “strumentalizzarne” la figura (ma nel frattempo ne manipola la memoria per farne un “santo di Roma”, in un processo già avanzato di accaparramento istituzionale), e chi, d’accordo con Pedro Casaldáliga, è convinto che nessuno debba canonizzarlo perché «gli farebbero un’offesa», in quanto «sarebbe come pensare che la prima canonizzazione», quella compiuta dal popolo, «non è servita». E se da una parte, come sottolinea Carlos Molina Velásquez su Rebelión (29/3), il riconoscimento della sua santità da parte dell’istituzione ecclesiastica sarebbe un «motivo di gioia per milioni di persone», dall’altro «finirebbe per trasformarlo in un personaggio neutro, light, decaffeinato; mentre, in caso contrario, resterebbe San Romero d’America, un santo che oltrepassa le frontiere e che è un modello per milioni di credenti e non credenti».
Una canonizzazione - libera dagli obblighi di formule e norme - di tutti i martiri della giustizia nella sequela di Gesù, a cominciare da mons. Romero e dalle vittime della strage di El Mozote, è quanto chiede il teologo Jon Sobrino nell’omelia pronunciata il 22 marzo nella cappella della Uca (l’Università Centroamericana di San Salvador). Lo chiede al nuovo papa, sulla cui figura il teologo si sofferma nell’ultimo numero di Carta a las Iglesias, evidenziandone i primi, incoraggianti gesti e l’«austerità di vita» accompagnata da «un reale interesse per i poveri», ma ricordando che, se «in tutto ciò si apprezza un suo modo specifico di fare l’opzione per i poveri», non altrettanto si può dire rispetto a una difesa esercitata, «in maniera attiva e correndo rischi», all’epoca della dittatura militare. Perché, spiega, se «non sembra giusto parlare di complicità, appare corretto dire che in quelle circostanze Bergoglio manifestò un allontamento dalla Chiesa popolare, impegnata con i poveri. Non fu un Romero». E quanto tale aspetto, quello della difesa del povero dai suoi oppressori, sia importante per Sobrino, lo dimostra chiaramente il testo della sua omelia, che riportiamo qui di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, insieme all’articolo (pubblicato su ContraPunto il 24/3) dell’argentino Diego Facundo Sánchez e del salvadoregno Francisco Bosch sul «crocevia» rappresentato dal 24 marzo (anniversario non solo del martirio dell’arcivescovo ma anche del colpo di Stato in Argentina) e all’intervento della pastora battista Elizabeth Green durante la celebrazione ecumenica del 22 marzo alla Chiesa di san Marcello in via del Corso a Roma. (claudia fanti)

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