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Dalle trincee della guerra a quelle della pace. La Chiesa vista da un prete salvadoregno

Tratto da: Adista Documenti n° 39 del 09/11/2013

DOC-2572. ROMA-ADISTA. Non si aspettava di sicuro un tale clamore l’arcivescovo di San Salvador José Luis Escobar Alas: la notizia dell’improvvisa chiusura, il 30 settembre scorso, dell’ufficio di Tutela Legale dell’arcidiocesi, figlio dell’eroico Socorro Jurídico voluto da mons. Oscar Romero per assicurare un’efficace assistenza legale ai poveri, ha di molto oltrepassato le frontiere di El Salvador, suscitando un’ondata di indignazione tra le associazioni per i diritti umani latinoamericane, statunitensi ed europee (v. Adista Notizie n. 35/13).

Si è affrettato, mons. Escobar Alas, ad annunciare la creazione di una nuova istanza con la stessa funzione di quella soppressa, ma, a suo dire, più adeguata ai nuovi tempi e ripulita dalle non meglio precisate irregolarità contabili da lui riscontrate negli ultimi tempi. Nessuno, però, si è sentito rassicurato dalle parole dell’arcivescovo. Nemmeno il Procuratore generale della Repubblica, il quale ha incaricato due magistrati, lo scorso 18 ottobre, di realizzare una perquisizione dei locali dell’ufficio e di mettere i sigilli al preziosissimo archivio di Tutela Legale (di cui fanno parte circa 50mila denunce di violazioni dei diritti umani commesse prima, durante e dopo la guerra civile), in maniera da preservare una documentazione di valore incalcolabile ai fini delle indagini sui massacri commessi negli anni del conflitto, dal 1980 al 1992. L’arcivescovo ha fatto allora la voce grossa, assicurando che non avrebbe consentito a nessuno di mettere le mani sull’archivio di Tutela Legale, in quanto, ha detto, «è nostro dovere custodirlo e metterlo al servizio della giustizia a favore delle vittime». E, in un crescendo di intensità, è giunto a dichiarare di essere «disposto a morire» per difendere la riservatezza delle vittime, ribadendo la volontà della Chiesa di non permettere ad alcuno l’accesso ai documenti di Tutela Legale - a meno che, in ambito processuale, non vengano richiesti come materiale probatorio - per proteggerli da qualsivoglia manipolazione politica e ideologica. «Non intendiamo compiacere alcun gruppo di potere», ha assicurato il 27 ottobre nell’abituale conferenza stampa domenicale (La Prensa grafica, 27/10): «Se a qualcuno interessano le vittime, questi siamo noi, questo sono io».

In tanti, tuttavia, dubitano che la documentazione sia al sicuro. Non a caso, mentre l’arcivescovo teneva la sua conferenza stampa, fuori dalla cattedrale un gruppo di familiari delle vittime protestava contro la chiusura di Tutela Legale. «Cosa ne sarà – denuncia Amerindia di El Salvador – delle vittime e dei sopravvissuti e del loro anelito alla verità, alla giustizia e al risarcimento? Come garantire che la loro voce non venga perduta, che il loro lutto non sia ignorato, che le loro ferite non restino aperte? Molte volte si è speculato sul dolore di queste persone, lanciando appelli a perdonare e a dimenticare, come se si trattasse di episodi riconducibili alla soggettività individuale anziché una questione relativa all’intero Paese che occorre affrontare alla radice. Se l’informazione contenuta nell’archivio giungesse nelle mani di persone male intenzionate, la vita di molti sarebbe in pericolo. L’archivio di Tutela Legale appartiene alle vittime e ai sopravvissuti: è in loro che è depositata la memoria collettiva di un periodo così delicato della storia della Nazione».

Severissimo nei confronti dell’arcivescovo è anche Rutilio Sánchez, famoso sacerdote salvadoregno il cui avventuroso percorso di vita fotografa una delle pagine più drammatiche della storia del Paese. Prete rivoluzionario sopravvissuto a svariati attentati (è noto il suo rapporto profondo ma non privo di tensioni con mons. Romero), Rutilio Sánchez scelse, durante la guerra, di esercitare il ministero sacerdotale al fronte, tra i guerriglieri del Fronte Farabundo Martí, pienamente convinto che «la giustizia e la fedeltà» fossero lì dove si trovavano «i combattenti del Fmln». «Vado a cercare la pecora ferita che si è persa sulla montagna», scrisse all’allora arcivescovo Arturo Rivera y Damas comunicandogli la sua decisione: «Intendo solo prendere la croce e seguire Gesù nei burroni, sulle colline, nelle trincee dove si vivono le beatitudini alla lettera e in spirito, creando le basi del Regno di Dio, un mondo in cui ci sia pane per tutti».

A lui, oggi instancabile animatore della Sercoba (l'équipe di servizio alle comunità di base nata dopo gli accordi di pace nel 1992) insieme alla missionaria laica Mariella Tapella, abbiamo chiesto, in occasione di un suo giro per l’Italia, un’opinione sulla situazione del suo Paese e della Chiesa.

Di seguito l’intervista concessa ad Adista da Rutilio Sánchez. (claudia fanti)

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