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CILE: IL RITORNO DI MICHELLE BACHELET, TRA ASPETTATIVE E DISINCANTO

Tratto da: Adista Notizie n° 46 del 28/12/2013

37447. SANTIAGO DEL CILE-ADISTA. Tutto secondo copione in Cile, dove, il 14 dicembre scorso, la socialista Michelle Bachelet, a capo della coalizione di centro-sinistra Nueva Mayoría (che ha preso il posto della screditata Concertación incorporando anche il Partito Comunista) ha sconfitto nettamente al ballottaggio Evelyn Matthei, rappresentante dell’ala più estrema della coalizione di destra, quella della Udi (Unione democratica indipendente), con il 62% dei voti rispetto al 38% dell’avversaria. Ma la buona notizia che una donna arrestata, torturata e costretta all’esilio sotto la dittatura, figlia di un generale leale a Salvador Allende, Alberto Bachelet (morto in carcere in seguito alle torture subite), abbia avuto la meglio su un’altra donna che ha votato sì al referendum del 1988 sulla continuità della dittatura, figlia di un generale pinochetista, Fernando Matthei, è accompagnata da diverse ombre, a cominciare dal fortissimo astensionismo, intorno al 60% (di modo che la candidata socialista risulta eletta appena dal 26% dei cileni).

All’indomani della vittoria, la neoeletta, già presidente tra il 2006 e il 2010 (la prima donna a ricoprire la carica e la prima ad essere rieletta), ha ribadito il proprio impegno a realizzare le riforme promesse – di «media intensità», come sottolinea Álvaro Cuadra su Alai (16/12) – in materia di educazione, riforma tributaria e riforma costituzionale (i temi chiave della proteste di strada del 2011): «Oggi iniziamo una nuova tappa», ha detto ringraziando i giovani «che hanno rivendicato un modello di educazione senza lucro. Perché i sogni non sono un prodotto di mercato». E ha aggiunto: «Avremo una nuova Costituzione, nata dalla democrazia», che «si trasformerà nel patto sociale nuovo e moderno di cui il Cile ha bisogno». Un’esigenza insopprimibile, dal momento che non sono bastati cinque mandati presidenziali dalla fine della dittatura a gettare alle ortiche la Costituzione di Pinochet – disegnata a misura degli interessi dell’oligarchia – come pure il suo modello economico. Un modello grazie al quale, come evidenzia Pablo Sapag M., docente dell’Università Complutense di Madrid (Público, 16/12), il Cile «è uno dei Paesi più diseguali del mondo, con una forbice che la spettacolare crescita economica dei tre ultimi decenni non ha intaccato di una virgola». Un Paese in cui, secondo l’economista della Fundación Sol, Marcos Kremerman (El País Internacional, 16/12), «il 5% più ricco della popolazione guadagna 257 volte più del 5% più povero», in cui «l’1% dei più ricchi concentra il 31% delle ricchezze» (rispetto al 21% delle ricchezze negli Stati Uniti e al 12% in Germania), in cui metà dei lavoratori non va oltre un salario di 345 euro, in cui il 50% dell’educazione secondaria e il 90% di quella universitaria sono nelle mani dei privati, cosicché, come evidenzia Vicky Peláez (Ria Novosti, 25/11), «una famiglia della classe media è obbligata a destinare il 40% del proprio reddito alle spese universitarie dei propri figli», con la conseguente «esistenza di una segregazione sociale nel sistema educativo». Un Paese che, secondo il direttore della Ong Educación 2020 Mario Waissbluh, presenta «il modello economico più neoliberista del mondo» (Ria Novosti, 25/11), tanto che al suo confronto gli Stati Uniti e la Gran Bretagna «sembrano Paesi socialisti». 


Solo ritocchi?

Sono in molti, tuttavia, a escludere che Michelle Bachelet possa realmente realizzare le riforme necessarie, non essendo la maggioranza – pur ampia – di cui dispone in Parlamento, sufficiente per l’approvazione di vere riforme strutturali (a cominciare da quelle costituzionali che richiedono la maggioranza dei due terzi): più probabile, si ritiene, che continui ad applicare la strategia tipica della Concertación, quella dei semplici ritocchi al modello di Paese ereditato da Pinochet, rinunciando tanto alla gratuità dell’educazione quanto a una seria riforma tributaria come pure alla rinazionalizzazione del rame o di qualsiasi altra risorsa naturale. È stato proprio questo, del resto, il timbro del suo precedente mandato presidenziale: «Il sistema neoliberista abbracciato da Bachelet – nota ancora Vicky Peláez – non ha offerto molte possibilità di realizzare cambiamenti socioeconomici nel Paese e di operare una ridistribuzione della ricchezza», senza contare che in politica estera «ha optato, secondo le sue stesse parole, per “la convergenza con il potere egemonico del pianeta”, cioè gli Stati Uniti» e che sul piano interno «ha continuato ad applicare la legge antiterrorista del governo di Pinochet», in particolare nei confronti delle comunità mapuche. Non è un caso, continua, che il suo programma di governo abbia ricevuto un giudizio positivo da parte delle istituzioni neoliberiste. Chissà – si chiede Guillermo Almeyra (Rebelión, 21/11) – se la nuova presidente riuscirà almeno a ritirare il Cile, anche solo parzialmente, dall’alleanza con Stati Uniti, Perù, Colombia e Messico, quell’Alleanza del Pacifico che si pone come l’ostacolo principale al processo di integrazione latinoamericana (un vincolo, questo del Cile con i Paesi pro-imperialisti, che ha indotto il presidente della Bolivia Evo Morales a interrogarsi sul reale carattere socialista di Bachelet). E commenta: «È da sperare che le lotte che prevedibilmente riprenderanno possano accelerare il processo di maturazione politica in Cile», facendo spazio alle richieste programmatiche della sinistra sociale e anche alle aspirazioni di quella parte importante dei giovani che ha optato per l’astensione.

Una buona notizia, in ogni caso, viene dall’elezione in Parlamento di quattro leader delle proteste studentesche, Giorgio Jackson, Gabrielm Borick, Karol Cariola e Camila Vallejo (le ultime due del Partito Comunista): resta solo da vedere quanto riusciranno a spostare verso sinistra l’asse della nuova maggioranza. (claudia fanti)

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