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Riformare le riforme

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 16 del 26/04/2014

Il decreto Jobs Act in materia di lavoro “non si tocca” come “non si devono toccare” le riforme della legge elettorale e di quelle parti della Costituzione che disciplinano la funzione del Senato e la ripartizione delle competenze e delle funzioni fra Stato e Regioni.

È questo il ritornello col quale Renzi, coprendo la blindatura delle sue riforme con la foglia di fico della concessione solo di marginali modifiche e minacciando all'occorrenza le sue dimissioni, sostiene che nulla può essere messo in discussione di quanto ha concordato e continua a concordare con Berlusconi e di quanto ha deciso e continua a decidere formalmente col Consiglio dei ministri ma sostanzialmente con i ristretti gruppi di politici ed esperti di stretta osservanza. E non basta, perché quando si levano voci di critica nella società, nel Parlamento, nel suo partito ed anche ai vertici delle istituzioni, il premier si dimostra infastidito, conferma le sue determinazioni senza essere neppure sfiorato da qualche dubbio e chiude la partita ricorrendo all'espressione «ce ne faremo una ragione» usata con un tono non tanto di sofferta rassegnazione quanto di malcelata sufficienza.

Riguardo all'attività del governo, non poteva certo restare al riparo da rilievi e contestazioni l'accordo che Renzi ha raggiunto col leader di Forza Italia su una riforma elettorale che, utilizzando una non felice considerazione aggiuntiva della Consulta all'impianto argomentativo della sentenza che ha cancellato il Porcellum, mette sotto i piedi il chiaro contenuto della sentenza medesima. E lo fa riproponendo una normativa che esclude il voto di preferenza perpetuando il deprecabile sistema dei deputati nominati dalle segreterie dei partiti. Un accordo che prevede inoltre un premio di maggioranza non giustificato dall'entità dei voti necessari per ottenerlo, privando peraltro della rappresentanza parlamentare milioni di elettori con la previsione di soglie di sbarramento non sorrette da qualsiasi giustificazione democraticamente accettabile. 

Così come si espone a serie critiche il disegno di legge costituzionale per la riforma del Senato che trasforma tale ramo del Parlamento in una Camera delle autonomie composta da membri non eletti, riducendolo, da una parte, ad un organo consultivo per circoscritte materie privo di poteri effettivi nella produzione di leggi ordinarie e dotandolo, dall'altra e in modo contraddittorio, degli stessi poteri della Camera dei deputati per quanto attiene a due funzioni di massimo livello quali quelle della produzione di leggi costituzionali e dell'elezione del capo dello Stato. E discutibile si appalesa anche la progettata riforma sulla disciplina del titolo V della Carta Costituzionale riguardante la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni e l'intervento sulle Province che abolisce solo la gestione politico-democratica di tali enti ma ne lascia confusamente in vita le strutture con le relative spese. Quanto poi al decreto legge in materia di lavoro basta rilevare che si tratta di un provvedimento costruito sul dogma neoliberista, smentito clamorosamente dai fatti, secondo il quale una marcata flessibilità del lavoro, da ottenere con l'introduzione di contratti di breve durata e privi di qualsiasi garanzia, sarebbe un efficace antidoto contro la dilagante disoccupazione [sul Jobs Act si veda l’articolo di Michele Di Schiena su Adista Segni Nuovi n. 14/14].

I comportamenti politici di Renzi ai quali dianzi si è fatto cenno e i primi passi del suo governo sia sul versante delle riforme elettorale e istituzionali, sia su quello della politica economica appaiono rivelatori di una concezione della politica non adeguatamente in linea con la cultura della nostra democrazia. La Costituzione disegna infatti una forma di governo che deve essere definito democratico perché la suprema direzione politica viene attribuita agli organi eletti dai cittadini, rappresentativo per il fatto che il popolo esercita il potere sovrano attraverso i propri rappresentanti e parlamentare in quanto il Parlamento è chiamato a svolgere la funzione legislativa e a impartire le supreme direttive politiche operando un vigilante controllo sull'attività del governo. Uno Statuto, il nostro, che è lontano da qualsiasi concezione personalistica del potere e che assegna alla politica il compito primario di promuovere l'uguaglianza per assicurare la partecipazione di tutti i cittadini all'organizzazione politica ed economico-sociale del Paese.

Le riforme in cantiere devono avere come stella polare i valori e le logiche del nostro Statuto, vanno costruite con il coinvolgimento dei cittadini anche attraverso le loro rappresentanze sociali e richiedono il necessario approfondimento e la dovuta ponderazione. Il cambiamento e la velocità non sono valori in sé perché ciò che rileva è la qualità (positiva o negativa) del “nuovo” che si vuole introdurre e della meta che si vuole raggiungere. Gli interventi normativi che l'attuale momento politico e sociale richiede non sono certo rinviabili ma dovrebbero essere emanazione attuativa di un complessivo e organico disegno riformatore animato, sul versante delle revisioni costituzionali, dalla tensione verso sempre più avanzate forme di democrazia partecipativa, in alternativa alle tentazioni autoritarie o populiste e, sul versante dell'economia, dalla scelta di lottare contro lo scandalo delle crescenti disuguaglianze sociali. E a tale proposito farebbe sorridere, se non facesse piangere di amarezza e di delusione, l'improntitudine di alcuni innovatori dell'ultima ora i quali tacciano di conservazione le voci che, di fronte all'affastellamento di confuse e talvolta contraddittorie riforme, richiamano principi, valori, metodi ed esperienze che hanno segnato e continuano a segnare i più validi impegni di liberazione e di progresso. 

* Presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione

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