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Vajont a Venezia?

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 24 del 28/06/2014

A seguire la cronaca della vicenda MoSE (Modulo sperimentale elettromeccanico)-Consorzio Venezia Nuova (in piena evoluzione mentre scriviamo) si trarrebbero solo considerazioni generiche sul bubbone che avvolge la città. Su quanto assomigli o differisca da analoghe vicende, l’Expo di Milano, il G8 o la mai dimenticata Tangentopoli del 1992 e così via nel cimitero degli orrori della corruzione italiana.

È altrettanto certo che i nomi e le responsabilità che sono emerse, sia pure con una gradazione differente di colpevolezza e al livello attuale delle accuse da confermare in giudizio, sono tali da mettere in crisi in una comunità il senso che ha di se stessa.

I personaggi dello spettacolo veneziano (la tragedia?) si dividono grosso modo in due categorie: il gruppo Galan-Chisso-Sartori-Matteoli-Milanese-Lunardi e altri in coda, il cui coinvolgimento non stupisce. Che abbiano fatto parte di un’area politica che sotto lo slogan “via lacci e lacciuoli” ha fatto della disinvoltura dei comportamenti e del cinismo delle scelte la cifra della propria azione istituzionale era noto. Che, dunque, all’interno di un meccanismo che è bene definire criminogeno abbiano giocato un ruolo da protagonisti era da tempo opinione diffusa, al di là delle responsabilità penali, che pure per i magistrati inquirenti ci sono. E un altro gruppo, dentro il quale spicca per notorietà l’ormai ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, il cui coinvolgimento ha meravigliato molti ed impone alla città di capire e scegliere. 

Gianfranco Bettin, assessore all’Ambiente della giunta Orsoni, può dire ancora «il Comune è la sola istituzione che esce totalmente pulita da questo scandalo». E, finora, ha ragione. Benché la grande informazione sottolinei il ruolo del sindaco come il solo che per ora si è dichiarato colpevole patteggiando la pena, Orsoni ha ricevuto in nero una cifra “proporzionalmente” modesta per la propria campagna elettorale. Ma non risultano atti amministrativi inquinati in pro del Consorzio. Gravissima responsabilità dunque, causa prima del tracollo dell’Amministrazione veneziana e dell’esorbitante danno d’immagine per la città, ma per un reato (in proporzione) modesto rispetto alla maggior parte degli altri indagati.

Paradossalmente, rispetto alla pessima rappresentazione mediatica, il Comune è stata la sola istituzione pubblica ad aver giocato negli anni un ruolo scettico o di aperta opposizione nei confronti del MoSE, dando ascolto, in parte, a malumori e contrarietà presenti in città. Se non altro, come più volte ha dichiarato l’ex sindaco Cacciari, per l’impossibilità del Comune di assumersi l’onere della gestione successiva e per il blocco pluriennale al finanziamento dei piccoli interventi, indispensabili in un sistema fragile come quello lagunare. La funzione del Comune era però – singolarmente – solo consultiva.

Ci sono inoltre due forme con cui esponenti del centrosinistra entrano nella vicenda MoSE: il primo è diretto, con il coinvolgimento nell’inchiesta di Brentan e Marchese, esponenti di rilievo del Pd veneziano; il secondo è indiretto e risale alle progressive modifiche che ha avuto la composizione del Consorzio, includendo le cooperative rosse, il 30%, come ai “bei” tempi di Tangentopoli.

Ma la pervasività della tragedia in corso, oltre che del perverso incrocio tra mondo delle imprese, delle banche e relative fondazioni, dell’università, delle professioni e della cultura, è figlia di due fondamentali malefatte create da una legge del 1984 (patrocinio: Gianni De Michelis) che ha prodotto un sistema in sé criminogeno: la scelta del sistema MoSE come difesa dalle acque alte e la creazione del Consorzio Venezia Nuova come “soggetto unico” col compito di progettare, eseguire, esercitare la supervisione tecnica e forse alla fine gestire tutto il sistema, se mai sarà completato. La sola cosa che il Consorzio non era tenuto a fare era finanziarlo con fondi propri. Quello tornava in capo allo Stato. Ed ai contribuenti. Come anche lo stesso Consorzio recita (con altre parole) fra le sue finalità: lo scopo è spendere i soldi pubblici più agilmente di quanto potrebbe fare un altro soggetto. Non dice, ma lo aggiungiamo noi, di poterlo fare senza alcun controllo, dato che il solo che avrebbe potuto/dovuto esercitarli, il Magistrato alle acque, viene eliminato entrando a libro paga del Consorzio stesso.

Il MoSE serve solo a chi lo fa. Sotto questo aspetto, non c’è dubbio che il Consorzio abbia risposto alle attese. 

Il sistema del “soggetto unico” è contrario ad ogni norma europea. Ma per quelle misteriose vie della burocrazia di Bruxelles, ogni appello all’Europa è risultato vano.

Nel viluppo dei coinvolti emerge la presenza di persone che per la loro attività o collocazione istituzionale poco avrebbero avuto a che fare con l’attività del Consorzio. A fianco del Magistrato alle acque, autorità scientemente svuotata di reali competenze professionali già dagli anni ’70, che aveva il compito di controllare quanto viene fatto in laguna (ed i cui dirigenti sono ora in galera mentre l’ufficio è stato provvidenzialmente soppresso dall’attuale governo) o di Galan, presidente della Regione per 15 anni (il cui ruolo non è consultivo), c’è una serie di figure la cui utilità per il Consorzio è perlomeno dubbia.

Si configura così nella sua ampiezza corruttiva il sistema MoSE. Il Consorzio non si è impegnato solo a comprare la benevolenza di chi poteva aiutarlo o ostacolarlo, ma anche a creare un clima favorevole intorno alla sua “pesante” e prolungata presenza in laguna. Si spiega così l’interminabile elenco di beneficiari della (dubbiamente utile) serie di consulenze e si spiega anche il finanziamento che ha coinvolto l’ex sindaco Orsoni, rappresentante della tradizione dei grandi professionisti cittadini, dell’università, della Chiesa e… della Compagnia della Vela. Si spiega anche l‘intensa attività editoriale. Quello del Consorzio è stato il comportamento delle Casse di risparmio di un tempo.

Giorni fa il direttore di Avvenire, nel rispondere a Paolo Giannoni che chiedeva chiarezza sul coinvolgimento dell’Istituto Marcianum nelle vicende veneziane, così scriveva: che senso ha citare un atto legale e compiuto alla luce del sole assieme ad atti considerati illegali, compiuti nell’ombra e perciò oggetto di indagini e di provvedimenti della Magistratura? A che pro confondere la Venezia della luce e quella delle ombre? 

Ora è vero che il Marcianum, voluto dal card. Scola quando era patriarca di Venezia, ha goduto fin dalla nascita del finanziamento in chiaro del Consorzio, che il Consiglio di amministrazione è stato presieduto sino al suo arresto da Giovanni Mazzacurati e che l’allora patriarca faceva il fund raising di se stesso con cene annuali cui partecipava il gotha industriale finanziario, pubblico e privato. Ma anche senza essere maliziosi, è giusto chiedersi se per reggere un’attività di studio, ricerca e formazione, imponente quanto costosa, sia una buona idea scegliere una zona grigia che oggettivamente favorisce comportamenti esercitati per favorire consenso, simpatia e condiscendenza. E, ora lo sappiamo, comportamenti criminali.

Ma “il MoSE deve andare avanti, fermarsi sarebbe l’ammissione di una sconfitta”, è l’invocazione diffusa. “Nessun dubbio sulla straordinaria utilità dell’opera”, si aggiunge. Ed invece proprio l’utilità dell’opera che negli ultimi 20 anni è stata messa invano in discussione da molti ambientalisti e da alcuni tecnici, poco ascoltati e a cui si opponeva il grande interesse suscitato fra i tecnici stranieri che ripartivano non facendo mancare ammirazione e complimenti per l’invenzione italiana (“galileiana” era l’apprezzamento più sobrio). Non risulta però che finora qualcuno abbia chiesto di comprare la tecnologia che tanto ammirano. Intanto a due anni dalla (prevista) conclusione i costi sono passati dagli iniziali 1,6 miliardi agli attuali 5,5, e quelli di gestione restano misteriosi. Chi pagherà?

Il buon giornalismo negli scorsi anni aveva raccontato in anticipo tutto questo. Vedi gli interventi costanti di Eddy Salzano sul sito Eddyburg («soluzione tardo ottocentesca, distruttiva di un ambiente delicatissimo e unico, lucrosissima per chi si fa coinvolgere a realizzarla, costosissima per il contribuente, inutile per la salvaguardia degli abitati dalle acque alte») e il libro di Renzo Mazzaro, I padroni del Veneto (Laterza, 2012). Al contrario della grande stampa, che è stata acritica, sorda e cieca, con poche lodevoli eccezioni.

Nuovi canali sono stati scavati, profili di costa modificati, isole artificiali costruite, dragaggi impropri effettuati, con conseguenze sull’andamento delle correnti e del delicato equilibrio lagunare. Gli studi effettuati hanno assecondato il profumo del danaro; escludendo sistematicamente tutto ciò che sostiene o paventa l’inutilità e pericolosità dell’opera. Proprio come accade nella vicenda delle grandi navi in laguna. Chissà che l’arresto del sindaco non serva almeno a suonare una sveglia nelle menti e nei cuori.

* Giornalisti - Venezia

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