
Se prima eravamo in due. Geopolitica mondiale
Ai non rassegnati e a quanti hanno eletto il domicilio a Gaza.
Cari Amici,
come per una grande operazione di distrazione di massa, tutta l’attenzione del mondo è rivolta all’esito della guerra in Ucraina, auspice Trump, mentre il delitto perpetrato contro i Palestinesi a Gaza e in Cisgiordania giunge alla sua soglia estrema, con l’esercito israeliano scatenato al riparo del veto americano all’ONU contro la cessazione delle ostilità nella Striscia. È una contraddizione che dobbiamo cercare di spiegare.
È la prima volta che una trattativa tra le grandi Potenze è andata in scena in diretta televisiva mondiale come una partita del tennista Jannik Sinner, così che tutti la potessero seguire senza sapere come sarebbe andata a finire: una fiction che invece è una reality. In questo senso il simbolo della nostra epoca può davvero essere la tragica figura di Zelensky, che prima di essere l’officiante del sacrificio del suo popolo è stato attore di fiction come ora lo è della reality. Così abbiamo assistito all’incontro Trump-Putin in Alaska e alla movimentata scena degli attori che entravano e uscivano dallo Studio Ovale della Casa Bianca lunedì 19 agosto.
“Il bello della diretta”, come dicono gli operatori della TV, è che ci ha fatto capire la vera novità che, al di là dei meriti e delle nefandezze dei diversi protagonisti e capi delle nazioni, si sta profilando nella presente storia del mondo.
Abbiamo visto Trump fare la spola, in presenza o per telefono, tra Putin e i suoi nemici europei riuniti con Zelensky. Non due parti politiche, ma tre. Non una dualità amico-nemico, ma una triade, una pluralità. Finora, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, cioè dalle bombe di Hiroshima e Nagasaki, abbiamo vissuto nella dualità. Nella falsificazione mediatica e politica questa dialettica è stata trasposta nella contrapposizione binaria tra bene e male, comunismo e anticomunismo, democrazia e totalitarismo, Occidente e Oriente. Da una parte i valori, dall’altra gli spiriti selvaggi, il tutto saldamente integrato in un sistema di dominio e di guerra. Di qui la contrapposizione tra i blocchi, il muro di Berlino e il rischio atomico segnalato dagli scienziati della Columbia University a tredici minuti dalla mezzanotte dell’apocalisse nucleare, della vittoria degli Stranamore, della fine del mondo.
Questa dualità è finita nel 1989 quando, arrivato Gorbaciov e il suo “nuovo pensiero politico”, l’URSS è finita e con essa la guerra fredda; a quel punto l’Occidente ha proclamato: la guerra è finita e noi l’abbiamo vinta, mentre Fukuyama diagnosticava la “fine della storia”: nella globalizzazione il mondo era diventato uno, si potevano distribuire “i dividendi della pace”. Ma è durato poco. Se il mondo è uno, suscita un sovrano, è disponibile a un centro di potere che giunga alla supremazia mondiale. Gli Stati Uniti si sono votati a questa impresa, con l’intento di instaurare un regime basato sui valori universali dell’Occidente, espressi nella triade “Libertà, democrazia e libera impresa”, che nella versione domestica di Berlusconi diventavano le tre I: “Impresa, Inglese e Informatica”; un modello che, quale bene messianico, doveva essere apostolicamente esteso a tutto il mondo. Per farlo gli Stati Uniti hanno messo in campo una potenza militare mai vista prima, che nessuno avrebbe dovuto non solo superare ma nemmeno eguagliare, e hanno saldato a sé l’Occidente, anzi un “Occidente allargato” fino al Pacifico. I rapporti internazionali venivano interpretati dalla Casa Bianca come una “competizione strategica”, nella quale la Russia era considerata ormai fuori gioco, destinata alla condizione di “paria” e con la Nato a chiusura dell’ultimo varco della nuova cortina in Ucraina, mentre veniva messo in conto lo scontro finale con la Cina. Nel Medio Oriente Israele faceva la sua parte per “finire il lavoro” con i palestinesi e il mondo arabo.
Le conseguenze sono state devastanti. Il mondo “altro” non si è piegato a questo unipolarismo, ha reagito in vari modi, dalle Torri gemelle al terrorismo, alla competizione economica, ad Hamas, fino alla invasione russa dell’Ucraina. La dualità ha resistito, il mondo monocratico sotto un solo sovrano, fosse pure una Costituzione data dall’Occidente, è rimasto una chimera. Nel contempo lo stesso Impero americano è andato in declino, il suo popolo si è trovato impoverito. Restava tuttavia ben stretto il rapporto degli Stati Uniti con i loro alleati, ben protetti dalle armi americane, con l’Europa, la cui presunzione la rende più tarda a capire, che continuava a credere di essere in pista per il dominio del mondo, con i suoi valori pur da lei stessa traditi; la sua interpretazione dello stato del mondo era quello con cui il Corriere della Sera titolava i suoi articoli più guerrieri: “L’Occidente e il resto del mondo”.
Ed ecco che arriva uno che come il folle di Nietzsche va al mercato gridando “Dio è morto”, e scompagina il gioco, “le carte”, come Trump dice a Zelensky allibito. Quel mondo è finito proclama. Le parti non sono due, condannate a uno scontro mortale tra loro, ma sono tre. E il terzo è lui, un po’ arbitro, un po’ complice. Gli Stati Uniti non danno più le loro armi a nessuno, semmai gliele vendono. Facciamo gli affari, non la guerra, dice, anche se è proprio con la guerra che qualcuno fa affari mai visti. Trump non è succube di Putin, il suo è piuttosto un egoismo da grande Potenza. Ma il motivo è nobile: troppi morti, da una parte e dall’altra, ogni settimana.
Ma allora perché permette, non vuole che cessi, o addirittura incoraggia il genocidio di Gaza? Lo fa perché rispetto a Israele non è terzo, ma è una cosa sola con lui. Il messianismo è lo stesso: sionismo ebraico in Israele, sionismo cristiano in America, i pionieri del West come i coloni in Cisgiordania, il fare di nuovo grande l’America, come fare di nuovo il grande Israele. I due poteri si integrano, l’esercito israeliano finanzia la ricerca tecnologica del Massachusetts Institute of Technology, la pressione ebraica sulla politica americana è fortissima. L’ultimo segnale è la sospensione dei visti d’entrata per i residenti di Gaza, e in particolare per i bambini feriti nei bombardamenti, alcuni dei quali erano stati accolti negli Stati Uniti. La decisione è stata presa dopo che una “influencer” di estrema destra, attiva nei social e vicina a Trump, Laura Loomer, aveva definito i bambini feriti un «rischio per la sicurezza nazionale». Ma quale rischio? Il rischio poteva essere semmai per Israele, dove quei bambini, se curati e tornati in patria potrebbero diventare domani militanti di Hamas: la stessa ragione per cui a Gaza sono stati uccisi i 12.211 bambini i cui nomi sono stati letti dal cardinale Zuppi nel cimitero di Casaglia a Monte Sole (e secondo Sachs sarebbero 18.500 i bambini uccisi).
Per la salvezza dei Palestinesi e dello stesso Israele, è questa identificazione tra gli Stati Uniti e lo Stato di Israele che dovrebbe cadere, e dovrebbe sciogliersi l’intreccio perverso tra i due messianismi. L’obiettivo da raggiungere sarebbe di rompere questo connubio idolatrico, restituendo gli Stati Uniti e lo Stato ebraico alla loro diversa identità e autonomia, recuperando la distinzione, rivendicata proprio in questi giorni dall’Ebreo americano prof. Jeffrey Sachs, tra lo Stato sovrano dei soli cittadini di Israele e gli Ebrei cittadini nei diversi Paesi del mondo, gli uni gli altri uniti dalla loro fede, cultura, etica e tradizioni, ma non riducibili a una nazionalità o unità di stirpe che si pretenda sovrana.
Solo così, contro la monocrazia e la dicotomia tra Amico e Nemico, il mondo stesso potrà salvarsi nella “convivialità delle differenze”. L’America dovrebbe essere stimolata a questa vera conversione per il futuro del mondo. Forse la Meloni, che abbiamo visto godere di così grande stima da parte di Trump, potrebbe spingerlo a questa scelta, a nome dell’Italia che ama i Palestinesi non meno che gli Ebrei.
Nel sito pubblichiamo una lettera davvero cristiana dell’Arcivescovo di Napoli Domenico Battaglia, un discorso alla Conferenza di Monaco del 2007 per capire Chi è Putin, e una lettera di Jeffrey Sachs al ministro degli esteri israeliano sulla vera natura dello Stato di Israele, seguita da un appello dell’ex Presidente della Knesset, Burg, per un ricorso alla Corte Penale Internazionale sui crimini di guerra a Gaza.
Con i più cordiali saluti,
da “Prima Loro” (Raniero La Valle)
*Foto generata da IA
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