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400 RABBINI CHIEDONO A NETANYAHU DI FERMARE LA DEMOLIZIONE DI CASE PALESTINESI

Tratto da: Adista Notizie n° 7 del 21/02/2015

37995 ROMA-ADISTA. Ogni anno nell’Area C della Cisgiordania – quella che gli Accordi di Oslo affidarono, in teoria temporaneamente, al totale controllo israeliano – centinaia di edifici palestinesi vengono abbattuti perché costruiti senza l’autorizzazione delle autorità di occupazione: nel 2014 – secondo l’Ufficio di coordinamento delle attività umanitarie dell’Onu (Ocha) – sono state 590 le costruzioni demolite in Area C e a Gerusalemme Est, per un totale di 1.177 persone lasciate senza un tetto sulla testa. Si tratta del dato più alto registrato dall’Ocha da quando, nel 2008, ha dato il via al monitoraggio. 

Per porre termine una volta per tutte a questa ennesima ingiustizia, più di 400 rabbini – israeliani, europei e nordamericani – hanno sottoscritto l’appello a Benjamin Netanyahu lanciato dall’associazione “Rabbini per i Diritti umani”. I firmatari sottolineano che migliaia di palestinesi «sono stati costretti a costruire senza permesso» e che «grande sofferenza umana è causata ogni anno dalla demolizione di centinaia di case». «I diritti umani non possono essere politicizzati», proseguono: «Israele ha l’obbligo di assicurare a ogni essere umano sotto il suo controllo la possibilità di costruire una casa per sé e per la propria famiglia, indipendentemente dallo stato del processo di pace e dall’eventuale divergenza di opinioni circa il fatto che in un futuro accordo di pace quell’area debba o meno ricadere sotto il controllo israeliano». Per questo i 400 rabbini chiedono al premier israeliano di sostenere il procedimento intentato presso la Corte suprema – su iniziativa di Rabbini per i Diritti umani, Consiglio del villaggio Ad-Dirat-Al-Rfai’ya (nella zona di Hebron), Centro di aiuto legale e diritti umani di Gerusalemme, Comitato israeliano contro la demolizione delle case e Società di  St. Yves, organizzazione cattolica attiva nel campo dei diritti umani patrocinata dal Patriarcato latino di Gerusalemme – affinché sia riconosciuto il diritto dei palestinesi di partecipare alla pianificazione territoriale in Area C, attraverso il ripristino dei comitati palestinesi di pianificazione aboliti nel 1971.

La richiesta è stata presentata nel 2011 ma solo nell’aprile del 2014 la Corte suprema ha battuto un colpo, dando a Israele 90 giorni per avanzare proposte che tenessero in considerazione i rilievi mossi dai ricorrenti. Ma la soluzione prospettata, vale a dire quella di istituzionalizzare le consultazioni – che in molti casi già hanno luogo, ma senza incidere in modo significativo perché l'amministrazione israeliana non ha l'obbligo di tenerne conto – non ha soddisfatto i promotori del ricorso che hanno quindi deciso di fare appello direttamente al premier.

Difficilmente però l’iniziativa sortirà qualche effetto, tanto più se si pensa che solo agli inizi di febbraio Netanyahu ha annunciato la demolizione di altre 400 strutture.

Quella dell’Area C – che rappresenta più del 60% di tutta la Cisgiordania – è una delle ferite aperte degli Accordi di Oslo. Qui vivono, secondo gli ultimi dati Ocha, circa 300mila palestinesi e, in spregio al diritto internazionale, ben 340mila coloni israeliani, dislocati in 135 insediamenti e in un centinaio di avamposti. Solo l’1% di quest’area è destinato allo sviluppo delle comunità palestinesi. Più del 70% delle comunità palestinesi situate in tutto o in gran parte in Area C non ha accesso alla rete idrica; il consumo di acqua pro capite in alcune di queste comunità è inferiore ai 20 litri al giorno: meno di un quinto della quantità raccomandata dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. Più di 6mila palestinesi inoltre sono a rischio trasferimento forzato, poiché vivono in 38 comunità situate in quelle che Israele ha definito “firing zones” per l’addestramento militare. (ingrid colanicchia)

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