
Scarta la Carta? No!
Tratto da: Adista Notizie n° 40 del 19/11/2016
«La democrazia è un bene delicato, fragile, deperibile, una pianta che attecchisce solo in certi terreni, precedentemente concimati». Lo diceva Tina Anselmi, partigiana, cattolica democratica, presidente della Commissione di inchiesta sulla P2 e prima donna ministro della nostra Repubblica. Lo diceva lei, che sapeva bene quali attacchi (palesi ed occulti) la Costituzione, frutto della lotta antifascista e dell’incontro tra le culture cattolica, liberale, socialista e comunista aveva subìto, sin dalla sua promulgazione.
Siamo consapevoli che la Costituzione è stata spessa ignorata, solo parzialmente realizzata, non di rado tradita. Ma con Tina Anselmi e con tutti quelli che hanno lottato in questo Paese per il riscatto degli oppressi siamo altrettanto consapevoli che i diritti non si conquistano una volta per tutte. Vanno difesi quotidianamente, perché sono sempre il risultato della nostra capacità di farli attuare, di proseguire l’impegno di chi preceduto, battendoci per una società più giusta, eguale, libera, solidale.
Le Costituzioni, sia chiaro, si possono cambiare, basta che si sia consapevoli che il loro mutamento coincide con una cambiamento dei rapporti di forza all’interno delle società che le redigono e che le fanno (o non le fanno) rispettare. E oggi questi rapporti non sono certo a favore delle classi subalterne, né dei partiti e dei movimenti che intendono rappresentarli.
La Costituzione del 1948 ha per decenni espresso il modello di una democrazia parlamentare nella quale tutte le culture potessero esprimersi e potessero essere rappresentate. Ha difeso un’idea di Stato repubblicano dove i poteri fossero bilanciati e nessuno prendesse il sopravvento sull’altro. Poi, però, soprattutto dalla fine degli anni ’80, in coincidenza con la sconfitta della sinistra (parlamentare, politica e culturale) nel nostro Paese, è iniziato un processo involutivo, che ha modificato nelle coscienze e poi anche nelle norme il primato della partecipazione e della rappresentanza, sostituendolo con quello della governabilità, della stabilità, della necessità di concentrare il potere decisionale nelle mani di pochi affinché lo Stato fosse più “efficiente”.
Nonostante il miraggio di una “Seconda Repubblica”, è però ormai da circa un decennio che assistiamo, in Italia come in tutti i Paesi occidentali, ad una crisi sempre più acuta e profonda delle democrazie liberali. E gli sbarramenti elettorali, i premi di maggioranza, i governi di larghe intese non sembrano in grado di realizzare nemmeno parzialmente la stabilità promessa. Le elezioni Usa, così come il pasticcio Brexit in Gran Bretagna, l’annullamento delle presidenziali in Austria, la difficoltà di formare un governo in Spagna, la crisi greca, l’avanzata ovunque delle destre populiste e reazionarie, ma anche le difficoltà che evidenziano le istituzioni e i governi di Paesi come Francia e Germania dimostrano come le classi dirigenti fatichino ormai a governare la crisi economica, e che essa è ormai sempre più anche crisi politica, sociale, culturale. Ecco allora proporsi con l’imminente referendum costituzionale la soluzione, suadente ma pericolosissima, di un modello di democrazia che un autorevole costituzionalista come Gustavo Zagrebelsky definisce “autoritario”. In cui chi vince prende tutto, i poteri si concentrano nelle mani di pochi e agli sconfitti si lascia solo un diritto di tribuna.
Per queste ragioni, votare “no” il 4 dicembre significa non rassegnarsi a questo destino, che a molti pare irreversibile, ma che non lo è affatto. Significa pensare che in un Parlamento il corpo elettorale debba essere rappresentato in maniera adeguata, in tutte le sue componenti. E che un Parlamento vada votato dai cittadini, non nominato (come avverrà per il Senato) dai Consigli regionali. Significa pensare al presidente della Repubblica come al garante della Costituzione e dell’unità nazionale, non come l’esponente di una maggioranza politica. Significa pensare che un uomo solo non può stare al comando e che la democrazia o è fondata sulla sovranità popolare o non è democrazia.
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