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Quel legame perduto con il suolo

Quel legame perduto con il suolo

Tratto da: Adista Documenti n° 14 del 08/04/2017

(Per l'articolo di introduzione, clicca qui)

Estrattivismo italiano

La parola estrattivismo è un neologismo che ci viene dall’America Latina, dove il fenomeno ha raggiunto forme estreme, e dove - grazie all’esperienza diretta e all’acuta riflessione di operatori sociali di vari settori (Raúl Zibechi, Eduardo Gudynas, Pablo Davalos …) - ha visto allargare il suo significato e il suo campo di applicazione.

Così, secondo l’analisi di Zibechi, si è percepito l’estrattivismo dapprima essenzialmente come un fatto ambientale, poi come un modello economico e infine come modello di società. L’autore del breve ma denso saggio La nuova corsa all’oro, edito da Hermatena nella collana “Voci da Abya Yala” (pp. 105, euro 9, tel. 051-916563, info@mutusliber.it; v. Adista Notizie n. 2/17), in un articolo posteriore approfondisce la sua riflessione sull’estrattivismo come cultura cercando di «comprendere le sue caratteristiche profonde e i limiti delle analisi precedenti. Uno dei limiti (…) consiste nell’aver guardato fondamentalmente all’aspetto ambientale e di rapina della natura inerente al modello di conversione dei beni comuni in merci (…). L’altro grosso errore è stato quello di considerare l’estrattivismo come un modello economico, secondo il concetto di accumulazione per spossessamento elaborato da David Harvey. In sintesi, all’errore di aver incentrato le critiche (in modo quasi esclusivo) sull’aspetto ambientale si è aggiunto l’economicismo di cui soffrono molti di coloro (me compreso) che hanno avuto una formazione marxista. (…) Il capitalismo non è un’economia ma un tipo di società (o formazione sociale), anche se evidentemente esiste un’economia capitalistica. Con l’estrattivismo succede qualcosa di simile. Se l’economia capitalistica è accumulazione per estrazione di plusvalore (riproduzione ampliata del capitale), la società capitalistica ha prodotto la separazione della sfera economica dalla sfera politica. L’economia estrattiva, un’economia di conquista, di furto e di rapina, non è altro che un aspetto di una società estrattiva (o di una formazione sociale estrattiva), che è la caratteristica del capitalismo nella sua fase di dominio del capitale finanziario». 

Estrattivismo significa quindi molte cose diverse: estrazione di ricchezze naturali dal sottosuolo con relative devastazioni ambientali, esaurimento della fertilità dei suoli mediante monocoltivazioni intensive senza riposo dei terreni, desertificazione per riforestazioni intensive di eucalipti per produrre cellulosa (l’eucalipto, avido di acqua, fa il deserto attorno a sé), estrazione di valore da territori urbani con opere di “gentrificazione” (termine di derivazione inglese che indica l'insieme dei cambiamenti urbanistici e socio-culturali di un'area urbana, tradizionalmente popolare o abitata dalla classe operaia, derivanti dall'acquisto di immobili da parte di popolazione benestante) e altro ancora come indicheremo con alcuni esempi. Ricordiamo le faraoniche opere di Expò 2015 a Milano. Cui prodest? Ai soliti noti…

In una famosa “Dichiarazione sul suolo” di Ivan Illich, Lee Hoinacki e Sigmar Groeneveld, fra l’altro si legge: «La nostra generazione ha perso il suo radicamento al suolo e alla virtù. Per virtù intendiamo la forma, l'ordine e la direzione dell'azione plasmata dalla tradizione, delimitata dal luogo e qualificata dalle scelte effettuate entro l'ambito abituale di esperienza di ciascuno; intendiamo quella pratica reciprocamente riconosciuta come il bene in una cultura locale condivisa che rinforza la memoria di un luogo. (…) I nostri legami col suolo - le relazioni che limitavano l'azione rendendo possibile la virtù pratica - sono stati recisi allorché il processo di modernizzazione ci ha isolati dalla semplice sporcizia, dalla fatica, dalla carne, dal suolo e dalle tombe. La sfera economica dentro cui, volenti o nolenti, talvolta a caro prezzo, siamo stati assorbiti, ha trasformato le persone in unità intercambiabili di popolazione, governate dalle leggi della scarsità».

Direi che tutto ciò che impoverisce, anche culturalmente, il legame fra una popolazione e il suo territorio è estrattivismo nel senso più ampio. Quale è la situazione oggi in Italia?

Casa, dolce casa 

Dalla terrazza della mia casa sulle belle colline lucchesi vedo, ad ovest, l’arco stupendo delle Alpi Apuane, generoso di tramonti infuocati. Chiudo gli occhi, penso al video Aut Out  (https://www.youtube.com/watch?v=clYuGVVVLpo, da non perdere!) e l’incantesimo svanisce. Alle immagini dirette il ricordo sovrappone quelle del video, documento inquietante sulla furia devastatrice di questo estrattivismo minerario: non per estrarre blocchi preziosi di quel “bianco di Carrara” che Michelangelo sceglieva personalmente, blocco per blocco, per dare corpo ad alcuni suoi capolavori, bensì per produrre, dopo oscena frantumazione, carbonato di calcio in polvere destinato all’industria. 5 milioni di tonnellate estratte ogni anno!

Fra me e le Apuane sta la vista della piana di Lucca, che per mesi ogni mattina ho filmato per documentare le fasce nerastre che la deturpano e che diventano coltre continua nei periodi di assenza di pioggia o di vento. Sono le industrie cartarie, dicono alcuni esperti. No, il traffico sull’autostrada, rispondono queste. E intanto il numero dei tumori polmonari cresce e la falda acquifera, già ricchissima, si deteriora. La piana infatti è il maggior polo cartario d’Europa, proprio grazie a questa falda che il vescovo irlandese Frediano mise sotto controllo con sapienti opere nel V secolo. 

Esco di casa e risalgo la collina verso Montecarlo, fino a scorgere l’altro versante. Sotto di me, il mare di plastica delle serre florovivaistiche della piana di Pescia – già secondo polo florovivaistico del Paese – col loro “generoso” apporto di veleni agricoli al terreno e quindi alle acque. Subito fuori Pescia si staglia l’inconfondibile sagoma del «nuovo mercato dei fiori di Pescia, incastonato tra i borghi storici e strategici di Collodi Castello e Uzzano Castello, al di sotto del Convento francescano di Colleviti, (e che) è stato selezionato tra le opere di interesse storico-artistico realizzate dal 1945 ad oggi». Oltre 30mila mq coperti, con una avveniristica copertura piana sostenuta da tiranti d’acciaio che partono dall’alto di 12 enormi tralicci che lo sovrastano. Bello, come opera d’arte. Potete ammirarlo su internet, ma non vi si dirà che l’unico suo utilizzo di rilievo resta la Biennale internazionale del fiore. Il consorzio Comicent che lo aveva in gestione è fallito e oggi la struttura appartiene alla Regione Toscana: le sue dimensioni sono sproporzionate alla reale necessità e quindi all’impiego corrente, economicamente proibitivo. Per colmo d’ironia il grande tetto piano che doveva consentire l’atterraggio degli elicotteri per il collegamento diretto con l’aeroporto di Pisa non è stato giudicato agibile (oltre alla non necessità…) per la pericolosità rappresentata per gli elicotteri stessi dai detti tralicci. Il costo totale ufficiale, negli anni ’70, è stato di 30 miliardi di lire. Sottratti al pubblico erario…

Più oltre, dopo Montecatini Terme e il Serravalle, le coltivazioni arboree del pistoiese, altrettanto generose di veleni per il terreno prima, subito dopo per le falde e infine per gli umani. Non è tutto. Sulla destra rispetto a Pescia, verso sud-ovest, le ultime propaggini dei Monti Pisani nascondono la vista del grande distretto conciario di Santa Croce sull’Arno. Qui a far da padrone è il terribile cromo trivalente, cui si aggiunge, nei giorni di calura, il meno pericoloso ma insopportabile malodore. Un po' più a destra, dietro il corpo centrale dei monti “per cui pisani veder Lucca non ponno” (Dante), l’aereoporto NATO di San Giusto, recentemente potenziato per poter ricevere, armare e smistare fino a 60mila militari in un giorno. Subito dopo ecco la base militare USA di Camp Darby. Qui il sottosuolo custodisce ogive atomiche, da “estrarre” in caso di bisogno: che non sia mai! Intanto tutte assieme queste attività hanno espulso le coltivazioni, la pineta e la salubrità.

Tutto questo però diluito su un territorio enorme, si penserà. Niente affatto. Se prendo come centro la mia casa, quanto descritto è contenuto in un cerchio di 40, massimo 50 chilometri di raggio. Ma se allungo, dopo Pistoia, verso Firenze, di un’altra quindicina di chilometri, vi entreranno anche il grande polo tessile di Prato, i contestatissimi inceneritori, vecchi e in costruzione, e l’allungamento delle piste dell’aeroporto fiorentino di Peretola. Una sentenza del TAR ha momentaneamente arrestato i lavori del nuovo inceneritore, con una sentenza che pare un dileggio: occorrono le opere di “mitigazione”! Mitigazione di che? Per morire “sedati”?

La casa Italia

Puntiamo ora l’obiettivo sull’universo estrattivista italiano per un breve sguardo su alcune forme di questo meccanismo di estrazione di valore da ogni aspetto della nostra vita, pizzicando qua e là. Inizio da fenomeni più rispondenti al significato tradizionale della parola - estrazione di un prodotto fisico dal sottosuolo - con un esempio: il petrolio lungo le coste dell’Adriatico e della Basilicata. Qui si evidenzia in modo significativo come le trivellazioni di idrocarburi estraggano valore da un territorio, depauperandolo fisicamente ed ecologicamente, per trasferirlo in altri luoghi. Le società che estraggono idrocarburi dal mare o dalla terraferma italiana pagano royalties irrisorie, dal 7 al 10% del valore estratto. Di questo, solo il 15%, nei casi migliori, quindi in definitiva lo 0,015%, viene lasciato alle comunità locali, che in cambio subiscono devastazione ambientale in abbondanza, e qualche (mai ben quantificata…) manciata di tumori. Di nuovo è la salute stessa che viene estratta. Nulla invece è riconosciuto se l’estrazione avviene in mare. 

Altro esempio, all’estremo Nord, in Val di Susa. Qui, come obiettivo principale non si estraggono materiali, li si spostano al più, ma si utilizza il territorio per il passaggio di strutture di servizio che non apportano ricchezza alcuna al territorio stesso (strade statali, autostrade, linee ferroviarie TAV, elettrodotti etc). Alla ‘ndrangheta, che sembra controllare il movimento di questi materiali, interessa, e come, anche la loro estrazione. Il degrado conseguente è di natura abitativa, in una valle (già) ad alto valore turistico e ambientale, di perdita di suolo coltivabile, ecc. Ne consegue il conflitto sociale, in una zona dove parte degli abitanti ha compreso la perversione di questi progetti. E, in attesa del TAV, per anni teorie di camion trasporteranno attraverso i paesi i materiali di scavo, contenenti fra l’altro fibre di amianto e minerali di uranio. Qui risalta soprattutto l’estrazione di denaro pubblico per un’opera che, ormai è certo, non ha alcun valore strategico, essendo l’attuale linea ferroviaria, recentemente potenziata, destinata a restare sottoutilizzata!

La chimica italiana ha lasciato un cimitero di territori avvelenati negli anni del boom, alcuni ben noti per la casistica particolarmente grave, dall’ACNA di Cengio alla Solvay di Spinetta Marengo, alla Caffaro di Brescia, al retroterra veneziano del petrolchimico di Marghera e giù giù fino a Bussi (Pescara) e fino alle tormentate raffinerie siciliane, senza però dimenticare il caso, che ebbe eco internazionale, della ICMESA di Seveso. Ma pochi sanno che la Caffaro, dichiarata fallita nel 2011, ha lasciato nel terreno una quantità di diossina circa 20 volte maggiore di quella dell’ICMESA. Qui le industrie si erano installate non per estrarre materiali ma per trasformarli, “estraendo valore” da particolari agevolazioni fiscali, normative o geografiche. Hanno lasciato territori biologicamente morti dopo aver gravemente infierito sulla salute degli abitanti e sull’ambiente.

Non dimentichiamo inoltre il consumo di territorio, sottratto incessantemente alla natura: ben 4 metri quadri ogni secondo, come informa l’ultimo rapporto ISPRA del 2016. Le ragioni: l’aumento del numero delle infrastrutture o grandi opere, la cementificazione, l’erosione idrica dei suoli e la loro salinizzazione.

E prima di chiudere questa breve rassegna, pur molto incompleta, proponiamo una riflessione per invitare a una lettura ampliata del fenomeno estrattivista: l’estrazione di denaro dai circuiti locali per trasferirlo nelle zone già ricche. I supermarket e gli outlet ne forniscono un esempio eccellente. Essi hanno distrutto la grande realtà del piccolo commercio costituito da migliaia di negozi familiari legati spesso ad attività agricole locali (i contadini di vicinato) o artigianali, che producevano, creavano e facevano circolare ricchezza trattenendola sul territorio. Oggi il denaro raccolto mensilmente da un supermarket lascia il territorio per finire al vertice situato in qualche zona già ad alta concentrazione finanziaria. E, per concludere, il drenaggio attraverso il risparmio depositato in posta. Gli uffici postali, presenti capillarmente sul territorio, con i loro milioni di piccoli risparmiatori che depositano cifre singolarmente piccole ma globalmente altissime, sono una rete a maglia fitta di raccolta di denaro, anche questo destinato a essere estratto dal territorio. Tradizionalmente questo denaro viene raccolto da un istituto pubblico, la Cassa Depositi e Prestiti, che in passato generava con ciò ricadute sul territorio, in genere finanziando a tassi agevolati Comuni e Provincie per opere locali di pubblica utilità. Con l’odierna ristrutturazione in funzione del modello economico dominante, per gli Enti locali l’agevolazione dei tassi è finita. La Cassa Depositi e Prestiti, dove fluisce il deposito postale, è una delle banche a più alta disponibilità di liquidità e funziona secondo la corrente logica bancaria, per cui gli Enti locali sono normali clienti, come altri, pagando gli stessi tassi. Essa potrebbe riprendere a far fluire il denaro a condizioni agevolate per risanare geologicamente un territorio nazionale disastrato. Ma la cultura dominante è l’estrattivismo. In tutte le sue forme possibili. 

* Aldo Zanchetta è tra i massimi esperti dei movimenti indigeni e sociali dell’America Latina, già presidente della Fondazione Neno Zanchetta, coordinatore della nuova collana “Ripensare il mondo” della casa editrice Hermatena, collaboratore del gruppo Camminar domandando e di Re:Common,  autore del Mininotiziario America Latina dal basso e di diverse altre pubblicazioni, tra cui i libri America Latina, l’arretramento de los de arriba e America Latina, l’avanzata de los de abajo.

* Immagine di Stefanoacetelli tratta da Wikimedia Commons, Licenza e immagine originale 

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