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In Ecuador il popolo sceglie la continuità. E i governi progressisti respirano

In Ecuador il popolo sceglie la continuità. E i governi progressisti respirano

Tratto da: Adista Notizie n° 15 del 15/04/2017
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38925 ROMA-ADISTA. Assegnando la vittoria a Lenin Moreno – il candidato di Alianza País, il partito del presidente uscente Rafael Correa –, il popolo ecuadoriano, al secondo turno delle elezioni presidenziali del 2 aprile scorso, ha mostrato di aver compreso con chiarezza la lezione offerta dall'Argentina, dove, con la caduta del kirchnerismo nel novembre del 2015, il popolo è nuovamente sprofondato in una buia notte neoliberista. Una sconfitta, quella, su cui aveva pesato anche la scelta astensionistica dei settori più radicali della sinistra, sulla base di un'equiparazione tra il candidato progressista (quel Daniel Scioli entrato in politica con Menem e riconducibile al peronismo più conservatore) e quello dell'opposizione, l'imprenditore milionario e iperliberista Mauricio Macri, il quale avrebbe subito scatenato, secondo l'efficace definizione di James Petras, «una guerra di classe di alta intensità», con l'obiettivo di annullare qualsiasi misura socio-politica di segno progressista realizzata dal kirchnerismo e stabilire una nuova alleanza tra industria agro-mineraria, oligarchia bancaria, investitori stranieri e apparato politico-militare. Cosicché, all'indomani del risultato elettorale, in molti si erano chiesti come fosse potuto accadere che il popolo argentino, al di là dei limiti del kirchnerismo e della scelta di un candidato chiaramente sbagliato, avesse votato per il ritorno a un passato che lo aveva visto precipitare nella miseria. Un errore che il popolo ecuadoriano non ha voluto commettere, decidendo, benché senza grande entusiasmo, di dare continuità alla Rivoluzione Cittadina promossa – con risultati all'inizio assai apprezzabili ma, con il passare del tempo, via via più deludenti - dal carismatico economista Rafael Correa. 

Tanto più che l'avversario di Lenin Moreno, il banchiere Guillermo Lasso, rappresentava davvero il peggio del peggio dell'oscuro passato del Paese, essendo, in veste di presidente del Banco de Guayaquil, uno dei responsabili della tremenda crisi economica e finanziaria del marzo del 1999, passata alla storia con l'eufemistica denominazione di “feriado (giorno festivo, ndr) bancario” (5 giorni di chiusura totale degli sportelli durante i quali erano stati trasferiti all’estero ingenti capitali): una crisi che avrebbe costretto centinaia di migliaia di ecuadoriani a lasciare il Paese e condotto alla sostituzione della moneta nazionale con il dollaro statunitense. Né potevano esserci dubbi sulle politiche che Lasso – il quale, secondo la migliore tradizione della destra latinoamericana, si è rifiutato di riconoscere i risultati – avrebbe seguito se avesse vinto le elezioni: ridimensionamento del ruolo dello Stato, riduzione della spesa pubblica, tagli alla salute e all'educazione, rinuncia al controllo statale dei giacimenti (sulla cui estrazione esercita comunque un controllo pressoché totale il governo cinese), riallineamento agli Stati Uniti (con conseguente abbandono dell'Alba, chiusura della sede dell'Unasur e consegna alle autorità britanniche di Julian Assange, il fondatore di Wikileaks riparato dal 2012 nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra). 

E se, in questo quadro, può semmai destare sorpresa il fatto che il candidato progressista abbia riportato una vittoria di così stretta misura (51% contro 49%) – e ancor di più che alcuni settori della sinistra abbiano deciso di votare Lasso –, è chiaro che sul risultato pesa indiscutibilmente l'involuzione registrata dalla Rivoluzione Cittadina di Correa, come pure, secondo quanto evidenzia Raúl Zibechi (Brecha, 1/4), lo stile autoritario e aggressivo del presidente uscente, giunto «a denigrare e a insultare gli avversari, e in particolare le sinistre e il movimento indigeno», colpevoli di denunciare la deriva conservatrice del governo, testimoniata dalla quantità di conflitti legati all’attività mineraria, all’acqua, alla mancata ridistribuzione della terra, alla compressione degli spazi di partecipazione dei movimenti popolari, alla criminalizzazione della protesta sociale.

Una vittoria che fa morale

Per quanto meno netta di quanto sarebbe stato lecito attendersi, la vittoria di Lenin Moreno segna comunque, finalmente, un punto a favore di quel ciclo progressista latinoamericano considerato da più parti in via di esaurimento. Considerata non a caso, certo un po' enfaticamente, come una sorta di “battaglia di Stalingrado” sul suolo della Patria Grande, l'affermazione del candidato di Alianza País ha infatti interrotto la sequenza di amare sconfitte – inaugurata per l'appunto in Argentina con la caduta del kirchnerismo - incassate negli ultimi tempi dai partiti progressisti latinoamericani: in Venezuela, con la conquista da parte dell'opposizione, nelle elezioni parlamentari del dicembre 2015, del controllo del potere legislativo; in Bolivia, con la sconfitta del presidente boliviano Evo Morales, nel febbraio del 2016, al referendum sulla possibilità di una sua ricandidatura nel 2019; e in Brasile, con il golpe parlamentare-giudiziario-mediatico contro la presidente brasiliana Dilma Rousseff, nell'agosto del 2016, e con l'avvio di una feroce controriforma neoliberista da parte del nuovo governo di Michel Temer

Una boccata di ossigeno, dunque, per i governi progressisti sopravvissuti all'offensiva implacabile delle destre, in un momento, peraltro, di forti tensioni per il subcontinente latinoamericano, come dimostra in particolare il caso del Venezuela, dove il debole, balbettante e screditato governo Maduro è caduto nell'errore di tentare la strada delle misure d'eccezione – con la dissoluzione dell'Assemblea Nazionale, poi revocata, da parte della Corte Suprema di Giustizia (motivata dal persistere del rifiuto dell'Assemblea di rimuovere dal loro incarico tre deputati dello Stato di Amazonas, invalidati per frode) – per fronteggiare i piani golpisti dell'opposizione, ormai apertamente impegnata, sotto la regia degli Stati Uniti, a sollecitare un intervento internazionale a guida Oea (l'Organizzazione degli Stati Americani, ancora e sempre “Ministero delle Colonie” Usa) proprio a presunta salvaguardia di quell'ordine costituzionale sistematicamente calpestato dalle destre. Con l'ulteriore paradosso di una riunione di urgenza convocata il 3 aprile dal segretario generale dell'Oea Luis Almagro per discutere della «grave alterazione costituzionale dell’ordine democratico» in Venezuela, ma esautorando la presidenza pro-tempore della Bolivia e dunque calpestando le stesse procedure democratiche dell'organismo (con il senatore statunitense Marco Rubio giunto a minacciare Haiti, El Salvador e la Repubblica Dominicana di tagli all'assistenza finanziaria nel caso non avessero votato a favore delle sanzioni contro il Venzuela previste dalla Carta democratica interamericana). Senza contare che, in prima linea nelle denunce contro il governo Maduro, si dintinguono campioni indiscussi di democrazia come il governo brasiliano di Michel Temer, quello argentino di Mauricio Macri e quello paraguayano di Horacio Cartes, figlio del golpe del 2012 contro l'ex presidente Fernando Lugo

Proprio il Paraguay, peraltro, è stato teatro di nuove tensioni e violenze (con il bilancio di un morto e decine di feriti), dopo l'approvazione da parte del Senato, con un vero colpo di mano, di un emendamento costituzionale che, in vista delle elezioni del 2018, consentirebbe la rieleggibilità di Cartes, ma anche del presidente deposto Lugo (la Costituzione varata nel 1992, dopo 35 anni di dittatura, stabilisce infatti un unico mandato presidenziale di cinque anni): un voto che ha scatenato le proteste – ferocemente represse dalle forze dell'ordine – di una popolazione già stremata dalle persecuzioni, dalla restrizione delle libertà, dalla negazione dei diritti seguite al golpe del 2012. 

 

* Foto di Carlos Rodríguez/ANDES tratta da Flickr, Licenza e immagine originale

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