
LEGGE ELETTORALE: NON UN BUON VIATICO
Tratto da: Adista Notizie n° 22 del 17/06/2017
La legge elettorale è uno strumento e non un fine. Fine è la politica o meglio le politiche al plurale, cioè le azioni concrete tese al bene di persone e comunità. Uno strumento, e tuttavia uno strumento importante perché, letteralmente, esso trasforma i voti in seggi e dunque concorre a decidere della composizione degli organi politici legittimati a deliberare le concrete politiche. Di più: trattasi della più politica delle leggi in quanto sottintende una visione del sistema politico operante e, più ancora, della sua dinamica evolutiva. È strumento da contestualizzare. Non esistono leggi elettorali buone o cattive in astratto, a prescindere dal contesto politico. Esemplifico: la legge proporzionale che, per quasi quarant'anni, ha disciplinato l’elezione del Parlamento italiano, quantomeno ai suoi inizi, è stata utile e preziosa. Allora, il principale dei problemi della nostra democrazia (difficile, incompiuta) era quello dell’integrazione delle masse dentro le regole e la dinamica costituzionale, attraverso i partiti. Fu funzione provvidenziale. A partire dai primi anni Novanta del secolo scorso si avvertì l'esigenza di farsi carico di una esigenza di governabilità (oltre che di rappresentanza) e dunque di un diverso equilibrio tra loro. Di contribuire cioè alla stabilità e all’efficacia dei governi dopo quattro decenni di esecutivi precari e di breve durata. Anche per tenere il passo dei partner europei nel mentre procedeva l'integrazione comunitaria. Maturò così, a valle di due referendum elettorali, la legge Mattarellum, per tre quarti maggioritaria.
Oggi si profila una svolta verso un asserito (impropriamente, per abbellirlo) modello tedesco. In realtà, un proporzionale puro che promette ingovernabilità ed esecutivi consociativi tra destra e sinistra. Con un Parlamento di nominati da quattro (esattamente quattro) capi di partito.
Sia chiaro: non è la proporzionale in sé a fare problema. È il suo prevedibilissimo effetto concreto. Male dissimulato dai suoi promotori: un governo sull'asse PD-FI che è già scritto nei numeri, nonostante i due partiti si affannino, mentendo, a smentire. Un patto-governo della nazione non originato da uno stato di necessità (come appunto in Germania) che non si può escludere in assoluto, ma fondato sull’eclissi della differenza tra destra e sinistra. Una teoria di regola sostenuta dalla destra... e che sortisce concrete politiche di destra.
A fare problema, notavo, sono gli effetti. Ma anche le malcelate e non virtuose motivazioni: e cioè la generale debolezza degli attori politici e la loro preoccupazione che a vincere siano altri, gli avversari. Si spiega benissimo nel caso di FI, il cui consumato leader non aspira più a vincere, ma si contenta di portare in Parlamento un manipolo di rappresentanti dai quali qualsivoglia governo non possa prescindere. Anche per presidiare la "roba" cui è da sempre sensibile il vecchio leader. Non a caso è stato Berlusconi ad avanzare per primo la proposta della proporzionale. Esemplare e clamorosa invece la contraddizione del PD, figlia della mutazione genetica di esso operata da Renzi. Senza maggioritario, né l'Ulivo di Prodi né il PD di Veltroni avrebbero mai visto la luce. Non a caso entrambi hanno fatto sentire la loro voce. Essendo stati concepiti, Ulivo e PD, per unire e non dividere il campo del centrosinistra e per realizzare una democrazia competitiva e dell'alternanza tra centrodestra e centrosinistra. L'opposto del governissimo che si staglia all'orizzonte. Né sorprende che Grillo e Salvini avallino la soluzione proporzionale. Entrambi scommettono più sulla prospettiva di fare il pieno lucrando sulla propria rendita di posizione piuttosto che su una improbabile (e onerosa, per i 5 stelle: Roma docet) responsabilità di governo.
Non un buon viatico, a fronte di un Paese afflitto da una sofferenza sociale che ci riporta al dopoguerra.
Nota dell'autore:
L'articolo è stato scritto prima dell'affondamento parlamentare del testo Fiano, ma mette in luce la fragilità di un patto che si reggeva su una somma di opportunismi partigiani e sulla sgrammaticatura costituzionale della pretesa di farne derivare lo scioglimento anticipato delle Camere.
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