
La “normalità” della violenza sulle donne
Tratto da: Adista Documenti n° 30 del 30/08/2019
Sono impegnato da anni con altri uomini contro la violenza maschile e gli stereotipi di genere. Il nostro impegno nasce dalla consapevolezza che gli stupri, i ricatti sessuali, gli abusi, le violenze in famiglia, le molestie sul lavoro, non riguardino “gli altri” ma ci chiamino in causa. La violenza non è solo l’atto eclatante, ma è composta di una fitta trama di gesti quotidiani, diventati quasi “naturali” per quanto sono parte di un ordine consolidato: il timore che genera l’alzare la voce, la svalutazione della propria compagna, la negazione della possibilità di scegliere e decidere per sé, la “battuta”, il complimento ammiccante o paternalista, lo sguardo invadente e predatorio. Piccoli gesti che delimitano gli spazi di libertà, riconfermano relazioni di potere, negano il riconoscimento della libertà e dell’autonoma cittadinanza e soggettività femminile.
Abbiamo scelto di riconoscere la nostra complicità con un sistema che produce violenza e oppressione. Il sistema patriarcale è così pervasivo da plasmare i nostri desideri, le nostre paure, le nostre rappresentazioni. Anche se non abbiamo compiuto violenze siamo immersi in quel sistema di ruoli e di rappresentazioni di cui la violenza si nutre. Le fantasie di possesso associate all’amore, la sessualità fondata sulla polarità tra attivo e passivo, i modelli familiari basati sulla complementarietà di ruoli maschili e femminili e le aspettati ve che abbiamo verso le donne: accudenti e disponibili, ma anche opportuniste e manipolatrici, che detengono i pericolosi poteri della cura e della seduzione. Poteri che contrastano con la nostra fantasia di autosufficienza e generano rancori per i nostri fallimenti, i nostri limiti…
La violenza degli uomini contro le donne riempie la cronaca dei quotidiani, è oggetto di campagne di sensibilizzazione, spesso di sensazionalismo mediatico. È diventata “emergenza” contro cui invocare strette repressive. La politica che manipola il senso di insicurezza sociale per produrre spinte escludenti e repressive strumentalizza la violenza contro le donne per alimentare campagne xenofobe o politiche securitarie. L’illusione della pena occulta, la necessità del cambiamento sociale e culturale, della costruzione di reti sociali e di prevenzione. Crediamo di condannare con durezza la violenza ma ci limitiamo a delegarne il contrasto alle forze di polizia. Una comunità che si rappresenta “sana” espelle il deviante: lo straniero, il maniaco, l’uomo impazzito, preda del raptus, stravolto dall’uso di droghe e alcol. Qualcuno, che non ha a che fare con me, la mia cultura, le mie modalità relazionali.
Sulla violenza contro le donne si consuma una diffusa ipocrisia e una facile indignazione episodica e fugace. Chi non condannerebbe chi violenta una donna? Chi non liquiderebbe come pazzo l’uomo che uccide la propria compagna che aveva deciso di lasciarlo? Chi potrebbe giustificare l’uomo che rivolta la propria violenza contro i figli per punirne la madre? Contro la violenza sulle donne siamo tutti d’accordo, come siamo disponibili ad acquistare un sacchetto di arance per finanziare la lotta contro il cancro. Ma la violenza non è un “cancro”, un’emergenza estranea alla nostra normalità: per contrastarla dobbiamo mettere in discussione proprio quella normalità. Mentre siamo pronti a esprimere la nostra condanna, tendiamo a negarne le cause, anzi riconfermiamo la cultura che la produce. E così la denuncia dell’autore si accompagna al sospetto verso la vittima che avrebbe peccato di ingenuità, avrebbe provocato, avrebbe esasperato, avrebbe accettato di subire per anni maltrattamenti senza reagire. Le stesse campagne per incoraggiare le donne a denunciare e i più rari messaggi indirizzati agli uomini ripropongono modelli stereotipati che sono alla radice delle dinamiche di violenza: donne deboli bisognose di protezione, uomini che devono difenderle o esercitare la virtù virile dell’autocontrollo, la nostalgia di un ordine sociale che garantisca relazioni armoniche tra i sessi, l’affermazione astratta di istituzioni come la famiglia senza analizzarne le necessarie trasformazioni. Un universo di simboli, valori e rappresentazioni che “i violenti”, le “vittime” e le istituzioni condividono. E nelle parole degli autori, ritroviamo stravolti i riferimenti all’indissolubilità della famiglia, all’egoismo femminile, al ruolo maschile di protezione, negli uomini che maltrattano per anni le compagne il rimprovero verso donne “disordinate” o esasperanti o opportuniste. Molte immagini che ritornano nelle canzoni: donne tentatrici o egoiste, il sesso come scambio diseguale di possesso e disponibilità, l’amore come vincolo oltre le scelte delle persone.
Anche le campagne di contrasto del fenomeno mostrano quanto sia difficile produrre un discorso che non si limiti alla condanna o all’invito alla denuncia. Se le destre razziste e xenofobe usano la protezione delle “nostre” donne dalla minaccia degli stranieri e ripropongono il femminile come “territorio” oggetto di una contesa tra uomini, anche le campagne prodotte da istituzioni e associazioni rischiano di avvalersi di modelli e rappresentazioni stereotipate. Anche gli appelli istituzionali contro la violenza cadono in un simile errore: la priorità è l’invito alle donne a denunciare, fino al rischio di colpevolizzarle per le mancate denunce, gli autori restano invisibili. Una rappresentazione della debolezza femminile che poco dice sulle responsabilità maschili e sulle dinamiche relazionali e i modelli culturali che producono la violenza. Queste campagne propongono spesso il valore della virilità, come riferimento per l’autocontrollo maschile: “i veri uomini non picchiano”. Ma quante violenze sono agite proprio per non infrangere la propria immagine di “vero uomo”? Quanto l’insofferenza verso un femminile incapace di autocontrollo, giustifica l’esercizio della violenza o del potere? E quanto il proprio ruolo di protezione e la dipendenza femminile producono la pretesa di essere ascoltati senza repliche?
In queste dinamiche dipendenza e vulnerabilità si confondono, e proprio la violenza tende ad occultare la realtà: vivo nell’illusione di bastare a me stesso, che il mio desiderio sia il motore delle relazioni e che il femminile sia dipendenza e accudimento. Quando il desiderio mostra la mia vulnerabilità, quando con la separazione percepisco la mia dipendenza e svelo l’illusione della mia autosufficienza, i modelli e i riferimenti tradizionali non mi forniscono strumenti diversi dalla reazione violenta e rancorosa. Posso attribuire la mia sofferenza al tradimento femminile di quel patto di complementarietà, all’opportunismo femminile che ha usato il desiderio e la cura per manipolarmi.
La violenza, insomma, parla di noi, del nostro modo di pensare l’amore, la famiglia e le relazioni e del nostro modello di soggettività. E ci chiede di mettere in discussione convenzioni che diamo per scontate e “valori” che consideriamo un antidoto alla violenza e invece ne sono l’humus. Ma oggi la critica a ruoli e modelli stereotipati di genere viene rappresentata come “una predica moralista e ipocrita”, frutto di un conformismo “politicamente corretto”. E comportamenti, maschilisti e misogini si spacciano per “trasgressivi”.
In questa ricerca anche la religiosità ha un ruolo e una responsabilità: restare fedele alla sua radice, che è una domanda di senso prima che l’adesione a una tradizione, riconoscere quella tradizione come storia complessa e contraddittoria, tutta umana e per questo non meno ricca e significativa ma soggetta a una continua rielaborazione e reinvenzione. Se le religioni sono spesso chiamate in causa per confermare tradizioni culturali fondate su ruoli gerarchici e destini obbligati, è necessario riconoscere la sessualità come esperienza umana oltre la complementarietà e la mera finalità procreativa, ma espressione della singolarità irriducibile della persona. Abbiamo bisogno di ripensare l’esperienza umana oltre il riferimento a modelli e funzioni fisse e complementari, non schiacciare il maschile e il femminile sul paterno e il materno e sulle attitudini di normatività e oblatività. Il valore, appunto, della singolarità incarnata non schiacciata nel ruolo o nella naturalità del destino. Oggi la violenza mostra come i riferimenti simbolici e identitari dominanti non riescano più a dare senso alle nostre vite. Questo vale soprattutto per gli uomini che continuano a inseguire un astratto modello di autosufficienza che rimuove la radice relazionale di ogni vita, una ricerca del potere e del controllo su di sé, sul proprio corpo e sull’altra che produce dominio ma anche alienazione, un’idea di sé fondata sulla realizzazione sociale che entra in crisi con la fine di ruoli familiari certi, di percorsi sociali fondati su un lavoro divenuto precario e intermittente, sulla trasmissione di saperi tra generazioni divenuti rapidamente obsoleti. Il cambiamento produce disorientamento e disagio, incrina immagini di sé rassicuranti e impone di ripensare la propria vita. Per affrontarlo è necessario costruire un modo nuovo per guardare il mondo e se stessi, pena il rischio dell’involuzione regressiva e violenta. La violenza maschile ha assunto nel tempo tante forme; oggi mostra spesso proprio questa incapacità di stare nel cambiamento, l’esito frustrato e senza uscita della ricerca di un ruolo perduto. Un modo per affrontarla e contrastarla è leggere la collocazione degli uomini nel cambiamento e provare a vederlo non come minaccia ma come occasione per ripensare il nostro modo di stare al mondo, riconoscendo la libertà e l’autonomia femminile non come l’origine di questa minaccia ma come chiave per cogliere questa occasione che ci si apre.
Membro dell’associazione Maschile Plurale (www.maschileplurale.it), Stefano Ciccone ha pubblicato Essere Maschi. Tra potere e libertà (Rosenberg&Sellier).
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