Le "malattie della Curia" secondo Leone XIV
CITTA’ DEL VATICANO-ADISTA. «Amarezza» è una parola discreta, quasi pudica, ma nel recente discorso natalizio alla Curia Romana di papa Leone XIV (22 dicembre) essa emerge come una confessione lucida e dolorosa, che la rappresenta come il segnale di una ferita spirituale che attraversa il tempo e le istituzioni. Un’amarezza che nasce quando il servizio ecclesiale, invece di generare fraternità, viene logorato da dinamiche di potere, rivalità e chiusure interiori.
Leone XIV lo afferma con chiarezza: «Questa amarezza a volte si fa strada anche tra di noi quando, magari dopo tanti anni spesi al servizio della Curia, notiamo con delusione che alcune dinamiche legate all’esercizio del potere, alla smania del primeggiare, alla cura dei propri interessi, stentano a cambiare». Un duro atto di accusa: l’amarezza non nasce dalla fatica del lavoro, ma dalla frustrazione di vedere tradito il Vangelo proprio nei luoghi che dovrebbero custodirlo con maggiore trasparenza. Il discorso richiama Sant’Agostino che, nella Lettera a Proba, già avvertiva, «con una punta di amarezza», quanto fosse raro trovare amici davvero affidabili, capaci di custodire l’animo e la condotta nella vita quotidiana.
Questa amarezza citata da Leone XIV viene motivata in un quadro piuttosto desolante: «Ci si chiede: è possibile essere amici nella Curia Romana? Avere rapporti di amichevole fraternità? Nella fatica quotidiana, è bello quando troviamo amici di cui poterci fidare, quando cadono maschere e sotterfugi, quando le persone non vengono usate e scavalcate, quando ci si aiuta a vicenda, quando si riconosce a ciascuno il proprio valore e la propria competenza, evitando di generare insoddisfazioni e rancori. C’è una conversione personale che dobbiamo desiderare e perseguire, perché nelle nostre relazioni possa trasparire l’amore di Cristo che ci rende fratelli».
Non può non tornare in mente il parallelo diretto e illuminante del discorso di papa Francesco alla Curia Romana del 22 dicembre 2014, quando il pontefice elencò le celebri 15 “malattie spirituali”, come il sentirsi “immortali” o indispensabili, l’attivismo senza spiritualità, la rigidità mentale e spirituale, il narcisismo ecclesiale, la mondanità spirituale, il terrorismo delle chiacchiere, l’accumulo di potere e benefici. Tutte patologie, così Francesco, che corrodono la comunione e trasformano il servizio in dominio. Ed è proprio questo che genera l’amarezza di cui parla il discorso più recente: la percezione che, nonostante le riforme e i richiami evangelici, alcune logiche continuino a riprodursi.
Se le “malattie” erano la diagnosi, l’amarezza è il sintomo. Di qui la domanda del papa: è possibile una amicizia nei luoghi del potere ecclesiale?
Come già Francesco, anche qui la strada individuata è la conversione: l’amarezza è una soglia che può aprire a un cambiamento autentico, che passa per relazioni senza maschere, riconoscimento reciproco dei doni, rifiuto della logica dello scavalcamento, scelta concreta della fraternità.
* Foto di Lula Oficial, da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza
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