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Ricostruire gli stereotipi, un’opera incompiuta

Ricostruire gli stereotipi, un’opera incompiuta

Tratto da: Adista Documenti n° 25 del 27/06/2020

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«Una donna, una profeta, ruppe un vaso, riempiendo la stanza di profumo raro, sfidando i sogghigni di disprezzo, e unse Cristo, preparando il suo corpo per la sepoltura». Questa è la traduzione del canto con cui si è aperta, nel luglio 2019 la conferenza teologica internazionale dell’Alleanza mondiale battista (BWA) sulla storia e il ruolo delle donne nelle chiese.

Parlare di donne nella vita delle Chiese significa oltrepassare confini. In questo tempo in cui il confine diventa muro, di mattoni, di spine, di acque profonde, riflettere sui confini e ritrovarli nelle Scritture come snodi vitali di cui si serve la promessa di Dio, può aiutare a stare nella complessità e a leggere la Bibbia, come la nostra vita, alla luce di questa stessa promessa.

La verità delle donne, la verità di Dio alle donne e sulle donne, si gioca proprio sui confini, nello spazio “tra”. Si tratta di una sapienza, che “sta ai crocicchi”, negli incroci tra le strade, come canta il libro biblico dei Proverbi, nel continuo riconoscimento della discontinuità che attraversa la storia delle donne a partire dalla narrazione biblica, fino ai giorni nostri.

Come pastora battista ho avuto la possibilità di partecipare a questa conferenza e mi sono resa conto quanto il tema sia tuttora controverso. Ci sono Paesi in cui alle donne non è permesso predicare, in nome di una teoria complementarista che vede le donne “uguali nella diversità”, umane, ma con ruoli subordinati a quelli maschili. È stato doloroso vedere la propria vocazione e la propria storia di donne e di pastore considerata “un’opinione”. Il Presidente dell’Alleanza mondiale Battista, il pastore Ngwedla Paul Mzisa, del Sud Africa, ha ricordato come la questione del riconoscimento delle donne pastore sia in relazione con la predicazione dell’Evangelo. «Non esiste un dio per gli uomini e un dio per le donne: escludere le donne dal ministero, discriminarle in base al genere è compiere un atto di apartheid e segregazione che va rovesciato», ha affermato Mzisa.

La vita e i ruoli delle donne nelle chiese vanno dunque insieme all’assunzione o meno di quel “sistema binario” che regola il pensiero a partire dall’interpretazione delle Scritture. Se proviamo a seguire l’itinerario di Gesù nei Vangeli, lo riconosciamo come un attraversatore di confini, sociali, religiosi, di genere. L’apostolo Paolo lo scrive con le parole che rivolge ai Galati e che troviamo al capitolo 3,28: «Non c’è qui né Giudeo né Greco, né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina, perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù». Con queste parole Paolo esplicita i confini più evidenti che caratterizzavano il suo mondo e quello delle prime comunità: i confini etnico-religiosi, i confini dovuti allo status di liberi o schiavi, i confini dovuti al genere di appartenenza. Si tratta appunto di un sistema binario, costituito da opposti, in cui un termine è positivo, per tradizione, cultura, potere, mentre l’altro termine è al primo subordinato, che perde ogni senso nel momento in cui l’umanità nel suo insieme è accolta da Dio in Cristo. Questo sistema binario persiste ancora oggi: le donne, assieme alle persone ritenute “straniere”, alle persone disabili, alle bambine e ai bambini, al variegato mondo delle persone GBLTA, sono costantemente chiamate, assieme agli uomini che vogliono percorrere con loro questo itinerario di “attraversamento dei confini”, a rimettere in discussione la normatività e “l’inevitablità” di questo sistema, che genera disuguaglianza e oppressione.

Dal punto di vista storico, pur essendoci già dal Medio Evo predicatrici itineranti, nel movimento Valdese, la Riforma protestante non aveva in sé uno spirito di cambiamento dello status delle relazioni tra uomo e donna. Eppure è a partire dalle Chiese che si ispirano alla Riforma protestante che emerge il ministero pastorale per le donne, a dire che forse la maschilità o la femminilità dei simboli non produce automaticamente promozione o subalternità delle donne. La prima donna a essere riconosciuta come ministro fu la quacchera Lucrezia Mott, nel 1821; nel 1853 Antoinette Brown fu ordinata pastore delle chiese congregazionaliste. Tuttavia fu solo a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso che in Europa e negli Stati Uniti le maggiori Chiese protestanti, luterana, metodista, presbiteriana, battista, cominciarono a ordinare donne al pastorato.

In Italia la prima pastora fu consacrata dal Sinodo della Chiesa valdese nel 1967. Poco più di dieci anni dopo fu consacrata anche la prima pastora battista. La Chiesa anglicana ha aperto al ministero delle donne nel 1994.

È in uscita in questi giorni Donne di Parola: pastore, diacone e predicatrici nel protestantesimo italiano, un libro a più voci che desidera mostrare un panorama delle diverse esperienze delle donne all’interno del ministero nelle Chiese protestanti. Lo vuole fare anche con l’apporto di sorelle, teologhe, di altre Chiese e in dialogo con la società, con le istanze che vengono dalle donne stesse, con i femminismi. È la teologa cattolica Serena Noceti che scrive: «Con la consacrazione delle pastore si è attivato quindi un lento ma irreversibile processo di riformulazione dell’istituzione Chiesa e della sua forma, e una rideterminazione delle coordinate di identità religiosa di uomini e donne alla sequela di Gesù. Una trasformazione strutturale che di fatto è annuncio leggibile e comprensibile a molti di una Chiesa che serve il Regno di Dio, comunione inclusiva di tutti e tutte». Sono dunque passati più di 50 anni dalle prime donne pastore in Italia, e il discernimento non si ferma, il cammino non si esaurisce.

Vivere oggi il pastorato significa vivere la complessità del presente e condividere con tante donne la fatica e il lavoro di genitori, ad esempio, in un tempo e in un Paese che fa coincidere il ruolo della donna con quello di madre, se non in teoria, sicuramente nella pratica, nelle leggi, nelle opportunità lavorative; significa anche inventare, insieme alle Chiese, un itinerario comune, di ricerca della volontà di Dio, di lettura dei segni dei tempi, e farlo riconoscendo la parzialità della tradizione al maschile che ci ha precedute, la libertà data dall’Evangelo, l’esigenza di giustizia alla realtà in cui siamo ci interpella.

Non è tutto rose e fiori. La questione della violenza di genere è parte della storia anche delle Chiese protestanti. Nel 1988 il Consiglio Ecumenico delle Chiese (WCC) indisse il Decennio in solidarietà con le donne, che in Italia fu promosso dalla Federazione delle Chiese Evangeliche e dal Forum ecumenico delle donne, associazione europea che introdusse il decennio in campo cattolico (cfr. Elizabeth Green, Il filo tradito, Claudiana, Torino). Il Decennio partiva dalla consapevolezza che questa solidarietà non c’era. Le Chiese, da luoghi privilegiati per sperimentare l’annuncio della resurrezione e il messaggio di salvezza in Cristo, si confermarono come il luogo a cui le donne, in caso di torti o abusi non potevano rivolgersi per ricevere aiuto, per timore di non essere prese sul serio.

La Federazione delle donne evangeliche (FDEI), che raccoglie donne provenienti dalle chiese battiste, metodiste, valdesi, avventiste del settimo giorno, luterane, dell’esercito della salvezza, e il Movimento femminile evangelico battista (MFEB) mantengono ad oggi vive le istanze del Decennio, formandosi e invitando le comunità di cui fanno parte a formarsi e informarsi, a partire da una lettura della Bibbia che vada “oltre i confini” delle interpretazioni che hanno messo a tacere le donne. Esse continuano anche a vigilare sulle dinamiche di potere e terribilmente anche di violenza interne alle Chiese stesse.

Nuove generazioni di pastore e pastori si stanno succedendo. Nello scorso autunno durante un seminario di formazione per giovani ministre e ministri, si è affrontato il tema della violenza maschile. Ne è uscita una lettera aperta in cui si chiede, tra l’altro, un investimento da parte delle Chiese nella formazione, non solo dei ministri e delle ministre di culto, sul tema della violenza maschile. Metto qui uno stralcio della lettera: «Desideriamo condividere il nostro impegno personale per la costruzione di relazioni il più possibili consapevoli del potere della violenza maschile su ciascuna e ciascuno di noi. Nella cura pastorale, nella formazione all’interno delle comunità locali, nella predicazione. Desideriamo così riconoscere che la potenza di Dio nelle nostre vite è la croce e che essa dà forma alle nostre relazioni. In quanto uomini, ci interessa la maschilità di Gesù come decostruzione degli stereotipi del “vero uomo”; in quanto donne riconosciamo che l’Evangelo di Gesù Cristo ci rende “autrici”, soggetti della propria storia e delle relazioni che intessiamo. Vogliamo impegnarci anche “in memoria di lei” (Marco 14,3-9), in memoria di una donna che è stata riconosciuta autrice da Gesù, che ha fermato il disprezzo degli uomini nei suoi confronti, smascherando la loro ipocrisia. Il vento profetico dello Spirito soffia ancora».   

Pastora battista a Milano, Cristina Arcidiacono si interessa di teologia biblica. È stata segretaria della Federazione giovanile evangelica in Italia dal 2003 al 2006 ed è attualmente segretaria del Dipartimento di teologia dell’Ucebi, l'Unione Cristiana Evangelica Battista d'Italia.

* Antoinette Brown in un ritratto di autore ignoto (1900 ca.) - foto [ritagliata] tratta da wikimedia commons, fonte www.britannica.com ; Library of Congress, Washington, D.C; immagine originale e licenza

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