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PRIMO PIANO. Urge un sussulto di umanità

PRIMO PIANO. Urge un sussulto di umanità

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 30 del 01/08/2020

Il Covid-19 e il conseguente lockdown hanno avuto un effetto devastante anche su chi non è stato affatto contagiato. Per esempio sulla massa dei rifugiati, migranti e profughi. Il nostro mondo “civile” da sempre li ha visti come un intralcio da fronteggiare come un problema di ordine pubblico. I nostri politici forse si vergognavano un poco a lasciarli marcire, ma un giorno ebbero un motivo per sentirsi innocenti. Il coronavirus aveva dato loro il diritto di rimuovere il problema, di poter pensare finalmente ai “nostri” e “per dovere istituzionale”. L’innocenza è venuta anche a consolare i cuori di chi politico non è, cioè di noi tutti che abbiamo lasciato fare. La martellante informazione su un’Italia invasa dal Covid- 19, le notizie di imprudenze, calcoli cinici su chi doveva essere sacrificato alla nostra impreparazione sanitaria e su chi doveva essere salvato, gli sciacallaggi di commercianti criminali (si chiedono anche 100 euro per una confezione di guanti monouso…), il teatrino di politici pronti a sfruttare la situazione per la loro campagna elettorale, i camion militari pieni di creature abbattute dal virus; tutto questo, e ben altro, ci ha fatto dimenticare il dramma dei migranti in Libia, a Lesbo, sulle montagne croate, nelle carceri turche, e perfino quelle migliaia di giovani “clandestini”, consegnati alle strade delle nostre città, dopo la chiusura, vi legis, dei centri di identificazione ed espulsione.

Personalmente fui svegliato un giorno dal sonno da qualcosa di così orribile da farmi stare fisicamente male, fino a mettere a soqquadro le mie paure e le mie certezze di sempre. Avevo davanti a me filmati di torture, di sevizie, di crudeltà inaudite sugli sventurati che, attraversato il deserto di sabbia africana, cadevano in un deserto ben più atroce: quello della libica cattiveria umana foraggiata dagli stanziamenti italiani. Quelle giovani donne stese a terra, frustate selvaggiamente da aguzzini sghignazzanti, colpo dopo colpo, forse dopo essere state prima violentate da animali in divisa. Quei giovani letteralmente “scuoiati” come conigli… Appresi perfino che quelle scene erano opera non di Amnesty International, ma degli stessi agenti dei lager libici che ricattavano le famiglie dei loro prigionieri.

Vomitevole. Così l’Italia difende i suoi confini? Inizia in Libia “l’incivile” Italia nostra? Ai disgraziati – vittime delle rapine degli Occidentali, rei di volere vivere – invece di un porto sicuro e di un pezzo di terra, si offre il carcere dell’orrore? Vomitevole. Ma a che serve dirlo? A chi interessa la compassione? Piglieremo mai coscienza del degrado umano in cui siamo piombati? Temo proprio di no, perché certi stili di vita, certi atteggiamenti sono ormai così comuni, così radicati, da sembrare ovvi, normali, inevitabili.

Per decenni, con giovani studenti e in ogni occasione di servizio presbiterale, ho denunciato il rischio di uno “strisciante razzismo” nella nostra Italia e nell’intera Europa, quella delle pretese “radici cristiane”. Dobbiamo ammetterlo, sono stati bravi i nostri governanti (già a partire dalle legge Turco-Napolitano) a trasformare “strisciante” in evidente, doveroso, sfacciato, saggio, inevitabile. Si era alla legalizzazione dell’odio. La xenofobia divenne così razzismo ideologico, per sfociare nella conclamata superiorità dell’uomo bianco che ha diritto e dovere di tenere a bada tutti coloro che bianchi non sono.

In questo clima a chi “raccontare” che l’ideologia era solo la copertura di un ritorno al diritto della prepotenza, la giustificazione che la forza e l’avidità sono il fondamento della giustizia? A chi raccontare tutto questo se perfino preti, vescovi, cardinali, pii cristiani, religiosissimi membri di movimenti ecclesiali, scoprivano che aveva bisogno di un aggiornamento il Vangelo di Gesù, buttando al macero certe pagine in cui quel “illustre fallito di Galilea” spingeva alla fratellanza, alla tenerezza, addirittura ad una unità tra umani ben diversa dalla globalizzazione dei mercati, delle merci e del denaro di cui “l’uomo bianco” (descritto nel bel libro di Ezio Mauro) si gloriava?

Ricordo come una icona di vero postcristianesimo quella protesta di madri di famiglia in un paesino del Nord, contro la Prefettura che aveva disposto di accogliere temporaneamente, in un albergo, qualche dozzina di donne e bambini rifugiati. Motivo: “Quelli rovinano il turismo!”. Quella brava gente, certo tenerissima con cani, gatti e canarini, non poteva fare posto nel suo territorio a quegli umani, dato che un capo di governo li aveva descritti come pericolosissimo “tsunami sociale”.

Poi è venuto il coronavirus. Ha creato una nuova globalizzazione, quella della comune fragilità dell’uomo, bianco o nero che fosse, ricco o povero. Poteva essere un avvertimento quella sciagura: non ci si salva da soli, non si guarisce da soli, nessuno è sicuro se non lo siamo tutti... Per una manciata di giorni, si giunse a pensare che bisognava rivedere tutto nei nostri stili di vita. Se l‘uomo era diventato vittima di terra inquinata, di acqua avvelenata, se il mondo bruciava fino a stravolgere un equilibrio climatico frutto di millenni, se eravamo tutti così malati da avere creato sette miliardi di potenziali “comodi alberghi” del virus assassino, ragionevolezza voleva che si rimettesse al centro la vita, l’essere umano e sì, soprattutto, la solidarietà tra umani. E invece no. Si radicalizza la campagna di intimidazione sociale, si semina paura, si fa ritornare in vita la caccia all’untore, e improvvisati “uomini della provvidenza” si atteggiano ancora una volta a paladini della sicurezza del popolo ridotto a ottusa “tribù” di pitecantropi.

In questo clima il caso Amantea riaccende la giustificazione della caccia al migrante, al rifugiato, al reo di clandestinità. È vecchio il pregiudizio che l’immigrato sia portatore di “malattie” e dunque da tenere fuori del territorio. Oggi, che ci siano tra i nuovi sbarcati alcuni “positivi al tampone” è un dato. E allora? Noi dobbiamo scegliere tra un sussulto di umanità e una risalita sugli alberi della giungla da cui veniamo. Tra ributtare tutti in mare, riconsegnarli alla Libia (ne abbiamo restituiti solo a giugno ben 1.500). oppure accoglierli e curarli. “A noi non interessa che fate di questa gente, ci interessa salvare i nostri figli” – mi diceva un brav’uomo incontrato per caso, vittima anche lui dell’istigazione alla paura. Gli avevo appena accennato che la lotta contro il Covid-19 è globale: o ci salviamo tutti o tutti restiamo in pericolo.

Dicono che i cinesi abbiano già il vaccino contro il coronavirus. E per essere al sicuro lo hanno fornito ai militari. Facciano pure. Trump dice di volerlo dare solo agli americani, non appena lo trova. Anche lui, faccia secondo la sua discutibile “saggezza”. Sulla destinazione di quello che inventeranno gli europei, non mi sento di scommettere niente. Ma una cosa è certa: solo pochissimi illuminati (e tra questi papa Francesco) avvertono l’umanità che dobbiamo metterci alla ricerca di un ben più importante vaccino: quello contro la pretesa che esistono “uomini e sotto-uomini”, “Menschen und Untermenschen” di hitleriana memoria. Quello contro la convinzione della supremazia dell’“uomo bianco” chiamato dal destino ad avere schiavi, vecchi o nuovi che siano. O quello della centralità del capitale sul lavoro che giunge alla negazione del “diritto ad avere diritti” di ogni singolo nato da donna. Se non stiamo fissi a vecchie categorie ideologiche, oggi dobbiamo amaramente ammettere che l’antica lotta di classe non riguarda più nobili e borghesi, non operai e padroni, non contadini e cittadini, ma umani visibili e umani invisibili, gente destinata a vivere e gente dichiarata “scarto”. Se non hai il diritto di cittadinanza sei nessuno, se lo hai, puoi spadroneggiare sui fantasmi di povericristi che si aggirano tra le tue pie e oneste case.

Servirà il Covid-19 (tutt’altro che scomparso!) a convincerci che la corruzione delle menti e dei cuori è all’origine di ciò che manda alle fosse comuni i nostri corpi senza vita? Che “la vita vale più del vestito”, più dei conti in banca, più di ogni potenza bellica, e perfino più di ogni presunta supremazia politica? 

Felice Scalia è gesuita a Messina

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