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L’unità necessaria tra cattolicesimo democratico e cattolicesimo sociale

L’unità necessaria tra cattolicesimo democratico e cattolicesimo sociale

L'intervento che segue è di Sandro Antoniazzi, già segretario generale della CISL lombarda. È stato pubblicato sul sito della rete il 30 agosto scorso, all'interno del dibattito avviato nei mesi scorsi dalla rete di cattolici democratici C3dem  (www.c3dem.it) sul futuro del cattolicesimo politico e democratico nel nostro Paese.

L'articolo originale èp consultabile a questo link.

 

 

Nella storia del nostro paese, il cattolicesimo democratico e il cattolicesimo sociale hanno rappresentato due tradizioni chiaramente distinte che, pur ritrovandosi in certi casi a condividere battaglie comuni, hanno sempre mantenuto la loro diversità.

Lo scopo di questo scritto – prendendo atto dell’attuale debolezza pubblica di entrambe e nello stesso tempo del cambiamento radicale in atto nella società – è quello di proporre l’unificazione di queste due componenti, per una necessità storico-politica e come condizione per un loro rilancio. Non solo; questa scelta potrebbe consentire di fare di quest’area democratico sociale un importante polo di innovazione, di elaborazione e di riferimento per la trasformazione della politica italiana.

Per introdurre i problemi è opportuno partire da qualche sommario cenno storico.

 

Il cattolicesimo democratico, la sua impasse e la crisi della democrazia

Il cattolicesimo democratico è nato, come dice la parola stessa, per cercare, particolarmente alle origini, una forma di convivenza possibile tra la democrazia e la Chiesa, che a lungo ha visto la novità politica della modernità come un vero attacco frontale alla religione e al cristianesimo (basti ricordare l’ultimo degli ottanta errori elencati dal Sillabo di Pio IX: “Il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e venire a composizione col progresso, col liberalismo e colla moderna civiltà”). Compito non facile dunque quello dei cattolici democratici, spesso rimproverati e sconfessati nei loro generosi tentativi di mediazione; ancor più difficili in Italia, essendo in vigore il “non expedit”, a causa della questione romana.

La prima seria esperienza di autonomia politica dei cattolici fu quella del partito popolare di don Sturzo, durata troppo poco per riuscire a formare nel mondo cattolico una durevole coscienza democratica.

Considerando il “non expedit”, le due guerre e il ventennio fascista, gli anni per la sedimentazione di una possibile esperienza di democrazia a livello di massa sono stati decisamente pochi; ciò che non è rimasto senza conseguenze nella storia politica italiana e che conserva tuttora la sua influenza.

Nel secondo dopoguerra, l’avvento della Democrazia Cristiana ha rappresentato un’importante esperienza di democrazia, soprattutto se colta a livello generale, nell’avere costituito il fulcro della difesa e dell’affermazione della democrazia stessa in contrapposizione al comunismo. Ma per svolgere questo ruolo, l’apporto diretto e a volte sovrastante della Chiesa (i comitati civici delle elazioni del 1948, i pronunciamenti di voto da parte dei vescovi fino agli anni ’60) ha certamente limitato la possibilità di un’esperienza politica autonoma.

La DC ha finito per affidarsi, più che alle proprie capacità di elaborazione e proposta politica, alla certezza di poter contare sul consenso del popolo cattolico garantito dalla costante opera di pressione della Chiesa.  Quando questo appoggio è venuto meno, per tante ragioni, la DC si è trovata ad essere abituata ad amministrare, ma senza un respiro e una prospettiva capace di misurarsi sui problemi del paese. Questa situazione ha tra l’altro causato il mancato chiarimento del rapporto tra il sociale e il politico: il fattore di congiunzione non veniva individuato nella chiara esplicitazione di questo rapporto, ma era dato per scontato nella comune appartenenza alla grande famiglia cattolica.

Certamente, comunque, i valori democratici di tante battaglie delle personalità più consapevoli sono stati di grande rilievo: basti pensare a quanto la Costituzione deve a uomini come Dossetti, La Pira, Moro; la battaglia culturale per l’apertura a sinistra; il dialogo costante con la parte laica per individuare mediazioni sui temi scottanti del divorzio, dell’aborto, delle unioni civili, e così via.

Da ultimo i cattolici democratici si sono impegnati nell’esperienza di dar vita, assieme agli eredi della sinistra di un tempo, ad un unico partito, il PD, la cui esistenza, pur ormai affermata, è perennemente al centro di discussioni e di ripensamenti. Per semplificare, si potrebbe dire che l’incontro architettato tra le due culture sembra aver posto un freno ad entrambe, senza riuscire nel contempo a dar vita a una cultura nuova e diversa. Forse l’amalgama della convivenza comune potrà nel tempo costituire l’humus per una nuova elaborazione, che però al momento non trova riscontri.

Per concludere, il cattolicesimo democratico è fermo di fronte a questo impatto che non presenta soluzioni, almeno nel breve periodo, ma ancor di più è fermo per un problema ben maggiore. Anche superato questo ostacolo preliminare, si troverebbe ad affrontare quella che viene chiamata la “crisi della democrazia” nella società contemporanea.

Senza entrare nel merito di una questione tanto complessa, di sicuro appare evidente che la supremazia assunta dal fattore economico, tanto più al livello del capitalismo liberistico mondiale, rende estremamente debole e a volte persino marginale il potere degli Stati democratici (uno dei motivi ricorrenti della contestazione populista). Già Scoppola, parlando della fine del progetto di cristianità, sosteneva che la causa andava ricercata nel consenso di massa che era intervenuto a favore di uno sviluppo incessante di benessere. Oggi la situazione si è ulteriormente complicata, ma il problema di fondo permane: la democrazia è in grado di affrontare questa realtà? Se la risposta è positiva, non può trattarsi solo di una democrazia procedurale, ma di una democrazia ben più robusta e incisiva.

 

Il cattolicesimo sociale, la sua maggior fortuna e il suo limite

Se ora ci rivolgiamo al cattolicesimo sociale, è indubbio che sul piano della realtà storica abbia avuto maggiore fortuna del cattolicesimo democratico; infatti non ha trovato gli impedimenti del “non expedit”, anzi ne è stato favorito in quanto il veto all’impegno politico ha sostanzialmente dirottato le forze cattoliche verso l’impegno sociale.

Si è trattato di un impegno certamente diffuso, ma caratterizzato da molti limiti. Più che la dimensione specifica dei problemi, dominava la preoccupazione religiosa di non perdere i propri fedeli di fronte al crescere impetuoso del movimento socialista (non per niente, anche per via del tradizionale ossequio all’autorità religiosa, molte attività venivano promosse e dirette da sacerdoti).

Inoltre, mentre si andavano affermando le posizioni classiste, la dottrina cattolica rimaneva saldamente ancorata agli ideali dell’armonia tra le classi (pertanto si dava preferenza, sul piano ideale, a improbabili società miste, di lavoratori e padroni assieme, piuttosto che al sindacato dei soli lavoratori).

Infine, non va trascurato il paternalismo imperante che limitava molto l’operatività delle varie associazioni, composte da fedeli che aderivano più per motivi religiosi che per ideali sociali ed erano portati più all’obbedienza che all’iniziativa.

Quando Leone XIII pubblicò l’enciclica “Rerum Novarum” nel 1891, il movimento cattolico sociale ne uscì rafforzato e legittimato, ma in larga misura assunse l’enciclica non come un documento di principi, ma come un programma compiuto a cui attenersi. In sostanza non avvertiva l’esigenza di una conoscenza più approfondita e specifica: i grandi principi dell’enciclica erano sufficienti per motivare e determinare l’azione.  Del resto, questa tendenza trovava una conferma nella definizione della democrazia cristiana, espressa in una successiva enciclica (Graves de communi, 1901) dallo stesso Leone XIII, come di “un’azione benefica verso il popolo”. Riscontriamo qui un carattere peculiare di gran parte del cattolicesimo sociale italiano: portato prevalentemente alle opere, alle realizzazioni sociali pratiche (anni dopo Dossetti avrebbe lamentato che il limite della Chiesa italiana consisteva nel fatto che per il 95% era portata al “fare”). Lo storico Francesco Traniello, in una relazione a un convegno lombardo delle Acli, affermava che al movimento sociale cattolico era mancata un’adeguata copertura culturale che lo liberasse da tante ipoteche: corporativismo, confessionalismo, intangibilità della proprietà, rifiuto della moderna democrazia politica.

Un tentativo di superamento di questa situazione venne, per breve tempo, dalla concezione di Sturzo che considerava il sindacato, e le altre attività sociali, come strettamente connessi al partito; separati e autonomi, ma avendo come riferimento il partito, considerato l’organo “sintetico”, dotato di un’azione generale rispetto a quella particolare del sindacato; posizione che risolveva il problema del legame del sociale col politico, ma in una forma troppo rigida e oggi superata, non dissimile d’altronde da quella in atto nei partiti socialisti.

Un vero e sorprendente cambiamento si è avuto in questo dopoguerra: in modo del tutto inaspettato, dato il contesto dell’epoca, il sindacato scelse di non qualificarsi in senso confessionale, ma di costituirsi come sindacato democratico. Si trattò di un fatto di grande rilievo per quanto riguarda l’autonomia dei credenti, anche se la Chiesa lo interpretò più come una scelta dovuta a cause di forza maggiore che non un segno di novità anche ecclesiale (ciò che avrebbe dovuto progressivamente fare anche la DC, se ne fosse stata capace). Anche la successiva decisione a favore dell’incompatibilità tra cariche sindacali e cariche politiche, in vista di un’auspicata unità sindacale, si muoveva nella stessa direzione: il sindacato allora, a motivo della propria forza, poteva ben definirsi “soggetto politico”, e tanto più lo sarebbe stato con l’unità (ciò che preoccupò non poco i maggiori partiti). Però, una volta superata questa fase eccezionale di notevole potere del sindacato, nella situazione attuale di grande debolezza del lavoro e di fragili rapporti unitari, le scelte di allora appaiono oggi come un distacco dalla politica e una rinuncia alla rappresentanza politica del lavoro.

Se poi osserviamo l’area del volontariato, dell’associazionismo, del terzo settore, si può dire che o per la loro originaria natura di indipendenza o per condizioni di fatto (lavorando spesso in base a bandi e appalti pubblici) rifuggano dall’impegno politico, continuando così la consueta tradizione cattolica della preferenza per l’impegno sociale rispetto a quello politico.

La conclusione che si può trarre da queste considerazioni è che il movimento sociale cattolico ha certamente “fatto” molto, ma rimane del tutto irrisolta e si può dire neppure affrontata la questione di come sia possibile passare dall’impegno sociale all’impegno politico e di come dare valore politico a questo diffuso impegno sociale.

A questo si aggiungono oggi le difficoltà dovute alle imponenti trasformazioni in corso, per affrontare le quali non è più sufficiente l’esperienza e la pratica (che hanno sempre costituito la forza del sindacato e dei suoi militanti), ma occorrono conoscenze adeguate, di cui è necessario dotarsi.

In sostanza da questo rapido esame emerge che il cattolicesimo democratico e il cattolicesimo sociale si trovano di fronte agli stessi problemi: in concreto entrambi segnano il passo perché nella presente nuova situazione non sono riusciti ad individuare una prospettiva di risposta; per cui il sindacato si limita in larga misura ad una posizione difensiva ed il cattolicesimo democratico non va oltre occasionali testimonianze.

 

Il salto di qualità richiesto a entrambi

Per affrontare questa situazione occorre un salto di qualità da parte di entrambi: il sindacato deve operare scelte coraggiose, innovative e trasformatrici, che vadano al di là della ripetizione del modello di ieri, ormai spuntato; il cattolicesimo democratico deve superare un’idea di democrazia formale, diventata ormai solo un luogo comune (siamo tutti democratici, anche Salvini è democratico, anzi la Lega è nei sondaggi il maggiore partito democratico d’Italia), per assumere e sviluppare un concetto di democrazia sostanziale, in quanto strumento vitale e adeguato per affrontare i grandi temi attuali.

In altre parole, le due tradizioni oggi si incontrano di fatto nell’idea di una democrazia integrale e sostanziale, con cui soddisfare l’esigenza irrinunciabile del salto di qualità necessario. (Nello stesso senso si pronunciava alcuni anni or sono, nel contesto francese, lo studioso Pierre Rosanvallon: “E’ giunto il momento di lottare per una democrazia integrale, risultante dalla compenetrazione degli ideali a lungo separati del socialismo e della democrazia”). Democrazia sostanziale significa che i gravi problemi aperti che abbiamo davanti sono nel contempo problemi sociali (in quanto interessano le grandi masse dei cittadini e dei lavoratori) e problemi politici-democratici (perché richiedono cambiamenti profondi della legislazione nazionale e internazionale e prima ancora degli orientamenti politici). Non c’è oggi nessuna battaglia significativa che possa essere solo sociale o solo democratica, perché i cambiamenti intervenuti e in atto riguardano la realtà sociale (la società), ma essendo complessi esigono apporti culturali e politici per rendere possibile la trasformazione.

Inoltre, considerando che la maggior parte dei problemi riveste oggi una dimensione mondiale, questa esigenza è ancor più rafforzata dalla necessità di promuovere regole e accordi internazionali che si muovano in una direzione democratico sociale coerente.

Se ora esaminiamo alcuni dei grandi problemi attuali, queste affermazioni trovano una conferma tanto immediata quanto evidente.

Si pensi al tema del lavoro, la cui problematicità attuale è sotto gli occhi di tutti: delocalizzazione di intere fabbriche e produzioni, lavoro sempre più atomizzato, abbondanza di terziario senza regole, mancanza di lavoro e lavoro poco pagato; e, nel contempo, innovazioni tecnologiche, smart-working, intelligenza artificiale e così via. Gli strumenti di difesa di ieri sono sempre più insufficienti e vanno rinnovati e cambiati. Per stare alla pari della concorrenza internazionale occorrono aziende moderne con lavoratori preparati, ciò che richiede un grande investimento nella conoscenza dei lavoratori. Troppo lavoro, svolto da italiani e stranieri, è attualmente mal pagato; è necessario pertanto stabilire, d’intesa col sindacato e in collegamento coi contratti, una forma di salario minimo che impedisca quello che costituisce un vero e proprio sfruttamento. Nel mondo del lavoro oggi sono presenti tante persone con una buona base culturale e che esprimono un’esigenza di autonomia personale; questo contrasta decisamente con la realtà delle aziende dove sono tuttora in vigore, giuridicamente e spesso di fatto, i vecchi sistemi tradizionali. La necessità di sperimentare forme partecipative e di dar vita a nuovi modelli di impresa è ormai all’ordine del giorno.

Conoscenza, partecipazione, salario minimo sono alcuni degli obiettivi di una profonda trasformazione del lavoro: si tratta di battaglie che non possono essere solo sindacali, ma che richiedono un parallelo impegno politico e un largo consenso di opinione pubblica perché mirano a una trasformazione della società italiana.

Un altro problema costantemente all’ordine del giorno, tanto in Europa quanto nel mondo, è quello dell’immigrazione. Tema sociale per quanto riguarda l’accoglienza, il lavoro, la casa, i servizi sociali e sanitari, ma tema eminentemente politico per quanto attiene alla regolarizzazione, ai rapporti cogli altri paesi, all’inserimento civile e politico, ai problemi multietnici e multireligiosi. Come non vedere che non si può agire su un solo piano? In questo caso i piani sono molteplici, sociali, politici, culturali, religiosi e sono tutti piani su cui sarebbe importane sviluppare un impegno almeno parallelo e, meglio ancora, coordinato.

Un ulteriore problema, al centro ormai della coscienza internazionale, è quello ambientale che richiede interventi tanto negli ambiti produttivi (il sindacato internazionale parla di un piano di transizione da concordare) quanto a livello dei comportamenti delle persone. La soluzione migliore consisterebbe nel procedere progressivamente affinchè accanto a regole sempre più stringenti, cresca anche la coscienza collettiva: cambiamenti delle realtà produttive e cambiamenti delle regole dovrebbero marciare di pari passo.

Gli esempi potrebbero continuare – tanto più se si entrasse nella sfera economica, sociale o in quella mondiale – ma quelli citati sono sufficienti per fornire l’idea che oggi la maggior parte dei problemi si presentano come multidimensionali: da qui la difficoltà di affrontarli e da qui la necessità di unire forze sinora separate per poter dotarsi delle capacità necessarie per questo compito.

 

Dar vita a un’unica forza, ma non un partito

Da questo, ritengo, scaturisca l’esigenza e l’urgenza che il cattolicesimo democratico e il cattolicesimo sociale si uniscano per dar vita ad un’unica forza, che possiamo chiamare democratico sociale, in grado di affrontare i gravi problemi del nostro tempo, aprendo una prospettiva innanzitutto di comprensione e poi di elaborazione e di impegno. Questa forza, raggruppamento, unione, sodalizio dovrebbe avere un carattere politico, sociale, culturale; è una forza che non richiede iscrizioni ma solo adesioni morali; è costituita da tutti coloro che credono in una prospettiva e la sostengono col proprio impegno (direi persone, non associazioni per evitare gli usuali logoranti problemi di mediazione).

Questa forza deve diventare capace di elaborare, di proporre, di innovare, di essere una forza di trascinamento al nuovo, alle trasformazioni e nel contempo deve essere capace di promuovere un grande movimento di elevazione culturale a livello di massa, condizione prima di uno sviluppo di una democrazia vera.

A me sembra questo il grande compito storico che il cattolicesimo democratico sociale, anche sulla scia dei discorsi di Papa Francesco, debba assumere. Non un partito (non esistono oggi né le condizioni, né gli orizzonti per dar vita a un partito cattolico), ma una forza significativa che faccia sentire il suo peso militante nell’area di centro sinistra, nei diversi modi che le singole persone o i gruppi riterranno opportuni.

Per dar vita a questo occorre promuovere un grande patto nazionale, a partire da un’assise che esprima un manifesto di avvio e le regole essenziali.

 

Un’aggiunta indispensabile: il ruolo della Chiesa

Questo discorso non può prescindere da una riflessione relativa alla Chiesa italiana. Non si può parlare di un cattolicesimo democratico sociale senza riferirsi alla realtà della Chiesa italiana che su questi problemi si trova in generale in una situazione di impasse. Non può crescere un movimento cattolico democratico sociale se contemporaneamente non c’è sintonia e ripresa di interesse anche nella Chiesa.

Senza entrare nei grandi problemi, ritengo che si dovrebbe chiedere alla Chiesa un impegno almeno su alcuni punti essenziali:

  1. Riaprire la possibilità di ridiscutere di politica negli ambienti cattolici, compresi quelli parrocchiali.

Il divieto pratico in atto – al fine di evitare gli scontri tra tante posizioni diverse e contrastanti – di fatto porta acqua al mulino dell’indifferenza politica. Da una parte la CEI invita alla partecipazione e all’impegno politico, dall’altro si assumono atteggiamenti pratici di segno opposto. Tornare a parlare di politica nelle parrocchie – considerando che la fede nel vangelo dovrebbe costituire un fattore di unità superiore alle scelte partitiche – è un punto di partenza fondamentale per una ripresa dell’impegno politico.

  1. Oggi tutti i problemi sono complessi. Le parrocchie rivestono un ruolo essenziale per la pastorale sacramentale, la partecipazione popolare e il catechismo dei ragazzi. Ma ciò oggi è decisamente insufficiente. Gli adulti cristiani non ricevono alcuna formazione e devono farsela personalmente.

Pertanto, una seconda cosa da chiedere alla Chiesa è la decisione di aprire una formazione cristiana a livello adulto, magari con iniziative interparrocchiali (decanali), dove si affrontino anche i problemi del tempo.

  1. Rivolgendosi agli adulti è necessario che vi sia una qualche forma, sia pure modesta, di apertura al confronto sulle questioni morali, dove ormai il distacco tra le affermazioni di principio e la realtà in atto sta diventando profondo. Quanti sono oggi i cattolici che si sposano civilmente (con uno straniera/o, in seconde nozze, con un non credente o col credente di un’altra fede, ecc..), oppure che convivono per tante ragioni diverse? E’ difficile pensare a una formazione adulta, se si è molto distanti dal modo di vita della gente. Occorre perlomeno un’apertura nel senso che siano considerati problemi di cui si possa discutere seriamente senza giudizi scontati.

Se il cattolicesimo democratico sociale intende veramente aprire una seria battaglia per la trasformazione della società, non può mancare di aprire una cordiale discussione nella Chiesa per scuotere dove necessario una situazione ferma da troppo tempo.

 

Sandro Antoniazzi     

(Settembre 2020)

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