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Per la parrocchia, un bagno di realtà

Per la parrocchia, un bagno di realtà

Tratto da: Adista Documenti n° 16 del 01/05/2021

Siamo ormai lontani da “la mia parrocchia vasto mondo” di Yves Congar, da Esperienze pastorali di don Lorenzo Milani o da quanto affermava Giovanni XXIII quando paragonava la parrocchia alla «fontana del villaggio». Oggi, più che allora, la parrocchia è in crisi. E se è in crisi, allora «si deve cambiare!», come affermò con forza papa Francesco, intervenendo al Congresso Internazionale della pastorale delle grandi città, nel novembre del 2014; e continuò dicendo che la prima e forse più difficile sfida che oggi ha davanti a sé la comunità cristiana è quella di «attuare un cambiamento di mentalità pastorale». Sul tema il papa è tornato più volte, invitando tutti a prendere atto che «quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca» (discorso alla Curia, 21 dicembre 2019). Questo comporta una decisa e indispensabile conversione pastorale da parte di tutti, fedeli laici, preti, vescovi e Santa Sede, contro la comoda quanto inutile convinzione che la soluzione sia fare le cose come si sono sempre fatte.

Che la parrocchia sia in crisi se ne è accorto finanche il Vaticano, pubblicando una Istruzione della Congregazione per il clero su “la conversione pastorale della comunità parrocchiale” (20/07/2020) nella quale si dice che i cambiamenti culturali in atto, specialmente attraverso l’accresciuta mobilità e la comunicazione digitale, «hanno dilatato i confini dell’esistenza» ed esigono pertanto una struttura parrocchiale più flessibile, aperta, ospitale, connotata da una effettiva comunione con le comunità limitrofe, da una reale integrazione col territorio e da un rinnovato slancio missionario.

La crisi della parrocchia va certamente compresa nel contesto di un profondo mutamento culturale e antropologico, aggravato dalla pandemia, che investe il modo di vivere, la mobilità, i rapporti umani e sociali, gli stili di vita, i valori, le fedi. Ma prima di parlare di parrocchie bisognerebbe ragionare seriamente sulla crisi, numerica, di qualità e di identità dei presbiteri – e, oso dire, dei vescovi – e in particolare, sulla crisi dell’essere parroci. Questi assomigliano sempre più a quei Funzionari di Dio di cui parlava profeticamente Eugen Drewermann: «Un chierico è il risultato stratificato della compensazione di un disorientamento ontologico, che svuota e disgrega l’esistenza personale dell’individuo in modo così intenso e persistente da far sembrare che la propria identità sia assicurata solo nell’identificazione con un ruolo estraneo. A questo punto "l’ufficio" diventa la verità fondamentale del Sé, lo conferma e lo conserva. Per gli interessati l’aspetto essenziale della loro esistenza non è dunque più il loro essere persone, bensì l’essere chierici». Un fedele che non vede in Gesù il “riparatore” del peccato non ha alcuna possibilità di diventare prete, a meno che egli non si collochi, o venga collocato, alla “periferia” della Chiesa, come un dissidente. Non a caso questi preti sono definiti "scomodi", sono sorvegliati a vista, censurati e spesso cacciati, come lo stesso Drewermann.

Molto spesso, senza rendersene lucidamente conto, i preti finiscono per ricalcare il modello sacerdotale dell’Antico Testa- mento con la sua funzione di mediazione tra sacro e profano; amministrano i sacramenti sancendo formalmente la profanità dell’esistenza di tanti che si dicono cristiani solo perché possono esibire il certificato di battesimo; dispensano – a quei pochi che lo chiedono ancora – sacramenti che sono slegati dalla vita vissuta dalla gente, che hanno la stessa schizofrenia dell’immolazione delle vittime animali. Le parole d’ordine identitarie che si ascoltano ancora nelle nostre parrocchie, raccontano la scarsa fiducia nella libertà di pensiero, e quindi nello Spirito Santo che “soffia dove vuole”, e che invece si cerca di ingabbiare per non lasciarsi infastidire e smuovere dalla comoda convinzione del “si è sempre fatto così”.

Dunque per incarnare la parrocchia nel nostro tempo e tirarla fuori da una crisi che sembra irreversibile, occorre forse ripartire da parole che sono state messe in contraddizione tra loro: «Fedeltà e rischio, tempio e strada, contemplazione e lotta non sono termini contraddittori ma modi diversi e ineludibili di vivere il proprio mistero di risorti» (don Tonino Bello). Tempio e strada: cioè la preghiera, il culto, il catechismo, non sono in alternativa con l’impegno sociale, con la vita reale; immergersi nei problemi concreti degli uomini, nelle storie di ingiustizia e di esclusione, di violenza e di dolore che vengono vissute oltre il sagrato, non è inconciliabile con l’Eucarestia. E tocca ogni cristiano, ogni battezzato, qualunque sia la sua collocazione ecclesiale. La Costituzione sulla Chiesa del Concilio Vaticano II, la Lumen Gentium, fa precedere i capitoli dedicati alla gerarchia, ai laici e ai religiosi dal capitolo dedicato al Popolo di Dio, che segue immediatamente quello sul mistero della Chiesa. Mediante questa successione  tematica, i Padri conciliari hanno voluto chiaramente indicare che prima di ogni differenziazione di stato o di ministeri, c’è la comune appartenenza all’unico Popolo di Dio. E l’appartenenza a esso comporta la riscoperta del sacerdozio comune, la partecipazione all’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Gesù Cristo dalla quale il sacerdozio ministeriale certamente non dispensa. Essere preti non esonera dall’essere cristiani e membri dell’umanità.

La parrocchia non deve essere solo luogo del culto e dei sacramenti, dove ci si occupa esclusivamente della salvezza dell’anima. Secondo la concezione biblica, l’essere umano non è anima e corpo distinti, ma un’unità inscindibile di anima e corpo. Si salva tutto l’uomo, non solo la sua anima. Anzi, spesso la salvezza dell’anima passa attraverso quella del corpo. Ripensiamo ai miracoli così come ci sono narrati nei Vangeli: restituendo la sanità del corpo, Gesù fa rinascere alla vita, rimette i peccati, apre all’accoglienza del Regno di Dio. Nella parabola del samaritano è detto a chiare lettere che l’esercizio della carità implica il prendersi cura dell’altro, fasciarne le ferite anche correndo il rischio di contaminarsi al contatto con l’impurità dell’altro, e dovrebbe suonare come inquietante monito il fatto che a ignorare colui che è nel bisogno, siano proprio un sacerdote e un levita: uomini votati al culto, uomini della presenza di Dio in mezzo al suo popolo.

Per tutto questo la parrocchia non deve temere i mezzi che il nostro tempo mette a disposizione: «Tra le meravigliose invenzioni tecniche che... l’ingegno umano è riuscito a trarre dal creato, ...rientrano la stampa, il cinema, la radio, la televisione» e internet. Il Decreto conciliare Inter Mirifica ha inteso dare un’indicazione positiva sull’uso di questi strumenti. I mezzi di comunicazione costituiscono, in ogni caso, una sfida, qualcosa con cui misurarsi, senza farne degli idoli e senza demonizzarli; senza colonizzarli o, invece, lasciarli totalmente nelle mani degli altri. I mezzi di comunicazione non potrebbero essere i “tetti” del nostro tempo, dai quali Gesù ci invita ancora a gridare? O la parrocchia «continua a chiudersi in uno splendido isolamento, ignora il suo tempo, si dà con fervore alla redazione del bollettino parrocchiale e dimentica che fuori la vita scorre senza di lei, oppure si apre al mondo moderno e approfitta, nel senso buono del termine, di tutte le possibilità di impegno nella vita attuale. E quindi, anche dei mass media. È sempre il medesimo dilemma: rimanere nel tempio o scendere in strada» (J. Gaillot, vescovo “titolare” di Partenia). «Sono stato mandato a portare la buona notizia fino all’estremità del mondo», diceva Paolo. E i mass media sono, nonostante tutto, lo strumento di comunicazione più straordinario che abbiamo a nostra disposizione. Ma bisogna innanzitutto rinunciare all’idea del controllo di coloro che ci ricevono. L’importante è essere veri, esprimere quello che ci anima. E, ancora e sempre, portare lontano la Parola. La pandemia ci ha insegnato che la distanza e le chiusure accendono il desiderio di tornare a vedersi e abbracciarsi. La voglia dei ragazzi di tornare a scuola, proprio perché è stata loro tolta per mesi, è un inaspettato “miracolo” del virus. Forse bisognerebbe trovare il coraggio di chiudere per un po’ le parrocchie, non come lo scorso anno, ma più a lungo; tanto se in esse c’è qualcosa di positivo, si troverebbe il modo di farlo continuare anche al di fuori della sacrestia. Chiuderle veramente, sospendendo streaming, sacramenti, processioni, funerali, catechismo, certificati. E sperare e affidarsi a Dio. Chissà che non si torni a desiderarle. Intanto si potrebbe approfittare per iniziare, fuori da ogni clericalismo – soprattutto da quello dei laici – un ampio e sincero confronto che abbia come guida lo Spirito Santo e che coinvolga tutti, ma veramente tutti coloro che hanno a cuore il futuro della Chiesa di Gesù Cristo. Quanto avrebbe ancora da dire oggi la parrocchia se vissuta, secondo le parole di don Tonino Bello, come «convivialità delle differenze»! Una comunità di fratelli e sorelle nella quale trovano posto tutte le diversità senza esclusione, dove albergano la misericordia, l’accoglienza e la condivisione, e un linguaggio nuovo, indispensabile se si vuole essere capiti: lontano da certificati e burocrazie, da formule “magiche”, preghiere e prediche che puzzano di muffa e autoreferenzialità, drogate di stanchezza e pigrizia, dal “culto” di oggetti che rasenta la superstizione; che dice poco o nulla ai contemporanei.

In conclusione, anche alla parrocchia è richiesto di incamminarsi verso un nuovo Esodo, di smuoversi dagli spazi chiusi che la sedentarietà e la svogliatezza, la mancanza di spirito di iniziativa, la paura dell’imprevisto, invitano a non abbandonare; e mettersi in cammino, per incontrare sulla strada, come Gesù, l’uomo lasciato mezzo morto dai ladroni, la donna che rischia di essere lapidata, i discepoli sconfitti che si allontanano, tristi e delusi, verso Emmaus.

Parafrasando papa Francesco, è finito il tempo di riflettere sul futuro della parrocchia, è ora di mettere mano alla parrocchia del futuro.

P.S. Mi sembra superfluo dire che questa è solo la mia semplice opinione, che mi auguro inneschi non inutili e sterili polemiche preconcette, ma un intelligente e sincero confronto di idee e di esperienze. 

Vitaliano Della Sala è parroco a Mercogliano (AV) e vicedirettore della Caritas diocesana di Avellino.  

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