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PRIMO PIANO. Genova, paura profezia e speranze

PRIMO PIANO. Genova, paura profezia e speranze

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 30 del 07/08/2021

Vent’anni si prestano a un bilancio: non è più cronaca, diventa storia. Le emozioni – anche quelle più accese – si trasformano in ragionamenti, anche se rimangono i sentimenti e le passioni. A distanza di vent’anni dai fatti di Genova si possono tentare riflessioni compiute, malgrado rimangano sospesi diversi interrogativi.

La prima riflessione compiuta è che quel movimento è stato l’ultimo grande movimento di massa con basi potenzialmente anti-capitalistiche che il nostro Paese abbia conosciuto. Un movimento aperto, democratico, libero, autonomo, trasversale. Con al centro un unico obiettivo: cambiare direzione di marcia al mondo. Nel mirino aveva posto, correttamente, quelle politiche neo-liberiste che, a circa dieci anni dal crollo dell’Unione Sovietica e dall’inizio del sogno unipolare, dispiegavano le loro illusioni e i loro tragici effetti: diseguaglianze, ingiustizie, guerre.

Non c’è più stato – dopo Genova – un luogo capace di dare voce a mille voci collettive, dai centri sociali al mondo cattolico progressista, da Rifondazione Comunista a pezzi significativi del mondo operaio e sindacale.

La seconda riflessione è che quel movimento aveva, indubitabilmente, ragione. Nelle piattaforme di quei mesi c’era la fotografia del presente e la facile profezia di quel che sarebbe accaduto. Bastava ascoltare i nostri social forum, guardare in faccia la realtà, per evitare la ragione del senno del poi. La parte maggioritaria della sinistra europea lo ha capito tardi, una parte non l’ha capito mai. Ma quella globalizzazione neo-liberista era un legno storto, fondato su di un insopportabile errore di valutazione.

La terza riflessione è che in quel movimento nasceva una generazione insorgente, carica di speranze e di desideri. Non penso ai gruppi dirigenti di quel movimento, ai capi, agli uomini e alle donne che pure – con generosità e perizia – guidavano le danze. Mi riferisco alla marea di movimento di ragazzi e ragazze, ventenni o giù di lì, che quel movimento lo hanno animato e da quel movimento si sono fatti battezzare. Anche questo tratto generazionale è stato un unicum, un assolo prima del silenzio.

La quarta riflessione è allora una domanda che ci sbatte contro il muso, ancora a distanza di vent’anni. Perché, se avevamo ragione ed eravamo così forti e uniti, quel movimento si è dissolto nell’arco di pochi mesi?

Penso a due risposte. La prima è nel colpo di pistola sparato in testa a Carlo Giuliani il 20 luglio 2001 e, con lui, a tutta la nostra generazione. La paura spiega il riflusso, la fuga, il silenzio. Abbiamo avuto paura e abbiamo disertato il campo. In molti, moltissimi hanno smesso. Per le botte in testa e nell’anima.

Del resto, combattevamo un avversario di gran lunga più forte di noi. Noi avevamo scudi di plexiglas e incoscienza. Loro tutti i mezzi di comunicazione e un apparato repressivo caricato a molla: piazza Alimonda, Diaz, Bolzaneto.

La paura conta, dunque, soprattutto per quella generazione che nella politica non c’è più. Prendete in mano le biografie delle giovani donne e dei giovani uomini che sono, chi più chi meno, nei posti di comando e di potere della sinistra italiana. Al governo, nelle istituzioni, nelle segreterie dei partiti, sulle copertine (o nelle pagine interne) delle riviste pop. In Parlamento, nei consigli regionali. Prendete in mano, intendo, le biografie di chi tra loro potrebbe essere, per età, figlio di Genova, parte di quella generazione. Oggi ai posti di comando, delle ragazze e dei ragazzi di Genova ne troverete pochissimi. Chi era a Genova, spesso, ha subìto il colpo o ha scelto altre strade. Chi per un motivo o per l’altro a Genova non c’era è invece andato avanti, o è stato scelto.

Ma non c’è solo questo, non si può evocare solo la paura per rispondere alla domanda del nostro fallimento. Forse c’è un’altra risposta, che è più politica. Occorreva fare due cose che non si sono fatte. La prima: trasformare quel movimento in soggetto politico, forzando resistenze invero diffuse. Bisogna dare atto a Fausto Bertinotti di avere indicato, in quei mesi, la strada giusta. E devo riconoscere, avendo io all’epoca avuto tutt’altra opinione, di avere sbagliato. A essere precisi occorreva, forse, più che sciogliere il partito nel movimento, trasformare il movimento in un qualcosa di simile a un partito, una federazione di simili ma diversi.

La seconda cosa che occorreva fare, pochi mesi dopo, era riconoscere che il movimento di Genova e il movimento operaio (il nuovo movimento operaio che in quegli anni aveva trovato in Cofferati e nella Cgil una guida importante, per nulla conservatrice, capace di leggere le trasformazioni incipienti) sarebbero dovuti essere complementari. E dunque scommettere, dopo Firenze e dopo il Circo Massimo, sull’unità di quei popoli. Sarebbe forse nata una sinistra riformatrice, con basi di popolo, capace di mettere nel mirino le ingiustizie e di svolgere una funzione di governo. Quella sinistra riformatrice che a distanza di vent’anni ancora non c’è.

A cosa serve scavare nel passato, rivendicare meriti e scovare gli errori? A capire il presente. Da quella sconfitta è nato il piano inclinato dei riformisti senz’anima e dei radicali senza popolo. Al governo per il governo gli uni, all’opposizione per sterile narcisismo gli altri. E da quella sconfitta io ho imparato una lezione, anzi due.

La prima è una convinzione talmente solida che è l’a priori di ogni ragionamento. Una sinistra italiana ed europea degna non può esistere al di fuori di questa genealogia. Non può nascere nel laboratorio delle alchimie parlamentari, non può nascere intorno ai leader battezzati dai consulenti di immagine. Se vuole essere, deve essere figlia e sorella di quel movimento acerbo e visionario, che ha avuto paura.

La seconda è che occorre riprendere il filo di quel ragionamento. Dando fiducia a chi s’affaccia oggi sulla scena pubblica, ai movimenti dei Fridays for Future e ai ragazzi dell’Economia di Francesco. Alle giovani dei nuovi movimenti femministi, ai riders, a chi si scrive sulla maglietta “Black lives matter” e a chi sente simpatia per le ragioni delle Sardine. Questi movimenti non bastano. Non basta, forse, neppure metterli in rete. Ma servono, e occorre farlo, come serve l’intuizione di dare vita a un processo politico costituente che dia un perimetro al campo e che dica, a tutti loro, a tutti noi: qui si cambia tutto, si ricostruisce una forza e una proposta di sinistra. Rivoluzionaria come nei sogni e nelle speranze dei ventenni di Genova (e di oggi), pragmatica come il buon senso di chi deve mettere insieme il pranzo con la cena. Dentro questa crisi lunghissima che è anche crisi della sinistra italiana si può ricominciare. A sperare, a lottare, a scrivere una storia nuova.

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