Nessun articolo nel carrello

La democrazia e lo Stato di diritto alla prova dello sgombero del campo La Barbuta

La democrazia e lo Stato di diritto alla prova dello sgombero del campo La Barbuta

Riceviamo e pubblichiamo l'articolo-denuncia di Nino Lisi (dell'associazione "Cittadinanza e Minoranze"), scritto in seguito allo sgombero del campo "La Barbuta" di Roma, pubblicato dal sito di informazione dell'associazione Articolo 21, a questo link.


In democrazia la Legge è eguale per tutti, come è scritto nelle vecchie aule dei Tribunali. Ma sin dalle origini, in Grecia, dove fu inventata, la Democrazia nacque strabica: non riguardava le donne, gli stranieri, anche se residenti, e gli schivi. Poiché le donne sono sempre state un po’ più della metà della popolazione, se ne può concludere che riguardava una minoranza di privilegiati. Cospicua, ma minoranza. Oggi le cose sono migliorate, perché la schiavitù, almeno da noi, è stata formalmente abolita, le donne votano alla pari, almeno in questo, degli uomini e il diritto di voto non è assegnato in base al censo. Pur tenuto conto di tutto ciò possiamo dire che siamo tutti e tutte eguali? Proprio tutti e tutte? O c’è chi conta di più e chi di meno? O c’è qualcun@ che conta proprio niente?

In uno Stato di Diritto nessuno è al di sopra della Legge. Anche chi ha potere, molto potere, vi deve essere sottoposto, sicché la Pubblica Amministrazione che è la longa manus di chi ha potere, compresa la Polizia, deve essere al “servizio dei cittadini”, come ho visto scritto a caratteri cubitali sulla parete di un commissariato della Polizia di Stato. Ma è così proprio sempre e da per tutto? No: a Genova, ad esempio, vent’anni fa non fu esattamente così E la signora Pinelli di sicuro non potrebbe affermarlo come neppure la famiglia Cucchi penso sia disponibile ad asserirlo. Men che mai i detenuti del Carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Cosa risponderebbero se glielo si chiedesse le persone Rom già segregate molti anni fa dal Comune di Roma nel “villaggio della solidarietà” alias “campo nomadi” de La Barbuta, che il Tribunale di Roma il 30 maggio del 2015 ha dichiarato aver carattere di «discriminazione su basi etniche», e giovedì scorso sgomberate dalle forze dell’ordine su Ordinanza del Comune di Roma?

Ad impedire questo sgombero non sono valsi né una diffida legale presentata al Comune il 25 agosto scorso, né un ricorso in via di urgenza ex art. 700 del c.p.c. presentato al Tribunale Civile di Roma il successivo 27 e discusso nell’udienza di comparizione il 17 settembre, né un esposto/denuncia al Prefetto del 27 agosto. Neppure l’incontro di due abitanti del campo con il Prefetto al termine del quale il Rappresentante Territoriale del Governo tranquillizzava l’anziana rom che si congedava da lui dicendole «nessuno vi farà del male».

Il male invece si è presentato in uniforme, quelle di diversi corpi delle forze dell’ordine (e quindi dello Stato), un po’ prima delle 7 del mattino di giovedì 23 settembre.

Una telefonata mi avvisa del fatto alle 7 in punto. «Che ci consigli di fare?». «Non opponete resistenza perché sarebbe peggio e levate le vostre cose dai containers, perché potrebbero distruggervele come fecero nello sgombero del Camping River».

Informata la Prefettura, lanciato un comunicato stampa, informati avvocati, il consigliere comunale Fassina e quant’altr@ si occupano della questione, Marco Brazzoduro presidente di Cittadinanza e Minoranze ed io ci rechiamo al campo dove, nei pressi dell’ingresso ci attende un altro socio Lorenzo Palai cui era stato impedito l’ingresso pur essendosi qualificato come esponente dell’associazione che era tra i soggetti che avevano avanzato il ricorso ancora pendente in attesa dell’ emissione dell’ Ordinanza.

Si avvicina un agente della Polizia Locale. Mostro il tesserino dell’Ordine dei Giornalisti. «Non può entrare anche se è un giornalista. È in atto un’operazione di polizia». Insisto, cito l’Articolo 21 della Costituzione. Niente. Pronuncio una parola magica «Se mi impedite di fare il mio lavoro può configurarsi un abuso». Viene consultato telefonicamente un non meglio identificato capo che autorizza il mio ingresso. Entriamo in tre: Marco perché guida la macchina e Lorenzo perché per camminare non mi è sufficiente il bastone, ho bisogno di sostegno.

Percorso il lunghissimo viale (un paio di chilometri circa) e arrivati in vista del primo container ci vengono incontro un tenente della Polizia Locale, un signore in borghese, che capiremo dopo essere un capitano dello stesso Corpo, e alcuni agenti. Non si può proseguire per motivi di sicurezza. Ce lo spiega il tenente che si qualifica come responsabile della sicurezza del “cantiere di lavoro” nel quale non può farci entrare a tutela della nostra incolumità, essendoci dei mezzi in movimento: in effetti due o tre furgoni sono transitati fino alle 15 passate. Quindi abbiamo lasciato il campo per tornarvi all’imbrunire, a cantiere chiuso.

Ma la scena si ripete. A fermarci all’ingresso del campo questa volta è una signora qualificatasi come una funzionaria responsabile insieme ad altri della operazione in corso. Questa volta il motivo per il quale non possiamo nemmeno raggiungere il punto dove eravamo giunti al mattino è un altro: si tratta di un’area privata, di proprietà del Comune, ma non demaniale, privata. Dunque il proprietario può stabilire che dopo le 18 nessuno possa entrare. Insisto, mostro di nuovo il tesserino. L’unico risultato che ottengo è che il mio tesserino venga fotografato ripetutamente con il cellulare di un’altra funzionaria più giovane.

Non posso dunque che riferire quanto ho appreso parlando con alcuni “sgomberati” e con una funzionaria dell’Ufficio Speciale RSC posto alle dirette dipendenze del Gabinetto del Sindaco.

Al mattino, «liberati di persone e cose», come è scritto nelle intimazioni consegnate tra il 4 e 5 agosto ad una ventina di famiglie e contro cui erano stati prodotti gli atti di diffida ed il ricorso, tutti i container sono stati sigillati, tranne due o tre. L’incertezza dipende dal fatto che si parlava di due disabili e di una persona agli arresti domiciliari che sono stati lasciati nei loro moduli abitativi; ma non sono riuscito ad accertare se i disabili abitassero nello stesso modulo oppure no. Comunque le persone sgomberate e le relative masserizie erano all’aperto, per terra, in attesa di notizie dei funzionari dell’Ufficio Speciale RSC.

Nell’udienza di comparizione presso la Sezione XVIII del Tribunale Civile, l’avvocato del Comune aveva dichiarato che lo sgombero sarebbe stato accompagnato dall’istituzione presso la Prefettura di un Tavolo Tecnico per discutere le soluzioni abitative alternative. Il Tavolo non si è visto né se ne è sentito parlare. Quanto alle soluzioni abitative si parlava di alcune chiavi, che sarebbero servite per accedere ad un appartamento, che sarebbero dovute arrivare per persone in condizioni fragilità, per chi aveva già sottoscritto (benché in ritardo) e per chi sottoscrivesse all’istante il Patto di Responsabilità Solidale con il Comune. Offerte del genere c’erano state nei giorni precedenti ed erano state rifiutate per le condizioni di invivibilità della soluzione proposta, come nel caso di 13 persone cui è stato proposto un appartamento di tre stanze, cucina e bagno.

Due casi sono riuscito a verificarli di persona: quello di N. A., disabile convivente con la madre cui sono state consegnate le chiavi di un appartamento di Tor Bella Monaca di 45mq (una stanza con un solo letto,un tinello cucina e bagno) che gli stessi funzionari dell’Ufficio Speciale RSC hanno poi riconosciuto inadatto per due persone, promettendone un altro visitabile però non prima di martedì 28 settembre; l’altro è quello di un appartamento di due stanze ed un piccolo soggiorno cucina e bagno proposto alla famiglia, composta da 11 membri, di S. A. che, malgrado la raccomandazione di non apportarvi modifiche per migliorarne la capienza ed il pessimo stato per infiltrazione di acqua documentata fotograficamente, l’ha accettato avendo sperimentato una notte all’addiaccio.

A pomeriggio inoltrato tutte le famiglie “sgomberate” sono state invitate a lasciare il campo portando con sé tutti i loro poveri beni per trascorrere la notte altrove. Alcune le abbiamo rintracciate nei dintorni (specie nel grande piazzale di un vicino distributore di carburanti Sembrava attendibile che come affermato dalla funzionaria che mi ha precluso l’ingresso il campo, ormai fosse vuoto se non per la presenza degli abitanti dei moduli non sigillati.

Quando al mattino abbiamo fatto notare a chi aveva operato lo sgombero che per le condizioni con le quali era stato eseguito e le conseguenze provocate era da considerarsi illegale, abbiamo ricevuto sempre la medesima risposto: «Io eseguo gli ordini che mi vengono dati». A nulla è valso richiamare la lezione del Tribunale di Norimberga che aveva stabilito che l’esecuzione di ordini sbagliati era passibile di pene severissime, perché a chi non è avanti negli anni questa notizia non è giunta.

Intanto il giorno dopo sulle pagine della cronaca di Roma è apparsa la frase, esibita come una medaglietta dalla sindaca Raggi durante la conferenza stampa tenuta all’ingresso del campo, mentre l’operazione di polizia aveva inizio: «Mandati via gli ultimi cento nomadi». Come se si fosse trattato di fastidiosi ingombri e non di cittadini e cittadine considerati/e eguali agli altri/e ed a cui non erano riconosciuti diritti garantiti dalla Costituzione e da norme internazionali.

Mi si potrebbe obiettare che, giusto il giorno dopo lo sgombero, il 24 settembre, è stata resa nota l’Ordinanza della XVIII Sezione del Tribunale che rigettava il ricorso contro lo sgombero in quanto «risulta in atti» «la possibilità per i ricorrenti di usufruire di una molteplicità di misure di sostegno dell’esigenza abitativa» e che il Comune «intende superare il sistema dei campi, grazie ad un approccio metodologico volto a promuovere l’autonomia e l’emancipazione sociale intervenendo sui quattro assi portanti, ossia l’abitare, il lavoro, l’istruzione e la salute». Ma per non incappare nelle violazioni di norme nazionali ed internazionali denunciate nel ricorso occorre che quanto risulta “in atti” risulti anche nella realtà e cioè che gli obiettivi enunciati siano effettivamente raggiunti. Occorrerebbe ad esempio che le famiglie cui è stato intimato tra il 4 e 5 agosto di lasciare il campo entro il 6 settembre fossero state messe in stato di «auto-sufficienza economica» e di «emancipazione sociale» che il Piano di Indirizzo di Roma Capitale per l’Inclusione delle popolazioni Rom, Sinti e Caminanti (PIRSC) indica chiaramente come condizione per l’uscita progressiva dai campi. E poiché così non è – come è del tutto evidente dal momento che molte delle persone sgomberate sono prive di documenti ed in stato di apolidia di fatto e tutte prive di un lavoro regolare e non precario, costretti ai famosi “lavoretti” – bisogna chiedere alla Associazione della Croce Rossa italiana-Comitato Area Metropolitana di Roma Capitale, cui era stata affidata l’applicazione del PIRSC al campo La Barbuta, di spiegare in cosa si sia concretizzato l’approccio metodologico previsto e per quali motivi non abbia dato i risultati attesi.

Posto che la responsabilità del mancato raggiungimento degli obiettivi, quand’anche fosse dovuto a scarsa collaborazione – comunque da provare – degli RSC, sarebbe in primo luogo dell’associazione affidataria ed in ultima istanza del Comune sul quale grava il compito di dare corretta attuazione alla Strategia Nazionale approvata dal Governo, è fuori discussione che in assenza del conseguimento degli obiettivi di autosufficienza ed emancipazione ed in mancanza di una alternativa abitativa predisposta in anticipo e rispondente agli standard minimi di decenza, lo sgombero effettuato viola diritti costituzionalmente garantiti e molte norme internazionali.

Intanto molte delle famiglie sgomberate vagano per la Città senza più un punto di riferimento. Nell’auspicio che si riesca a porre rimedio al malfatto, suggerirei a chi lo ha provocato, sia che l’abbia deciso e sia che l’abbia realizzato dando semplicemente attuazione agli ordini ricevuti, di porsi come targhetta la frase con la quale si è conclusa il 25 sera la conversazione telefonica con uno degli sgomberati: «Sono giorni che non mi lavo. Puzzo come una capra».

Per concludere ripropongo a me e non solo a me gli interrogativi impliciti con cui ho iniziato questo scritto: ma qual è la qualità della nostra Democrazia? Fino a che punto il nostro è uno Stato di Diritto? Non ai posteri, ma ai presenti la risposta e le conseguenti conclusioni.

Adista rende disponibile per tutti i suoi lettori l'articolo del sito che hai appena letto.

Adista è una piccola coop. di giornalisti che dal 1967 vive solo del sostegno di chi la legge e ne apprezza la libertà da ogni potere - ecclesiastico, politico o economico-finanziario - e l'autonomia informativa.
Un contributo, anche solo di un euro, può aiutare a mantenere viva questa originale e pressoché unica finestra di informazione, dialogo, democrazia, partecipazione.
Puoi pagare con paypal o carta di credito, in modo rapido e facilissimo. Basta cliccare qui!

Condividi questo articolo:
  • Chi Siamo

    Adista è un settimanale di informazione indipendente su mondo cattolico e realtà religioso. Ogni settimana pubblica due fascicoli: uno di notizie ed un secondo di documentazione che si alterna ad uno di approfondimento e di riflessione. All'offerta cartacea è affiancato un servizio di informazione quotidiana con il sito Adista.it.

    leggi tutto...

  • Contattaci

  • Seguici

  • Sito conforme a WCAG 2.0 livello A

    Level A conformance,
			     W3C WAI Web Content Accessibility Guidelines 2.0

50 anni e oltre

Adista è... ancora più Adista!

A partire dal 2018 Adista ha implementato la sua informazione online. Da allora, ogni giorno sul nostro sito vengono infatti pubblicate nuove notizie e adista.it è ormai diventato a tutti gli effetti un giornale online con tanti contenuti in più oltre alle notizie, ai documenti, agli approfondimenti presenti nelle edizioni cartacee.

Tutto questo... gratis e totalmente disponibile sia per i lettori della rivista che per i visitatori del sito.