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Per una pedagogia della sofferenza. Dal cosmopolitismo dei mali comuni all'etica dell'eco-appartenenza

Per una pedagogia della sofferenza. Dal cosmopolitismo dei mali comuni all'etica dell'eco-appartenenza

Tratto da: Adista Documenti n° 3 del 29/01/2022

DOC-3165. ROMA-ADISTA. Contrastare il «cosmopolitismo dell'inospitalità» in atto sul nostro pianeta - tra emergenza climatica e ambientale, migrazioni, pandemie, ingiustizie e disuguaglianze di ogni genere - con una «pedagogia della sofferenza » mirata a educare al bene, contribuendo a quello che già Montaigne indicava come il «più grande e glorioso capolavoro» a cui possano ambire gli esseri umani: imparare a «vivere come si deve». È questa la proposta dell'ultimo libro del filosofo naturalista Orlando Franceschelli, Nel tempo dei mali comuni. Per una pedagogia della sofferenza, edito da Donzelli (pp. 155, 18 euro), in cui l'autore, mettendo da parte ogni fiducia in «magnifiche sorti e progressive» come pure ogni speranza di redenzione e di salvezza ultramondana, percorre, come evidenzia Telmo Pievani nella prefazione, la strada di «un'etica della vulnerabilità e della fragilità», fondata «sulla solidarietà tra reietti, sulla permanente memoria dei sommersi, sull'ascolto del grido della terra e del grido degli ultimi, che poi oggi sono diventati lo stesso grido».

Contro quello che definisce come «futurismo dei vincitori» – la visione elitaria di chi, come James Lovelock, noto come l'inventore del concetto di Gaia, scommette sulla crescente potenza delle bio-tecnologie per delineare una nuova era di uomini-cyborg, salutata come una sorta di disegno divino – Franceschelli, non a caso definito da Pievani come «uno dei pochi filosofi che prendono davvero sul serio la scienza, nei suoi tormenti e nei suoi avanzamenti», riporta con forza l'attenzione sulle tragiche conseguenze dell'azione umana «che intanto sono sotto gli occhi di tutti: dunque, più che sul «futuro dei pochi vincitori», sul «presente di tutti gli esseri viventi che sulla Terra agiscono e soffrono».

E richiamando, contro ogni arroganza anti-naturalistica, la «relazione biunivoca» tra la storia umana e la storia della Terra – tanto più «ineludibile» in tempi di Antropocene o Capitalocene – evidenzia, sulla base di una saggia sinergia tra pensare e fare, la necessità di «una visione critica e scientificamente informata della realtà naturale di cui siamo parte». Una visione centrata sull'etica solidale dell'eco-appartenenza, sull'«urgenza nuova ed epocale» della «connessione di ogni persona e di ogni gruppo sociale col mondo naturale e con tutti gli altri esseri viventi», al di fuori di ogni hybris antropocentrica. Del resto, la stessa pandemia da Covid-19 non ha forse confermato, scrive l'autore, «che un rapporto ragionevole e lungimirante tra ambiente naturale e storia della nostra specie costituisce il nostro primo bene comune?».

E se il sistema Terra è diventato, con l'Antropocene, una realtà ibrida, in parte naturale e in parte artificiale – in linea del resto con la visione di esseri umani «culturali per natura e naturali per cultura» –, ciò non dovrebbe incoraggiarci a incrementare ancor di più «la sua trasformazione in manufatto», come se non ci fosse ormai più nulla che valga la pena preservare, bensì indurci a prenderci cura, proteggendolo da ulteriori aggressioni, dell'ibrido – ma resiliente e ancora tanto ricco di straordinaria bellezza – ambiente in cui viviamo, insieme a tutti gli esseri non umani. Nella consapevolezza, come evidenzia Franceschelli, che «ogni salvezza individualistica dall'odierna inospitalità universale è destinata a rivelarsi sempre più illusoria».

È in questo quadro che si pone il compito pedagogico, definito dallo stesso autore «tutt'altro che agevole», di apprendere attraverso le sofferenze, imparando a convivere con esse «senza fughe dalla realtà, senza confidare in loro redenzioni storiche o escatologiche, senza appelli all'idea che il male sia al servizio del bene». Con una precisazione importante per un filosofo aperto da sempre a un dialogo alto e rispettoso con i credenti: che, cioè, pur essendo alternativa «rispetto a ogni interlocuzione religiosa condotta nel trinomio Dio-uomo-mondo», la pedagogia della sofferenza proposta da Franceschelli, e inscritta rigorosamente nel quadro del «binomio naturalistico mondo-uomo», «non si sente ideologicamente in polemica» con la speranza dei credenti nel Dio biblico di una redenzione delle sofferenze terrene da parte del loro Padre celeste e tanto meno con i comportamenti solidali che tale fede ha ispirato ed ispira, bensì con gli appelli all'ex malo bonum di chi finisce per giustificare le ingiustizie e le sofferenze degli sconfitti in nome dell'avvento di beni futuri, come se i mali del presente «fossero soltanto il passaggio negativo di un disegno dialettico-provvidenziale della storia umana».

È nel presente che, al contrario, è chiamata a operare la pedagogia della sofferenza proposta dall'autore, mirata a educare a «sopportare la sofferenza per quanto si deve, ridurla per quanto è possibile, conoscere-apprendere quanto di più prezioso essa può insegnarci»: quello, cioè, di fare della memoria della sofferenza patita sulla terra una fonte di impegno individuale e collettivo per la «fioritura» della felicità possibile «a cui gli esseri senzienti aspirano». Nella convinzione che il futuro che attende l'umanità e il pianeta «inizia esattamente con i comportamenti che di fatto pratichiamo qui e ora» a favore di un «cosmopolitismo dei beni comuni».  

Qui la voce diretta di Orlando Franceschelli

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