Burkina Faso. Giustizia per Thomas Sankara
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 15 del 23/04/2022
Thomas Sankara fa storia da vivo e da morto. Gli uomini coerenti e veri, che credono in quello che dicono e praticano scelte audaci fino al martirio, scrivono e orientano la storia. Scomodo per i suoi ideali e il suo coraggio nel voler invertire la storia africana, fatto fuori con efferata violenza a colpi di arma da fuoco, è ancora lì a scrivere la storia del suo Burkina Faso e della sua Africa. Unico presidente ucciso i cui colpevoli nazionali sono stati individuati e condannati in un regolare processo.
Assassinato il 15 ottobre 1987 da una squadra di sicari alla fine di una riunione del Consiglio Rivoluzionario Nazionale al Potere insieme a 12 compagni. Il 13 aprile 2021, dopo 34 anni, l’annuncio dell’istituzione del Processo per l’assassinio del leader della "Terra degli uomini integri" con l’imputato di spicco Compaoré accusato di omicidio e complotto contro la Nazione. L’11 ottobre 2021 l’apertura. Le udienze, sospese più volte, in particolare per il colpo di Stato del 24 gennaio, con cui il tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba destituisce il presidente democraticamente eletto, Roch Marc Christian Kaboré, approdano il 6 aprile alla sentenza che ridona dignità a un intero popolo e consente di avere un po' più di fiducia nelle istituzioni. Un processo ostacolato per decenni dona finalmente giustizia a Thomas Sankara e all’intero Paese. Il Tribunale Militare di Ouagadougou condanna in contumacia all’ergastolo Blaise Compaoré, diventato presidente l’indomani di quel golpe e rimasto tale per quasi tre decenni, fino al 2014 quando è stato destituito dalla rivolta popolare. Amico di Thomas, diventato suo principale nemico! Quella di Blaise è una presidenza nata e proseguita nel sangue. Con Compaoré sono condannati all’ergastolo il comandante della sicurezza, Hyacinthe Kafando, in fuga dal 2016, e il generale Gilbert Dienderé, uno dei capi dell’esercito durante il golpe, unico grande presente al processo, nel quale sono imputate 14 persone. Compaoré e Dienderé sono accusati di aver danneggiato la sicurezza dello Stato, di essere complici nell’omicidio, di occultamento di corpi e manomissione di testimoni.
Thomas Sankara, il Che Guevara africano, a 34 anni assume il potere con un colpo di Stato. Molto amato dai burkinabè e dagli altri popoli africani, meno dai Paesi occidentali, in primis Francia e Stati Uniti, per le sue prese di posizione contro l’imperialismo e il colonialismo, per l’invito a non pagare il debito con l’Occidente, per le politiche sociali inclusive contro la povertà e per la parità di genere. Il 4 agosto 1983 il giovane Sankara inizia la “rivoluzione burkinabé” che, in poco più di due anni, porterà i 7 milioni di abitanti del poverissimo Paese del Sahel ad avere assicurati due pasti al giorno e acqua potabile.
Il 4 ottobre 1984, poco più di un anno dopo, pronuncia all’Assemblea Nazionale dell’ONU uno dei suoi discorsi più importanti e i suoi nemici si moltiplicano: «Sono davanti a voi in nome di un popolo che ha deciso sul suolo dei propri antenati di affermare d’ora in avanti se stesso e farsi carico della propria storia. Oggi vi porto i saluti fraterni di un Paese di 274.000 Kmq in cui 7 milioni di bambini, donne e uomini si rifiutano di morire di ignoranza, di fame e di sete non riuscendo più a vivere una vita degna di essere vissuta. Chi mi ascolta, mi permetta di dire che parlo non solo in nome del mio Burkina Faso tanto amato, ma anche in nome di tutti coloro che soffrono in ogni angolo del mondo. Parlo in nome dei milioni di esseri umani che vivono nei ghetti perché hanno la pelle nera o sono di culture diverse, considerati da tutti poco più che animali. Parlo in nome di quelli che hanno perso il lavoro in un sistema che è strutturalmente ingiusto e congiunturalmente in crisi, ridotti a percepire della vita solo il riflesso di quella dei più abbienti. Parlo in nome delle donne del mondo intero che soffrono in nome di un sistema maschilista che le sfrutta. Le donne che vogliono cambiare hanno capito e urlano a gran voce che lo schiavo che non organizza la propria ribellione non merita compassione per la sua sorte. Questo schiavo è responsabile della sua sfortuna se nutre qualche illusione quando il padrone gli promette libertà».
Il discorso che gli costa la vita è incentrato sulla cancellazione del debito dei Paesi impoveriti. Lo pronuncia il 29 luglio 1987 ad Addis Abeba in occasione del vertice dell’Organizzazione dell’Unità Africana, due mesi dopo è fatto fuori. Lì, in modo molto consapevole, dice: «Se il Burkina Faso resterà solo in questa richiesta l’anno prossimo non sarò più qui a questa conferenza». Definisce con tinte forti il senso del suo impegno e della sua azione: «La nostra rivoluzione avrà valore solo se, guardandoci intorno, potremo dire che i Burkinabé sono un po’ più felici grazie a essa. Perché hanno acqua potabile e cibo abbondante e sufficiente, sono in splendida salute, hanno scuola e case decenti, sono ben vestiti, hanno diritto al tempo libero; perché hanno occasione di godere di più libertà, democrazia, dignità. La rivoluzione è la felicità. Senza felicità, non possiamo parlare di successo».
Sankara non ha paura di dire la verità sulla situazione africana, sulla schiavitù della colonizzazione e sulla corruzione, grande piaga dell’intero continente. Vicino al suo popolo, incarna la speranza di vedere l’Africa ritrovare la sua libertà. Creativo ed energico, per quattro anni proclama senza paura le rivendicazioni dei Paesi impoveriti. È un eroe d’altri tempi. Classe 1949, scopre l’ingiustizia a scuola e lì si radica il suo spirito rivoluzionario.
Dopo la liberazione dal colonialismo, nel 1960, il Paese conosce anni d’instabilità e colpi di Stato. Quello militare del novembre ‘80 porta al governo un regime corrotto e repressivo, spingendo i dirigenti sindacali alla clandestinità. Sankara, segretario di Stato all’informazione, si dimette e avverte: «Guai a chi imbavaglia il popolo!». Nel 1982 un nuovo colpo di Stato. Sankara è nominato primo ministro e non perde tempo nel denunciare i «nemici del popolo» e l’«imperialismo». Viene arrestato il 17 maggio 1983 mentre Guy Penne, consigliere per gli affari africani di Mitterrand, atterra a Ouagadougou.
Sankara è rispettato dalle organizzazioni civili che diffidano dei militari, ma anche dai militari che riconoscono in lui un soldato fiero di essere tale. Raggiunto il grado di capitano, crea con altri ufficiali un’organizzazione clandestina di estrema sinistra, mentre l’Alto Volta (precedente nome del Burkina) vive un’inquietante alternanza. Il 4 agosto 1983, appena Sankara è liberato, parte la presa di potere: i commandos del capitano Blaise Compaoré marciano da sud sulla capitale, i lavoratori delle telecomunicazioni tagliano le linee e i civili aspettano i soldati per guidarli nella città, che cade rapidamente in mano ai rivoluzionari. Divenuto presidente, Sankara lancia la sua sfida: «Democratizzare la nostra società, aprire gli animi a un universo di responsabilità collettiva per osare inventare il futuro». Il leader rivoluzionario vuole «abbattere e ricostruire l’amministrazione» restituendo dignità ai funzionari e «immergere il nostro esercito nel popolo attraverso il lavoro produttivo», ricordando a ogni soldato che «senza formazione culturale e politica, un militare non è che un potenziale criminale».
La rivoluzione deve migliorare le condizioni di vita dei burkinabé: questo è il compito immenso che Sankara si attribuisce. All’epoca, l’Alto Volta è tra i Paesi più poveri del mondo: la mortalità infantile è al 180 per mille, l’aspettativa di vita media non supera i 40 anni, l’analfabetismo arriva al 98% e la scolarizzazione al 16%. Con Sankara arriva il cambiamento: trasformazione dell’amministrazione, redistribuzione delle ricchezze, liberazione della donna, mobilitazione dei giovani, abbandono dell’organizzazione sociale tradizionale cui si imputa il ritardo delle campagne, tentativo di fare dei contadini una classe sociale rivoluzionaria, riforma dell’esercito per porlo al servizio del popolo anche con funzioni produttive, decentralizzazione e democrazia diretta attraverso i Comitati di difesa della rivoluzione incaricati di attuare le riforme sul territorio, lotta spietata alla corruzione. Sankara ha un grande sogno: condurre il popolo ad aver fiducia in sé e a scrivere finalmente la propria storia. A scrivere la sua felicità.
Il 4 agosto 1984, l’Alto Volta è ribattezzato Burkina Faso: “Paese degli uomini integri”. Cambia rapidamente e Sankara non perde occasione per promuovere uno sviluppo autonomo, non più dipendente dagli aiuti esteri. Per Sankara «gli aiuti immettono nelle nostre menti riflessi da mendicante, bisogna invece produrre: produrre e consumare burkinabé». Nell’aprile 1985 lancia le “tre lotte”: contro il taglio abusivo del legname, gli incendi nella boscaglia, il pascolo non controllato degli animali.
Sankara si fa portavoce dei Paesi impoveriti criticando, senza mezzi termini e senza paura, l’ordine internazionale. I suoi temi: le ingiustizie della globalizzazione e del sistema finanziario internazionale, l’onnipresenza del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale, il circolo vizioso del debito dei Paesi del Terzo mondo. Il debito per Sankara trova origine nelle «proposte allettanti» di «tecnici assassini» mandati dalle istituzioni finanziarie internazionali: nuovo strumento per riconquistare l’Africa. Diventa sempre più scomodo e pericoloso, la sua lotta contro il neocolonialismo minaccia il potere di altri presidenti dell’Africa Occidentale e il ruolo della Francia nel continente nero. Così si giunge al suo assassinio e alla Presidenza Compaoré. Lo si è voluto cancellare, ma le sue idee e la sua spinta rivoluzionaria continuano a fare storia.
Questo processo dipana, per il suo aspetto nazionale, i fili del complotto. È accertato che il 15 ottobre il commando lasciò la casa di Blaise Compaoré. Il generale Diendéré, presente sulla scena, diede ordine di inviare soldati per mettere in sicurezza la città e prendere il controllo delle guarnigioni che avrebbero potuto reagire.
Il Comitato Internazionale “Giustizia per Sankara”, pur manifestando gioia per l’avvenuto processo e la sentenza, afferma che non è ancora finita, resta aperto l’aspetto internazionale e l’inchiesta sulla componente internazionale deve continuare.
Il verdetto porta un po’ di luce in un momento buio per l’intero Paese. Il Burkina, per molti aspetti, è allo sbando: immensi territori si sono svuotati a causa degli attacchi terroristici, la gente si sposta e fa straripare i quartieri popolari delle città e invade i semafori per sfamarsi. Manca sul mercato il mais del nord e i prezzi sono schizzati a cifre impossibili. La transizione, dopo il colpo di Stato del 24 gennaio, si presenta lunga e dura, con l'ex presidente Kaboré liberato dai militari solo in questi giorni.
L’ultimo boccone amaro il Paese l’ha inghiottito la not te tra il 4 e il 5 aprile: uomini armati hanno assalito la comunità religiosa della parrocchia di Yalgo, diocesi di Kaya, prelevando suor Suellen Tennyson, 83 anni, che è stata portata in una località sconosciuta. Prima di andar via, i terroristi hanno saccheggiato la casa e sabotato gli autoveicoli.
La sentenza, dice la vedova Sankara, mostra che «il Burkina Faso ha ascoltato la volontà del popolo». Il popolo ha ripreso a scrivere la sua storia, come voleva Sankara. Il Paese ha bisogno di scelte coraggiose: che questo verdetto sia l’inizio.
Sociologa e teologa pastorale, Grazia Le Mura è missionaria in Burkina Faso dal 2004
*Foto presa da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza
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