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Pasqua: la saggezza della speranza

Pasqua: la saggezza della speranza

ROMA-ADISTA.

Quante riflessioni abbiamo fatto, in queste ultime settimane, attorno alla questione se possiamo ancora sperare qualcosa di buono dall’uomo e dalla sua storia! Passati dalla pandemia alla guerra ci dibattiamo in questo dilemma. Sembriamo preda del male, che ci vince.

Peraltro l’interrogativo ha sempre attraversato i cuori e le menti più sveglie, come ci testimoniava, in un romanzo che raccontava la vita e i pensieri di un imperatore romano, Marguerite Yourcenar: «Ogni uomo, nel corso della sua breve esistenza, deve scegliere eternamente tra la speranza insonne e la saggia rinuncia a ogni speranza» (Memorie di Adriano, in Opere. Romanzi e racconti, Bompiani, 2000, 413).

Ma, per me, ecco la domanda: dove sta la vera saggezza? Nel rinunciare ad ogni speranza oppure nel chiederci che cosa dobbiamo fare per recuperare la speranza e la fiducia necessarie per giungere, nella lotta contro il male, a quella che Dietrich Bonhoeffer chiamava l’«azione responsabile», ossia per arrivare a quell’attività umana che sigilla la nostra maturità?

Suggerisco tre piste di ricerca per camminare su questa strada.

La prima: se le cose vanno male è perché abbiamo smarrito il sentimento della solidarietà umana come valore di base e ci siamo proiettati, egoisticamente, alla nostra individuale pseudo felicità. Così ha scritto, recentemente, un filosofo contemporaneo: «Il dispositivo della felicità isola l’essere umano e conduce a una spoliticizzazione e desolidarizzazione della società. Ognuno deve badare alla propria felicità, che diventa quindi una questione privata. Anche la sofferenza viene interpretata come il risultato del proprio fallimento. Così, invece della rivoluzione, c’è la depressione» (Byung-Chul Han, La società senza dolore, Einaudi, 2021,19). A partire da altre considerazioni, qualcuno aveva già segnalato questa frantumazione e contrapposizione sociale: «L’unico sentimento comune di questa società passiva e frantumata è il diffondersi di un senso di paura indeterminata, che spinge i governi a produrre continue misure securitarie. (...) Il nucleo sempre più strutturato della paura del diverso e dello straniero si restringe in una sorta di piccolo fortino assediato dalla rarefazione della realtà e dalla disgregazione della società» (Pietro Barcellona, La speranza contro la paura, Marietti 1820, 2012, 18). Tentiamo di cacciare il dolore ma rimaniamo schiavi della paura, soprattutto del diverso. Mentre non vi potrà essere resurrezione senza quella rivoluzione quotidiana che ci porta a solidarizzare con chi soffre e a liberarci dalla paura.

La seconda: per resistere al male diffuso bisogna prima riconoscerlo in noi stessi (altrimenti lo proiettiamo negli altri, fino ad arrivare all’odio e allo scontro) e, poi, compiere un cammino di purificazione e di rafforzamento. Riconoscendoci deboli e miseri e diventando piccoli e inermi. «Siccome si nacque nudi, non si può rinascere senza nudità, senza spogliarsi o venire spogliati del tutto ciò che si ha indosso, senza rimanere senza baldacchino, e perfino senza tetto, senza sentire la vita intera come non la si è potuta sentire allorché si nacque la prima volta; senza protezione, senza appoggio, senza punto di riferimento» (Maria Zambrano, Chiari del bosco, Bruno Mondadori, Milano 2004, 48). «Le tue contraddizioni, le tue lacerazioni e le tue miserie sono quelle della trasformazione. Tu

scricchioli e ti laceri. Il tuo silenzio è il silenzio del chicco di grano nella terra ove marcisce per divenire. E la tua sterilità è la sterilità nella sua crisalide. Ma un giorno rinascerai con ali bellissime» (Antoine de Saint-Exupéry, Cittadella, Borla, 1999, 193). Per risorgere a vita nuova bisogna avere la pazienza del seme che è sotto terra. Esso, fragile, aspetta, si fortifica, nutrendosi, e poi germoglia. Sì, nella pazienza, nella costanza, nella fedeltà possiamo rinascere come uomini nuovi.

Terza: facciamo attenzione al linguaggio, alle parole che usiamo e a come le usiamo. Uno degli elementi che maggiormente incidono nel degrado dei rapporti, ossia nell’indifferenza o nell’odio crescenti, sia dato dalle parole che usiamo. Non solo le parole violente o escludenti ma anche quelle vuote o approssimative, fuorvianti o retoriche. Come ha scritto, recentemente e con efficacia, un’amica: dobbiamo «prestare molta attenzione, molta più attenzione di quanto non stiamo già facendo al nostro modo di comunicare: alle nostre parole, al contesto, agli interlocutori,... E poi muoverci con delicatezza, con calma, se è possibile, perché le persone sono fragili, perché le situazioni sono fragili, perché nelle parole o nei gesti ci può essere anche qualche sbaglio involontario, perché, in buona sostanza, la pace è fragile, fragile anche per e tra di noi che pure cerchiamo la pace». Le parole che usiamo non sono espressione di insensibilità e fonte di divisione? «Gente priva di immaginazione, intollerante, senza orizzonti. Gente che vive una realtà fatta di convinzioni tutte sue, slogan vuoti, ideali orecchiati qua e là, sistemi rigidi. Sono queste le persone che mi fanno davvero paura. Le temo e le disprezzo. Sono casi senza speranza (...). Quelle che T.S. Eliot chiamava “gli uomini vuoti”. Persone insensibili che coprono questa loro mancanza di immaginazione, questo loro vuoto, con un ammasso di segatura, e senza

rendersene minimamente conto se ne vanno in giro per il mondo a tentare di imporre a tutti i

costi questa loro ottusità agli altri, mettendo in fila parole vuote e senza senso» (Haruki Murakami, Kafka sulla spiaggia). Le nostre parole sono spesso divisive, mentre la realtà è una: «Come vorrei che tu potessi vedere come tutto è collegato, come ogni cosa, ogni evento persona respiro pensiero sogno, ogni cosa è unita, per vie sconosciute, ad ogni altra cosa. Così i vivi con i morti, il presente al passato ed al futuro, io con te e tu con me, lo schiudersi di un fiore ad una nuvola che passa. Qui, ed altrove» (Luca Toschi, Qui e Altrove, inedito). Unire, anche attraverso il linguaggio, credo sia la nostra vocazione sulla terra: unire le diversità o differenze, ciò che rende il mondo “bello”.

Cosicché, come scriveva Dietrich Bonhoeffer, «Quale liberazione è poter pensare e conservare nel pensiero la pluridimensionalità. (...) La vita non viene ridotta a una sola dimensione ma resta pluridimensionale, polifonica».

Insomma, c’è da lavorare. Fare Pasqua, oggi, mi sembra questo.

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