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Teologia, fede popolare, controllo sociale

Teologia, fede popolare, controllo sociale

Tratto da: Adista Documenti n° 31 del 17/09/2022

La riscoperta della categoria di “popolo”, che unifica il Concilio Vaticano II e il pontificato di Francesco, non è priva di questioni. Soprattutto perché “popolo”, non solo in politica, ma anche il teologia, si presta a letture meramente formali, a interpretazioni “populistiche” e a mistificazioni non piccole. La importanza di un “fede popolare” e il rischio di una fede “autoreferenziale”, puramente proiettiva, mimetica o soltanto emotiva, sono dati evidenti di una tradizione “moderna”.

In tutto questo gioca un ruolo essenziale la esperienza del “sacro”, che può diventare per il popolo la più grande apertura o la chiusura più ermetica. Sacro e culto, sacro e vita vivono di luce riflessa. Perciò una equilibrata comprensione di che cosa sia il “sacro” ci può aiutare a discernere le questioni.

Il sacro e i suoi volti plurali

Che vi sia un legame molto stretto tra il “sacro” e la liturgia sembra una cosa ovvia. Ma noi non capiremmo nulla né del Concilio Vaticano II né della azione rituale cristiana se lasciassimo la parola soltanto al “sentimento del sacro”, o al “senso del mistero”, che è cosa molto importante, ma anche molto pericolosa. Come Dio, il sacro è allo stesso tempo affascinante e tremendo. Perché? Per il fatto che tocca ciò che è “indisponibile”. Sacro è ciò che ci sovrasta e che non possiamo controllare. Sacro è il fuoco, l’acqua, la legge, la vita, il sangue, l’amore. Ma sacro diventa facilmente anche un “apparato” di persone, di gesti, di simboli, di norme, di condotte, di pensieri. Così nulla è per noi così salutare come riconoscere ciò che è sacro, ma nulla è così pericoloso come sacralizzare ciò che non lo è. Per questo la fede popolare può essere il luogo di questo discernimento e di questa tentazione “sacralizzante”.

Le diverse forme del sacro della fede popolare

Questa premessa è decisiva, perché ci insegna una prima cosa importante: la liturgia è la esperienza “sacra” della fede, perché ritorna a ciò che è primario, che è primordiale e in cui incontriamo il mistero del Dio di Gesù Cristo, il mistero di amore e di misericordia che custodisce ogni umano e ogni vivente. Questo è stato il primo e fondamentale obiettivo del Concilio Vaticano II: dire di nuovo, con un linguaggio più immediato e più diretto, le 4 grandi esperienza con cui uomini e donne incontrano il “sacro” del Dio che è “mistero di culto”, che è “parola di vita”, che è “comunità sacerdotale” e che è “spirito nel mondo”. Quello che intendiamo oggi, quando parliamo di “sacro”, deve abbracciare, nello stesso tempo, queste quattro grandi esperienze, che nel Vaticano II sono state espresse, con la massima autorevolezza, nelle 4 Costituzioni conciliari.

a) Sacrosanctum Concilium, che ha nel titolo il termine stesso di “sacro”, rilegge con grande sapienza il “culmine” e la “fonte” di tutta l’azione ecclesiale: tutto inizia e tutto finisce nella azione liturgica, da intendersi come azione di Cristo e della Chiesa.

 b) Dei Verbum, che incontra la parola come quella esperienza “sacra” di profezia, di sapienza e di comandamento che realizza in Cristo la sua pienezza e manifesta il disegno di amore di Dio.

c) Lumen Gentium, che delinea, nella luce di Cristo, la forma ecclesiale di ascolto e di celebrazione, che diventa istituzione e movimento, custodia e missione, fedeltà e creatività, comunione e obbedienza.

d) Gaudium et Spes, che apre uno sguardo al mistero di Dio che si fa “segno dei tempi”, mutamento culturale, forma istituzionale, riconoscimento del soggetto, dignità del lavoro, lavoro politico, uguaglianza sociale e non discriminazione di genere.

Guai se dimenticassimo che il “sacro” attraversa tutta intera questa linea di orizzonte complessivo, nella quale Dio si manifesta più come brezza leggera che come terremoto. E che ci spinge, perciò, a precisare la “sacralità” anche delle nostre forme rituali, come ha fatto la più grande recezione del Concilio Vaticano II, ossia la Riforma liturgica. Di questo ha sete la fede popolare.

Il sacro dell’azione rituale: apparenza e realtà

Una purificazione del sacro rituale è diventato un compito non facile e non immediato, che le prime due generazioni dopo il Concilio hanno realizzato anzitutto con lo schema necessario della “riforma”. Riformando i riti preconciliari, noi abbiamo voluto precisare l’esperienza del sacro, senza snaturarne né il linguaggio né la potenza. Possiamo allora chiederci: che cosa è accaduto?

Lo sviluppo storico, soprattutto a partire dal medioevo, ma soprattutto dopo il Concilio di Trento, aveva generato una serie di equivoci:

a) Il “sacro” sembrava affidato ad un “primato dei chierici” che tendevano a sequestrare la liturgia come “proprio compito” e “propria competenza”

b) Il “sacro” creava perciò una certa “separazione” interna alla Chiesa, ma anche interna alla vita spirituale, alla organizzazione sociale, alla distribuzione dei compiti e alla esclusione dei soggetti

c) Questa esperienza del “sacro” funzionava anche in modo capovolto: ossia sacralizzava anche nella Chiesa delle forme di sacralità che erano culturali, sociali, familiari, politiche.

d) Questo è il caso di molta parte della “religiosità popolare” dove al passaggio dalla cultura a Cristo, si sostituisce spesso il passaggio da Cristo alla cultura. Si sacralizza l’ordine sociale, il potere familiare, la gerarchia civile, il pregiudizio e la paura.

Il “sacrosanto” della riforma liturgica

La lettura che della liturgia propone SC, e che poi la Riforma inizia ad attuare, è sorprendente, perché rielabora l’esperienza del sacro in un modo originario:

a) Il sacro è custodito da una azione i cui soggetti sono, allo stesso tempo, Cristo e la Chiesa. Tutti i ministri sono semplicemente al servizio del primo e della seconda. Tutti celebrano, alcuni sono ministri, uno solo presiede. Ma non c’è una “casta sacra” separata!

b) Tale azione rituale esige perciò una “partecipazione attiva” di tutta la comunità alla azione del Signore. Così la liturgia può essere riconosciuta come “linguaggio comune” a tutti i battezzati, che a loro volta si riconoscono come “parte del mistero che celebrano”.

c) L’azione rituale è un insieme complesso di linguaggi, verbali e non verbali, mediante i quali la Chiesa, in tutte le sue componenti, fa esperienza del mistero del culto e allo stesso tempo esprime la propria fede.

Un sacro più ampio e che non fa preferenza di persone

La riforma liturgica ci ha fornito, in questi 60 anni dal Concilio, i primi strumenti per recuperare del sacro una nozione più ampia, senza preferenze e più dettagliata.

a) È anzitutto più ampia, perché trova nella azione rituale non solo la relazione con il Signore nella parola e nel rito liturgico, ma fa esperienza anche della relazione ecclesiale e della cultura comune. La liturgia non si isola né dalla parola, della quale vive, né dalla vita ecclesiale, che alimenta e ispira, né dalla vita comune, dalla quale viene e alla quale ritorna. Il sacro non è autoreferenziale, ma mette in comunicazione mondi vitali diversi.

b) Come Dio non fa preferenze di persona, così il sacro: tutti vi accedono, purché si lascino “iniziare da Cristo e dalla Chiesa”, imparando il linguaggio del dialogo che Dio intreccia con il suo popolo. Tutte le azioni sono “comuni”: il Signore invita tutti alla sua mensa, della parola e dell’eucaristia, della lode e della supplica, del perdono e del rendimento di grazie. Non c’è “marginalità”, ma “liminalità rituale”.

c) Tutti partecipano alla azione, non solo alla sua comprensione o ai suoi effetti. Il mistero sacro di un Dio che si fa vicino all’uomo, fino a farsi come lui, non è mai solo una dottrina o una disciplina. È una azione comune, di linguaggi verbali e non verbali, che permette di vivere una comunione “per Cristo, con Cristo e in Cristo” nella forma più solenne di un unico pane spezzato e di un unico calice condiviso.

Il cammino che da Sacrosanctum Concilium arriva fino a noi è un percorso di grandi speranze: una esperienza del “sacro” che capovolge la piramide ecclesiale, che è solo proiezione di forme sociali, non rinuncia alla tradizione rituale, ma la riscopre nella sua vocazione più autentica. Non come un “linguaggio da iniziati” che separa, che oppone, che esclude, ma come una “iniziazione condivisa”, che costruisce una “comunità sacerdotale”. L’unico sacerdote, il Signore Gesù, dona a tutti la profezia, la autorità e il sacerdozio, perché la sua vita diventi la nostra vita. In ogni atto liturgico facciamo sempre esperienza di questo “sacro” sorprendente: il Figlio di Dio che muore sulla croce e risorge rende i credenti tutti ugualmente figli e figlie dello stesso Padre, e tutti diversamente fratelli e sorelle nell’unico Spirito.

Questa è una possibilità grande della fede popolare, ma è anche la sua tentazione, quando la declinazione “popolare” delle devozioni inclina piuttosto alle affermazioni di “logiche piramidali” in cui il sacro del mistero che si rivela diventa la indebita sacralizzazione delle dipendenze personali, economiche e politiche. La serietà dell’irruzione del mistero nella vita di tutti i fedeli chiede l’accurato esercizio di un discernimento vigilante, perché la fede non diventi superstizione, oscurantismo, fuga consolatoria dalle questioni o addirittura sublimazione e rimozione delle ingiustizie. 

Andrea Grillo è docente di Teologia dei Sacramenti e Filosofia della Religione al Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma, Andrea Grillo insegna Liturgia presso l’Abbazia di Santa Giustina, a Padova; è saggista e blogger (www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non/).

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