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Parole a margine. Margine

Parole a margine. Margine

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 34 del 08/10/2022

Le parole a margine, quelle scritte sui bordi della pagina. Annotate , risucchiate dal testo e messe in salvo. Le parole scritte a matita, accompagnate dalla grammatica della punteggiatura. Un punto esclamativo, se è una parola ritrovata, quella che aspettavamo apparire prima o dopo all’orizzonte. Oppure un punto interrogativo a volerle come indagare, rovesciare a gambe all’aria. Le parole marginali o emarginate. Le parole fragili o quelle prestate al potere o alla guerra.

Le parole che non si scrivono mai, e rimangono sepolte per millenni. Quelle abusate, con il corpo ferito, ridotte al vergognoso silenzio. Le parole belle, in cui ti specchi, appassionate che vorresti farci l’amore. E quelle che non vorresti sentire mai, perché ti colpiscono come una granata, un colpo di cannone contro la bellezza.

Allora eccola la prima parola: margine.

Da “margo” che significava orlo, oppure confine. Parole limitate o limitanti. Ma anche parole come frontiera. Parola emancipate, che ti portano avanti, parole che aprono mondi , e che al solo pronunciale aprono le porte del cielo. Parole che passano frontiere inaccessibili sotto le porte chiuse, esattamente in quello spiraglio di luce. «La marginalità è un luogo radicale di possibilità, uno spazio di resistenza. Un luogo capace di offrirci la condizione di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi»: cosi scrive bell hooks in Una pedagogia della speranza.

E poi nella parola mar-gine , per assonanza, se non per etimo, c’è la parola mare. Il mare che è nel colore degli occhi, nel suo canto, che ascolti dalla conchiglia posata all’orecchio. Il mare è nel tumulto che senti dentro.

Perfino dopo i naufragi si stendono le parole al sole, per ricominciare a dire la vita. Le parole infatti sono parole d’acqua, sono pesci guizzanti, che scappano dalla rete, liberi, luminosi…

Parole: le prime dette. Imparate come suono, dondolio del corpo. Parole in cui chiamare a raccolta le cose perdute. Parole lasciate al bordo del lenzuolo quando si muore, consegnate, lanciate in aria oltre la morte, che se ne può fare un vestito da sposa. Parole diritte, davanti al potere, che non si piegano, non si inchinano, e stanno ferme, perenni, nel “per sempre” della loro libertà. Parole resistenti, sobrie. Parole di pioggia e di sole. Parole brevi come un lampo e parole lunghe, come le notti, che non finiscono mai. Parole di mia madre infilate dentro la valigia prima di prendere il barcone e affogare nel mare. Parole che mi cullano nel mio inguaribile dolore. Parole leggere, con le ali. E altre dure come la pietra.

Parole che curano, come quelle della poesia. Parole, che la politica sembra aver perduto e che vorrei invece sentire tutti i giorni nelle strade, nelle città. Parole cantate, quanto finisce una guerra. Danzate sotto un temporale.

Parole a margine. Di queste saremo cercatori e cercatrici in questo angolo di carta, in un giornale, che sulle parole ha scommesso, ha creduto: nella loro altezza, nella loro fragile foglia. Parole di protesta, spesso, gridate dai tetti. O sussurrate piano, come un soffio per asciugar le ferite. Di parole si tratta. “Minime e immense”. Parole a margine, cioè al centro di noi… 

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