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Giancarlo Martini: a Pallanza, il clericalismo punisce la sinodalità

Giancarlo Martini: a Pallanza, il clericalismo punisce la sinodalità

Tratto da: Adista Notizie n° 40 del 26/11/2022

41284 PALLANZA (VB)-ADISTA. È trascorso un anno da quando alla comunità di Santo Stefano, nella omonima parrocchia di Pallanza, è stata imposta dal proprio vescovo (di Novara), mons. Franco Giulio Brambilla, una sorta di “omologazione liturgica”, azzerando di fatto il lavoro di rinnovamento del linguaggio avviato da decenni, sulla scia del Concilio, per renderlo davvero comprensibile alle donne e agli uomini di oggi (v. Adista Notizie n. 42/21).

Nulla di eversivo o di eterodosso: la comunità – che non è una Comunità di Base “classica”, ma è pienamente inserita nella parrocchia – si limitava ad adottare, durante la celebrazione eucaristica, alcuni testi ecologici (colletta, preghiera offertoriale, prefazio, preghiera dopo la comunione) “autoprodotti”, oltre alla preghiera penitenziale e alle preghiere dei fedeli diverse da “quelle del foglietto”. Atto grave, secondo il vescovo: «non è consentito in alcun modo né al vescovo, né al sacerdote, né ai laici alterare o manomettere, tanto meno scrivere di nuovo, nessuna orazione e prefazio dell’eucologia, poiché si tratta del cuore della preghiera liturgica, che non è nostra, ma della Chiesa madre», scriveva nella notificazione del 3 ottobre 2021 mons. Brambilla, che pure nel 1989, prima della consacrazione e della nomina episcopale, aveva sottoscritto la famosa “lettera ai cristiani” dei 63 teologi italiani in cui manifestavano il disagio per le spinte regressive che attraversavano la Chiesa cattolica (v. Adista n. 38/89).

Gli unici elementi sfuggiti alla censura episcopale che sopravvivono nell’eucaristia domenicale parrocchiale – a cui la comunità continua a partecipare regolarmente – sono le preghiere dei fedeli e la preghiera penitenziale, quest’ultima però previo il nihil obstat del parroco. Abbiamo intervistato Giancarlo Martini, uno dei componenti della comunità di Santo Stefano.

È passato poco più di un anno dalla notifica del vescovo. Cosa è accaduto intanto?

Dal giorno della notifica non è più possibile utilizzare i testi eucologici (colletta, preghiera offertoriale, prefazio, preghiera dopo la comunione) predisposti dalla nostra comunità, peraltro all’interno di quel cammino, percorso da molte parrocchie e che dura da oltre cinquant’anni, di rinnovamento del linguaggio liturgico, per renderlo udibile e comprensibile alle donne e agli uomini di oggi. Inoltre ci è stato imposto anche di interrompere l’esperienza, portata avanti da più di dieci anni, del prendere la parola durante la liturgia: una persona della comunità, dopo la lettura del Vangelo e prima dell’omelia del prete, offriva un proprio contributo.

Era un importante elemento di protagonismo battesimale ed ecclesiale…

Il prendere la parola è stata l’esperienza che più ha fatto sentire le persone di essere davvero celebranti. Il non sentirci più celebranti, ma solo spettatori o tuttalpiù fruitori di un servizio è forse il frutto più amaro di quanto avvenuto. Da allora il prete di turno – spesso si sono alternati durante l’anno tre diversi presbiteri, ognuno evidentemente con la propria sensibilità e apertura – non ha più presieduto la celebrazione della comunità, non si è messo più nella postura di colui che è chiamato a far sì che la comunità celebri e partecipi, ma ha assunto soprattutto il ruolo del celebrante di fronte alla comunità.

Quale è stata la vostra risposta, per cercare di salvare il cammino di questi anni?

Abbiamo cercato durante quest’anno di impedire l’azzeramento della nostra esperienza, inserendo nel foglio che predisponiamo per la celebrazione dell’eucaristia domenicale un breve commento scritto da una persona della comunità e prendendo la parola durante la preghiera dei fedeli. Purtroppo tutto questo impegno si inserisce in un contesto generale che va in tutt’altra direzione, dato il ruolo preponderante del prete, da cui dipende in larga misura l’atmosfera che si respira durante la celebrazione.

Tutto questo succede proprio mentre la Chiesa italiana, insieme a quella universale, dovrebbe essere in pieno cammino sinodale, fra l’altro sul tema della sinodalità: un bel paradosso!

Infatti è stupefacente o quanto meno singolare che la brusca frenata al nostro cammino ci sia stata imposta proprio nel momento in cui la Chiesa italiana promuoveva la prima fase di un cammino sinodale, «un biennio di ascolto di ciò che lo Spirito dice alle Chiese attraverso la consultazione del popolo di Dio nella maggiore ampiezza e capillarità possibile», «coinvolgendo il più possibile anche persone che non sono e non si sentono “parte attiva” della comunità cristiana». Credo che sia difficile poter immaginare un’esperienza tanto contraria alla sinodaltà, al camminare insieme, quanto quella che a noi è capitato di vivere. Come ben sappiamo lo stile sinodale non è qualcosa di marginale nella vita di una comunità cristiana. Come ha affermato papa Francesco «la sinodalità, il camminare insieme, è dimensione costitutiva della Chiesa, è la via costitutiva della comunità cristiana».

Fra i tanti, il nodo sembra essere quello del clericalismo?

Come da prassi consolidata il nuovo parroco ci è stato assegnato senza alcuna forma di previa consultazione, paracadutato dall’alto e, prima ancora di insediarsi, non solo non si è messo nella disposizione di un ascolto attento e prolungato del cammino fatto dalla nostra comunità, ma ha richiesto l’intervento dell’autorità per interrompere quel poderoso lavoro di aggiornamento delle preghiere liturgiche iniziato con passione da don Giacomini nei primissimi anni ‘70 e proseguito successivamente. Inoltre si è provveduto ad allontanare qualunque prete che in qualsiasi forma avesse condiviso il nostro cammino, addirittura esonerando per telefono un prete novantenne dal presiedere le nostre eucaristie. E, come facilmente è comprensibile, senza la presenza di un prete che favorisca o perlomeno non ostacoli il cammino, nella Chiesa istituzione si chiudono tutti gli spazi. Certo rimangono aperti spazi di cammino comune fuori dalle chiese, nelle nostre case, che da tempo stiamo percorrendo, ma si tratta di un’altra cosa

Cosa bisognerebbe fare?

ooSarebbe necessario un confronto aperto, ricco di ascolto e di parresia, sui grandi orientamenti che dovrebbero guidare il cammino di una comunità fraterna in cui tutti sono discepoli dell’unico maestro, sul modo di concepire la comunità e i ministeri (piramide rovesciata), sul persistente e inscalfibile clericalismo di preti e laici, sul modo di concepire e vivere la liturgia e la centralità delle Scritture, sul modo di intendere l’unità non come uniformità appiattente imposta dall’alto ma come valorizzazione delle ricchezze espresse da ogni comunità, sul modo di concepire il rapporto tra comunità ecclesiale e la città in cui è inserita e di cui fa parte, per vivere e testimoniare l’essere con e per gli altri. Sarebbe infine necessario che venisse chiesto scusa al prete novantenne, al quale tredici mesi fa è stato burocraticamente e poco umanamente comunicato per telefono di essere esonerato dal presiedere le nostre eucaristie. È il minimo che si possa chiedere a chi si professa credente in un Dio il cui volto si è manifestato nell’umanità di Gesù.

*Foto presa da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza 

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