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Comunità Loyola: unica strada, la dissoluzione

Comunità Loyola: unica strada, la dissoluzione

Tratto da: Adista Documenti n° 42 del 09/12/2023

Qui l'introduzione a questo testo. 

L'obiettivo di questa riflessione è dar voce al “silenzio afono” che abbiamo denunciato rispetto al modo in cui le varie istanze della Chiesa hanno reagito alla denuncia degli abusi perpetrati da M. Rupnik e Ivanka Hosta durante più di trent’anni. La realtà di tali abusi è una realtà che ancora avvolge e schiaccia molta parte non solo della storia passata delle sorelle della Comunità Loyola, ma soprattutto del loro presente in varie forme, e ancor più problematicamente compromette il loro futuro. Mi sembra che questa opportunità debba essere anche usata per riflettere sulle modalità in cui l’abuso si è prodotto e realizzato, per fare, cioè, una specie di metanalisi del fenomeno, e non limitarsi soltanto alla narrativa delle storie individuali.

Perciò partirò da un primo aspetto che a me personalmente sta molto a cuore, sia dal punto di vista della ricerca psicologica che di quello dell'esperienza personale, cioè dal fatto che l'abuso, anche nelle sue forme più devastanti, è principalmente abuso psicologico, che eventualmente poi può sfociare anche in un abuso sessuale. La situazione della Comunità Loyola da questo punto di vista è emblematica: certo, la parte più mediatica delle vicende di alcune ex-religiose che hanno denunciato anche pubblicamente gli abusi subiti, è stata caratterizzata dallo svelare le vicende e il modo di procedere di Rupnik (che non hanno toccato solo la comunità, come è chiaro dalle conclusioni del team referente dei gesuiti, che ha riferito in comunicato ufficiale che 15 nuove accuse sono venute da altre persone, coprendo un arco temporale molto più ampio di quello che le religiose della Comunità Loyola avevano segnalato fino al 1993). Tuttavia, la storia della comunità e la sua esperienza è emblematica perché ancora dopo l’influenza di Rupnik ha continuato a vivere in un clima di abuso spirituale e psicologico costante da parte della superiora generale e fondatrice e di tutte quelle religiose che più profondamente ne hanno assorbito e fatto propri i contenuti, i metodi e le finalità di quello che si considerava il carisma stesso della comunità. Questo è quanto sottolineato e verificato attualmente anche dal processo di commissariamento realizzato tra il 2020 e il 2022.

A partire da una prima indagine e un tentativo di modificare lo stile di vita della comunità dell’arcivescovo di Lubiana, come responsabile della stessa comunità di diritto diocesano, ha poi avuto luogo una visita canonica da parte di un commissario nominato dall’arcivescovo. A partire dal 2018 la comunità è stata sottoposta a una serie di visite apostoliche, cioè di interventi prima dell’arcivescovo che ne è il responsabile più diretto (perché la comunità, nata in Slovenia e poi sparsa per il mondo rimane di diritto diocesano) e successivamente di un commissario. Dopo questo primo intervento, a causa del rifiuto da parte di Ivanka Hosta di recepire le indicazioni di riforma delle costituzioni e conseguentemente della struttura e del clima relazionale all’interno della comunità, si avanza con un commissariamento affidato al vescovo ausiliare della diocesi di Roma, mons. Libanori, che in quanto elemento esterno doveva permettere di dialogare con la comunità e dentro la comunità, dato che le posizioni al riguardo dei temi e delle riforme da realizzare non erano egualmente riconosciute da tutte le religiose.

Quello che tuttavia ha limitato, dal mio punto di vista, l’efficacia e la possibilità di dar voce alle vittime, durante questo commissariamento, è il fatto che allo stesso tempo chi doveva avere uno sguardo esterno è un vescovo italiano, di formazione ignaziana che poteva facilmente essere limitato nel suo operato (come del resto è accaduto), sia per le influenze di sostenitori di Rupnik (come il card. De Donatis) sia degli ambienti della Compagnia di Gesù. Mi soffermo su questi aspetti perché quello che doveva essere uno sguardo dall’esterno e perciò più neutro e super partes, probabilmente lo è solo formalmente. Abbiamo un unico commissario, non affiancato da altri soggetti esterni, come in altri casi è avvenuto (cfr. Bose, Legionari di Cristo, etc.), che in qualche modo è l'interlocutore in Italia più diretto della casa generalizia della Comunità Loyola, e quindi della fondatrice che è anche la responsabile generale. Quindi questo sguardo dall'esterno riguardo a una serie di esperienze e problematiche relazionali, sull’esercizio della responsabilità nella comunità, su fatti che erano stati segnalati come problematici e poi successivamente riconosciuti come abusi di potere, si è a un certo punto confuso e arenato sullo scandalo del caso Rupnik. In base a ciò che sappiamo essere successo negli anni ‘80-‘90 per la presenza e l’intervento di Rupnik nella struttura e organizzazione della comunità, ci si aspetterebbe che, una volta allontanato dalla comunità, questa avesse potuto fare l'esperienza di un nuovo inizio. Sia la responsabile generale riconosciuta come fondatrice della comunità, sia eventualmente sorelle che c'erano all'epoca avrebbero avuto l'opportunità di ripensare e di ricominciare con basi diverse il loro percorso. Invece quella prima esperienza d'abuso è stato il terreno fertile su cui si è strutturata una dinamica non solo, per così dire, giuridica, cioè quello che poi ha portato alla struttura delle costituzioni e agli aspetti più complicati e più decisamente preconciliari delle proprie costituzioni, ma anche nella dinamica quotidiana della vita delle piccole comunità, in cui la struttura profondamente verticistica e rigida delle relazioni coesisteva con una apparente freschezza e novità di struttura (le comunità erano formate da tre-quattro persone, vivevano in piccoli appartamenti in affitto o ceduti dalla diocesi), costituendo un nuovo modo di inserirsi nella struttura ecclesiale e sociale, attraverso il lavoro personale e senza opere specifiche.

Questo fenomeno è stato comune a vari movimenti tra gli anni ‘70 e ‘90, a nuove forme di consacrazione che non erano propriamente vita religiosa, ma proponevano una forma di vita laicale in comunità. Con la Comunità Loyola si voleva realizzare una forma di vita religiosa ma con una struttura più flessibile, fra la gente. Quindi troviamo sullo stesso piano qualcosa di totalmente nuovo che tuttavia si innesta su una struttura implicita estremamente abusiva, controllante e rigida.

Che cosa ne è oggi di questa comunità? Sta prendendo coscienza, a molti livelli, della realtà; che quello che, cioè, ci aveva entusiasmato, che aveva attratto giovani e anche vescovi che l’avevano accolta nelle diocesi, e presbiteri amici non è ciò che sembrava. Abbiamo cominciato ad averne coscienza attraverso il commissariamento; abbiamo completamente compreso che il malessere di molte religiose della comunità, le difficoltà sempre più pesanti nelle relazioni interpersonali avevano una causa molto precisa: l’abuso e la manipolazione; la volontà deliberata di Ivanka Hosta di dividerci, di metterci in contrasto e in competizione le une con le altre, per meglio controllarci e portare a termine il suo progetto di comunità disponibile alla Chiesa; salvo poi imputare a ciascuna la responsabilità di non vivere il “carisma”, di non essere sufficientemente disponibile, sufficientemente in comunione, sufficientemente “povera” delle proprie idee, desideri, visioni della realtà e della missione.

Tuttavia, la grande speranza che il commissariamento aveva suscitato; la speranza che finalmente si sarebbe fatta verità, si sarebbe potuto comprendere insieme il passato, per cercare vie autentiche di futuro, è durata poco. Per me solo alcune settimane. Giusto il tempo di vedere riconosciuta la difficoltà di relazionarsi e non essere più semplicemente stigmatizzata come l'elemento problematico dentro a una struttura che per il resto era perfetta.

Dunque, il primo passo è stato poter riconoscere almeno tra alcune delle religiose della comunità che il problema non è il singolo, perché alla fine tutte eravamo il problema. Riconoscere semplicemente la forma con cui ci relazionavamo e il modo con cui si esercitava anche il servizio della responsabilità era una maniera che impediva di conoscersi davvero, di comunicare in forma diretta e trasparente anche le proprie difficoltà.

Questo che cosa ci dice pertanto dell'abuso? Che si insinua anche in situazioni dove apparentemente non lo immagineremmo; forse così come vediamo anche nelle relazioni di intimità, nelle coppie. L'aspetto sistemico dell’abuso dice proprio questo, che non è solo relativo al sistema ecclesiale, forse piuttosto è il segno di un sistema culturale. Nella forma molto più infelicemente diffusa di abuso di potere, di abuso psicologico in famiglia possiamo trovare molte volte le stesse dinamiche; famiglie che apparentemente sembrano molto armoniche, molto strutturate, e che, al contrario, nelle pieghe più profonde delle loro relazioni, a volte anche trigenerazionali, si trasmettono ferite molto profonde che si manifestano in comportamenti e relazioni coercitive, violente. Tali ferite relazionali non giustificano e neppure possono essere considerate la causa diretta dell'abuso, ma sfociano in una dinamica estremamente dolorosa per tutti i membri.

Ciò che è successo e sta ancora succedendo nella Comunità Loyola è qualcosa di molto simile a tali dinamiche. La difficoltà per alcune delle religiose di riconoscere che c'è stato un abuso significa che c'è un abuso ancora in atto; la difficoltà per una grande parte delle sorelle di accettare che c'è un dolore molto profondo in tutte e il rifiuto di prenderne coscienza, la negazione di questo dolore, dipende dalla dipendenza sviluppata rispetto a Ivanka Hosta e dalla lealtà perversa nei confronti di chi mantiene la presa sulle loro coscienze. D’altra parte, è difficile a cinquanta, sessant’anni e dopo venti o trent’anni (o anche meno) di vita in comunità riorganizzarsi, non solo dal punto di vista pratico ma anche dal punto di vista della rilettura della propria storia di vita. Ricomprendere il passato, le motivazioni della propria scelta, ma anche la propria storia di vita rispetto ai nuovi orizzonti che si aprono. Perché c'è un progetto, c'è un desiderio più o meno cosciente, organizzato che ci ha orientati. Ma quando questo progetto in qualche modo diventa perverso o si spezza, siamo chiamati a vivere il lutto per quello che abbiamo perso, ma, allo stesso tempo, a una ricomprensione del cammino verso il futuro. Penso che per tutte noi (non penso di usurpare la voce personale delle varie sorelle) si trattasse di una scelta personale e per quello che ci era dato di capire in quel momento voluta in modo cosciente. Tuttavia, nel percorso ci sono state varie infiltrazioni manipolative, a vari livelli che si sono sovrapposte in ognuna alla sua storia specifica. Ognuna veniva anche da una storia personale particolare e da una propria ricerca personale. Ora, in uno spazio di tempo così corto (perché stiamo parlando di un processo che comincia nel 2018 e in una forma non sempre esplicita, chiara) è necessario fare questo processo di riorientamento personale ma anche del cammino comune. E nessuno ha aiutato le religiose e sta aiutando a realizzarlo. Anzi, il silenzio e la non decisione sul futuro della comunità e delle singole persone, da più di un anno e mezzo, sono un ostacolo a questo cammino; al di là del fatto che stanno, in certo modo, rappresentando una ulteriore forma di abuso da parte delle strutture ecclesiali, principalmente del Dicastero per la vita religiosa, che dovrebbe firmare il decreto di scioglimento della Comunità, ma tace.

Un altro aspetto rilevante è che osserviamo un forte parallelismo fra l’atteggiamento di Rupnik, che si ritiene una vittima di calunnia, che non dialoga né con i suoi superiori né tanto meno con le vittime, e l’atteggiamento di Ivanka Hosta. Anche lei si ritiene una vittima di calunnia e di persecuzione da parte della Chiesa; anche lei non ha minimamente collaborato con il commissario; anche lei, come sempre, non dialoga con le consorelle. Sembra dunque che entrambi sperino passivamente e silenziosamente che tutto il processo si concluda per continuare esattamente dal punto dove eravamo rimasti, come se niente fosse accaduto.

Una visione del tutto illusoria, perché in questo momento la grande domanda che si pone è chi riconoscerebbe mai questa comunità le cui costituzioni sono state dichiarate invalide, per degli aspetti fondamentali che avallano l’abuso spirituale e psicologico, come la non separazione tra foro interno (direzione spirituale) e foro esterno (la superiora è guida spirituale della comunità; i ritiri spirituali si devono realizzare solamente all’interno della comunità; apertura di coscienza obbligatoria con i superiori) e di cui non si riconosce nessun carisma specifico. Sono aspetti che il Diritto canonico non autorizza e che rendono tali costituzioni profondamente invalide; ammettendo allo stesso tempo pratiche esagerate di controllo non solo non rispettose delle persone, ma non rispettose della loro dignità, della loro libertà di coscienza.

Un altro aspetto molto rilevante in questa storia è che le costituzioni sono state riconosciute dall’allora Congregazione per la vita religiosa (oggi Dicastero) e approvate nel ’94. Oggi la stessa istituzione le denuncia come profondamente inadeguate e da rifare; oltre al fatto che più volte ha detto che non riconosce realmente un carisma originale nella Comunità Loyola. Ora la domanda è legittima: trent'anni fa chi ha letto quel testo e come lo ha letto? Perché l’ha approvato? Quell’organismo ordinario poteva prevenire l’abuso, autorizzando oppure no una certa forma di vita religiosa. Abbiamo quindi uno strumento non eccezionale ma ordinario che può prevenire l'abuso, una vigilanza da esercitare non come controllo ma come salvaguardia dell'autenticità di queste nuove comunità che non ha saputo discernere. C'è un aspetto inquietante infatti in questo momento storico, e cioè il fatto che molte delle cosiddette nuove comunità, i grandi movimenti su cui la Chiesa aveva scommesso per il suo rinnovamento, sorti per lo più nel post-Concilio, si stanno rivelando, soprattutto in quest'ultimo decennio, delle realtà fortemente abusanti con vere e proprie derive settarie e con teologie molto distorte. Un tema che sarà da comprendere e approfondire nel futuro prossimo.

Un ultimo aspetto riguarda la responsabilità della Chiesa per le persone abusate; e in questo caso è una intera comunità. Cosa avverrà dopo la dissoluzione (si spera) della Comunità Loyola? Chi si assumerà la responsabilità di garantire una vita dignitosa a queste persone, che si ritrovano esposte a molti disagi? Come succede in un qualunque divorzio, nessuno potrà restituirci tutto quello che abbiamo investito non solo dal punto di vista economico, ma soprattutto esistenziale, spirituale; tuttavia, è necessario che qualcuno si prenda la responsabilità di accompagnare questo processo. In questo momento l'assetto della comunità è costituito da una grande divisione, da una grande dispersione interna che sta emergendo, e che rivela tutto quello che già c'era, un’estraneità profonda le une rispetto alle altre. Una solitudine che era stata semplicemente mantenuta dentro a un controllo totale; possiamo veramente parlare di una comunità che viveva come una istituzione totale (un concetto degli anni ‘70, che poi è anche sparito dalla ricerca psicosociale). L’istituzione totale non permette vere relazioni autentiche, ma solo relazioni di forza e tentativi degli individui di essere riconosciuti dal leader assoluto.

Oggi si rende visibile questa struttura e il fatto che in fondo non ci conoscevamo; forse con alcune ci stiamo conoscendo adesso. Ma nulla è scontato perché anche nel tempo abbiamo bisogno, come in un divorzio, di riordinare le nostre vite, di rifare le nostre categorie mentali. In questi ultimi tempi ci è capitato, in varie occasioni, di confrontarci e di non essere d'accordo su alcune decisioni o su alcune visioni. Molte non condividono la scelta di parlare con i media; di denunciare pubblicamente questa storia. Molte aspettano ancora una volta, nonostante tutte le non risposte, le coperture offerte all’abuso, giustizia e supporto dalla Chiesa, dai vescovi. Ci rendiamo conto che cambiare categorie mentali, cambiare il linguaggio che è anche l'espressione di una certa forma mentis, non è un fatto automatico e non basta allontanarsi, uscire dalla comunità perché ciò si realizzi.

C'è bisogno di fare un lavoro anche di presa di coscienza, perché si può essere già fuori da trent'anni ma continuare a vivere e pensare esattamente con le stesse categorie mentali della comunità. E la stessa forma di ripensare le relazioni anche all'interno o con persone che erano state vicine alla stessa esperienza.

Per finire, vorrei sottolineare la forza del silenzio. Abbiamo scelto questo titolo perché è la cosa più dolorosa che stiamo vivendo, emersa nella lettera aperta che abbiamo pubblicato a settembre, e con la quale siamo anche uscite dall’anonimato (v. Adista Segni Nuovi n. 32/23, ndr). È stata citata in apertura di questo webinar: faceva riferimento al silenzio che abbiamo sentito da parte di tutte le istituzioni a cui ci siamo rivolte. È stato un momento di grande sconforto e di grande indignazione, perché ci sembrava di essere invisibili sotto tutti gli aspetti, dopo aver cercato in vari modi e con grandi passi in vari contesti di presentare, descrivere e chiedere anche giustizia, ma soprattutto di veder fatta la verità su questa storia. E tuttavia tanto Rupnik come la fondatrice della comunità si sono chiusi in un silenzio che è diventato un silenzio non di fragilità ma di ricatto, e quindi una nuova forma di abuso.

In questo momento tuttavia c'è un altro silenzio, quello del Dicastero per la vita consacrata. Abbiamo già denunciato in vari modi che la comunità aspetta da un anno e mezzo di sapere quale sarà il suo futuro, ma non c’e alcuna risposta. Non solo tutto il processo del commissariamento è stato mantenuto in segreto, con solo qualche comunicato ogni tanto. Le persone non sono state attivamente coinvolte in questo processo. Si potrebbe obiettare che buona parte del commissariamento è avvenuta durante il periodo pandemico; quindi, eravamo impossibilitati a viaggiare e sono state limitate moltissimo le possibilità di incontri personali e comunitari. Però è anche vero che nonostante queste limitazioni, si sarebbe potuto coinvolgere molto di più i diretti interessati soprattutto nella prospettiva di fare una cosa che non avevano mai fatto e che hanno continuato a non fare: incontrarsi e dirsi cosa non va e ascoltarsi reciprocamente.

Pertanto, il silenzio, il segreto su questi processi mina la fiducia, e rende nuovamente deboli e manipolabili le persone. Ora ci aspettiamo una decisione, a breve. Che per Rupnik ci sia un processo, a breve; che ci sia chiarezza e trasparenza, per quanto possibile e nonostante le regole della vita ecclesiale e dei processi canonici. Sono procedure che impongono molti silenzi, non di autodifesa, bensì silenzi che preservino la vita privata delle persone e che possano permettere a tutti i coprotagonisti di questa storia (perché anche le vittime sono protagoniste in qualche modo, ma non nel senso che molti intendono, ossia che la vittima adulta è un complice) di comprendere ed essere ascoltati.

Vorrei concludere con la citazione di una frase riportata dall'arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, ricordando p. Pino Puglisi, (una le vittime più indifese della mafia degli anni ‘90 in Sicilia), Lorefice ha detto: «Ogni ricerca di potere è mafia, ovunque, anche nella Chiesa».

*Foto presa da Unslash, immagine orginale e licenza 

 

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