
Più forte ti scriverò. Caro Don Abbondio...
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 23 del 22/06/2024
Caro don Abbondio, l’arte del romanzo insegna che i personaggi nella trama si evolvono. Pensiamo all’Innominato! Ma anche fra’ Cristoforo, Lucia e perfino il focoso Renzo. Ma voi, per così dire, sembrate scivolare dentro le pagine senza mettere in atto un cambiamento. Manzoni vi guardava con una sorta di indulgenza, una specie di complice simpatia, forse per quella comicità involontaria che sprigionavate da ogni poro; come non potevate piacere all’Autore dei Promessi Sposi così raffinato e sottile nell’arte dell’umorismo?
Già il vostro incedere per quel viottolo nel quale apparite, il 7 novembre 1628, quasi nascondendovi dietro il breviario, per non incrociare il ceffo dei bravi, vi disegna per bene. «Don Abbondio non era nato con un cuor di leone». Eccovi bello che fotografato. Eravate insomma come «un vaso di coccio, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro»; rincara cosi la dose il vostro Autore. Ma sempre pronto a inchinarvi ai potenti, sempre pronto “a calar le…” come vi aveva detto Perpetua. La domanda che dovremmo farci è se voi siete così di vostro, o se siete il risultato di un “sistema” che confeziona i suoi prodotti a propria “immagine e somiglianza”.
Ai vostri tempi i “seminari” c’erano da una settantina d’anni. Il Concilio di Trento li aveva inventati. E uno dei più convinti assertori era Carlo Borromeo, il cugino del vostro cardinale Federico. Un loro successore a Milano secoli dopo dirà che «la Chiesa è rimasta indietro di duecento anni». Il suo nome, segnatevelo, è cardinale Martini.
*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza
Era un illuminato come lo fu il vostro cardinale. Ma non sono tutti così. Voi pensavate a non prendervi una schioppettata nel sedere, convinto che lui non ve l’avrebbe tolta, come avevate risposto al consiglio di Perpetua. Tanti “superiori”, come si dice, sono il prodotto della stessa “ditta” e a loro volta non vogliono schioppettate nel sedere. E come voi sono pronti a obbedire al sistema comandando.
Ma di quale umanità siamo fatti, don Abbondio? Perché si esce umani dal grembo della propria madre per disumanizzarsi poi, una volta entrati nello stomaco della Chiesa? Voi siete vissuto nel ‘600, ma Manzoni, che vi ha inventato, è vissuto due secoli più tardi e aveva visto certi effetti. Era amico di quell’Antonio Rosmini che avrebbe scritto Delle cinque piaghe della Santa Chiesa. Su cinque, tre sono queste: «La divisione del clero dal popolo nel culto pubblico, l'insufficiente educazione del clero, l'asservimento dei beni della Chiesa al potere politico». Quelle piaghe sono ancora aperte. Mentre oggi si sussurra a “porte chiuse” delle tendenze sessuali di chi vorrebbe farsi prete, sarebbe arrivato il tempo invece di discutere a “porte aperte” di quale Chiesa vogliamo. Forse di un altro Concilio, come lo sognava il famoso Martini di prima. E non fatto da uomini celibi di una certa età: ma da donne, giovani, filosofe e operai, poeti, e da quelli e quelle che la pensano diverso da noi. Che si parlasse finalmente della sessualità, degli affetti, liberando la Chiesa da obblighi inventati per mantenere in vita il sistema del potere clericale. Che non restasse la Chiesa una delle ultime roccaforti che teorizza di fatto la discriminazione della donna, non riconoscendole la parità di diritti. Continuando tuttavia a dare lezioni ex cathedra su quello che devono fare gli altri.
Caro don Abbondio, davanti al cardinale Federico, il Manzoni vi descrive come «come un pulcino negli artigli del falco».
Conosciamo la vostra teoria che «uno il coraggio non se lo può dare». E invece no, don Abbondio, questo è il tempo del coraggio. E su questo si misura la formazione di donne e uomini liberi. Coraggio esattamente da cor-cordis, come dice il vostro “latinorum”. Il coraggio di cambiare, di smantellare un sistema che ha fallito e spesso ha coperto abusi e ingiustizie; e continua a farlo. È il tempo della "rivoluzione dei vasi di coccio” come voi. Perché come disse un vostro illustre collega tre secoli più tardi, «l’obbedienza non è più una virtù».
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