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Il sinodo alla fase profetica

Il sinodo alla fase profetica

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 29 del 03/08/2024

No, il Sinodo non sta andando bene. Francesco ha presieduto in piazza Unità d’Italia a Trieste la messa a conclusione della 50.ma Settimana Sociale dei cattolici italiani, che proponeva un impegno forte di coerenza cristiana: «Dio si nasconde negli angoli scuri della vita e delle nostre città. L’infinito di Dio si cela nella miseria umana». Concelebrava con 98 vescovi (anche gli ortodossi serbo e greco e il pastore luterano) e 260 sacerdoti alla presenza di più di 8mila fedeli. È la vecchia Chiesa trionfante?

Non conosco la diocesi triestina, ma presumo di avere il polso del cattolicesimo italiano: ognuno di noi può farsene un’idea dalla conoscenza della sua parrocchia. Ancora abitudinaria, anche se scossa dalla contemporaneità: il covid ha insegnato che si può seguire la messa in tv in comunione forse mistica. Ma in quanto a ricerca di nuovo senso e perfino consolazione nell’impegno per il Sinodo siamo a quota zero.

Anche noi della minoranza progressista, oltre alla sintonia con i sinodali tedeschi, alla denuncia della pedofilia clericale (dignitas “finita”, ma anche l’assurdo staliniano di rimuovere i mosaici di Rupnik), all’impegno per la pace e la transizione ecologica, vediamo, un po’ stupiti, gli effetti dei tempi: i brasiliani che si sperimentano con l’algoritmo per diventare influenciadores digitais católicos, e gli americani della cancel culture che vorrebbero riscrivere la Bibbia. Sicuri nei dubbi, teologicamente affrontiamo i libri sul post-teismo e l’apocalittica delle religioni e il mistero del vuoto.

Eppure con il Sinodo è in questione, qui ed ora, la Chiesa del XXI secolo. Che si chama anche Vaticano – sia come “Stato Città del Vaticano” sia come Curia – e mantiene il dicastero del Sant’Uffizio, che, secondo Francesco, è arrivato a usare metodi immorali. Di necessità esiste anche la complessa gestione economica a giuridica. Il Papa non ha ritenuto – conoscendo bene le divisioni interne ormai ossificate – di mettere mano ai “fondamentali”, non quelli teologici, ma nemmeno tutti quelli strutturali, non meno importanti. Molti, anche nel clero, avrebbero voluto che ricorresse alla metaforica frusta contro i mercanti e consolidasse per legge un rinnovamento radicale. Forse ne avremmo contestato il decisionismo, ma il grande corpaccione istituzionale non è modificabile in un colpo solo e il riformismo costa, soprattutto quando i credenti, anche se qualcuno reclama i diritti del laicato, ignorano la complessità di riformare incrostazioni che sono penetrate in profondità nella struttura gestionale. Il riformismo nelle strutture complesse non ha il piè veloce. Christoph Theobald, in Un Concilio in incognito (ediz. Edb), prende in considerazione il valore conciliare di “questo” Sinodo come quello che deve tenere insieme lo Spirito e l’Istituzione, in cui va riposizionato anche il ministero gerarchico. La Chiesa è anche un organismo, anzi un’organizzazione che deve superare le patologie (a partire da quella clericale) cronicizzate nei duecento anni di ritardi citati da Martini, mantenendo comunque la costruzione pratica della propria architettura: abbiamo un bel dire che è modellata sul vangelo, ma ci sono anche i muri, di pietra e di carte.

Considerando la relazione della prima sessione, Severino Dianich scriveva sul Regno: «Grande sarebbe la delusione se al termine del cammino l’Assemblea sinodale non fosse capace di avanzare al papa proposte di riforma che rispondano alle questioni più sentite nel popolo di Dio e il papa non le accogliesse». L’ultimo, recente Instrumentum laboris della fase profetica non è andato oltre la dichiarazione del card. Grech che «i semi della Chiesa sinodale stanno già germogliando».

Ho sempre avuto grandi pretese nell’intento di schiodare la mia Chiesa dai postumi del tridentino, a partire dai diritti delle donne, anche se non sono mai stata una zelatrice del sacerdozio femminile finché il modello di riferimento è “questo” prete, e stimo l’agenda sinodale tedesca un buon punto di partenza per quella “libertà dei figli di Dio” che purtroppo non è solo occidentale. Noi della minoranza saremo pure il sale della terra, ma intanto siamo immersi in una società in cui il vangelo non è praticato da praticanti distratti dal ragionare della propria fede. Persiste, interna alla Chiesa, un’ignoranza serena e autosufficiente, ignara di dubbi o timori che rende ancora attuale il vecchio Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia curato da Alberto Melloni o anche un giudizio di Giovanni Filoramo sul cattolicesimo visto come «un abito vecchio e consunto ma necessario per coprire la nudità che, in ogni caso si deve occultare, che si indossa solo in alcune occasioni e non ha bisogno di radicarsi su un sostrato concernente i contenuti della fede».

Gli 8mila cattolici triestini avranno capito che il papa nell’omelia li richiamava a indagare sulla loro fede per tradurla in nuova pratica? «È una fede che sveglia le coscienze dal torpore, che mette il dito nelle piaghe della società, che suscita domande sul futuro dell’uomo e della storia; è una fede inquieta, che ci aiuta a vincere la mediocrità e l’accidia del cuore, che diventa una spina nella carne di una società spesso anestetizzata e stordita dal consumismo. È, soprattutto, una fede che spiazza i calcoli dell’egoismo umano, che denuncia il male, che punta il dito contro le ingiustizie, che disturba le trame di chi, all’ombra del potere, gioca sulla pelle dei deboli». E invitava i triestini a «diffondere il Vangelo della speranza, specialmente verso coloro che arrivano dalla rotta balcanica e verso tutti coloro che, nel corpo o nello spirito, hanno bisogno di essere incoraggiati e consolati». Tutti d’accordo, tutti buoni cattolici e buoni cittadini?

A margine un certo numero di sindaci richiedeva formalmente la presenza politica dei cattolici, come se i cattolici avessero un diritto di cittadinanza diverso da quello di tutti: di democrazie cristiane ne è bastata una. Intanto da buoni cristiani dovremmo pensare prima – è una richiesta del Sinodo – a un nuovo modello di casa del Signore, che comprenda l’essere anche istituzione.

La cultura del Concilio è ormai lontana per un clero i cui membri sono nati dopo la sua proclamazione, ma, alla luce della pastoralità ormai costume diffuso, resta la gestione materiale comunitaria e pubblica, anzi universale. Ne deploriamo l’impianto monarchico, ma nessuno si sogna di abolirlo come segno dell’unità e diritto/dovere della rappresentanza. Se deploriamo la gerarchizzazione come potere, bisognerà pure contare su strumenti efficienti per un funzionamento responsabile di un complesso dalle dimensioni enormi, che non conosce confini, ma è obbligato ad attraversare le frontiere.

Contro ogni regime di cristianità bisogna creare strutture compatibili con tradizioni sociologiche radicate e con i più diversi governi, che sappiano coniugare la parola di Dio, detta in lingue plurali, con la vita di oggi, anno di grazia 2024. Anche questo fa parte della “cura” per una Chiesa che incarna come può la fiducia delle sue genti. Con una “gerarchia” da rendere teologicamente più avvertita (Francesco ha rinnovato la Pontificia Accademia di Teologia per promuovere il dialogo tra fede e ragione), ma da rendere anche declericarizzata senza renderla incapace di fare il suo mestiere. Che non è più lo stesso, ma confessiamo difficile ridefinire entro un anno. È un Sinodo che va partecipato per costruire la nuova relazione con le cose di Dio: il Diritto Canonico sarà obsoleto, ma né i laici né tanto meno i preti prendono in mano le loro responsabilità e nessuno contesta formalmente almeno il celibato. Gli incontri come Francesco se li aspetta, dovrebbero essere “scandalosi”: non sovversivi ma nemmeno rassegnati al quieta non movere. Nel ’68, per porsi dalla parte degli immigrati si occupavano le chiese e la Settimana sociale ruppe, a Catania, l’inaugurazione autoritaria con la denuncia “la scuola è il nostro Vietnam”.

Oggi viviamo situazioni politiche internazionali di guerre, prevalgono i nazionalismi e i governi reazionari e non ci aspettiamo il meglio a breve. L’ospedale da campo deve attrezzarsi “dal basso” a fornire servizi d’urgenza e riabilitazioni faticose senza farsi frantumare dall’inerzia o dall’impazienza: i poteri forti fronteggiano i profeti. 

Giancarla Codrignani è giornalista, scrittrice e già parlamentare della Sinistra Indipendente

 

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