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“Diventare cosmopoliti per sopravvivere”. Debora Spini alla 60ma sessione del Sae

“Diventare cosmopoliti per sopravvivere”. Debora Spini alla 60ma sessione del Sae

CAMALDOLI (AR)-ADISTA. «La filosofa Elena Pulcini diceva dell’importanza della paura. Abbiamo bisogno di educarci a una paura che non ci porti al diniego, ma che possa mobilitare in noi anche quelle risorse cognitive che ci portino verso responsabilità, solidarietà, condivisione. Negli ultimi tempi della sua opera, Pulcini parlava molto della “paideia delle passioni”, la possibilità di educare politicamente le emozioni. La Sessione del Sae è un ottimo laboratorio di questa “paideia delle passioni”. È un esercizio di società civile che fa in modo di rendere comprensibili e operazionalizzabili queste conoscenze che altrimenti rimangono bloccate nel cervello e non arrivano alla nostra pancia».

Sono parole della politologa Debora Spini, della New York University in Florence, intervenuta lunedì al panel “Leggere la crisi, tra scienze e vissuti” a fianco dell’ecologo Marco Marchetti dell’Università “La Sapienza” di Roma.

«Le categorie con cui abbiamo letto la politica, con la crisi ambientale vanno in crisi. Alcuni concetti della cultura occidentale non sono più spendibili. Alcune delle certezze che erano come fari adesso non funzionano più. Il grande sociologo Ulrich Beck ha coniato l’espressione “modernità deflessiva”: siamo ancora figlie e figli della modernità, che però è cambiata e ha avuto un effetto boomerang. Il progresso tecnico-scientifico ci aveva promesso nell’Ottocento un sempre maggior controllo del mondo che oggi ci sfugge di mano – ha rilevato Spini –. Un altro processo tipico della modernità occidentale che ha avuto un effetto boomerang è stato il modo di produzione che chiamiamo capitalismo. Tante cose sono cambiate anche in questo contesto. Marx diceva che il capitalismo non può esistere senza lo Stato. Oggi noi non possiamo dire che gli Stati servono a difendere il capitalismo, perché il capitalismo se li mangia».

La politologa si è poi soffermata su come la crisi ambientale metta in discussione due categorie politiche fondamentali: la sovranità e la democrazia. «Nel 1649 con la pace di Westfalia si chiude la guerra dei trent’anni senza un vinto e un vincitore, e inizia la modernità. Si crea un ordine politico della modernità basato sugli Stati territoriali. La sovranità all’interno di questo sistema significa la grande invenzione dello Stato moderno per cui il potere politico è superiore e rivendica superiorità rispetto a possibili rivendicazioni dei poteri religiosi. La sovranità moderna si fonda su obbedienza contro sicurezza. Questo fatto oggi non funziona più. La sovranità moderna è erosa dal di dentro. Nemmeno la Cina che è lo Stato più leviatanico del mondo fa il Leviatano. Il cambiamento climatico non lo ferma nemmeno l’esercito cinese».

Rispetto al concetto di democrazia, Spini ritiene «più complicato capire perché la crisi ambientale mette in discussione la democrazia, perché tutti i processi che chiamiamo globalizzazione mettono in crisi la democrazia. La democrazia moderna è nata dentro il guscio dello Stato nazionale che si chiude all’esterno e si apre all’interno per includere sempre più soggetti. La democrazia moderna ci aveva promesso l’autonomia, la possibilità di controllare il nostro destino, ma la crisi ambientale mette questo profondamente in crisi. Per un tempo le democrazie riuscivano a funzionare perché garantivano dei processi di redistribuzione, riuscivano a negoziare con il capitale e questo è fondamentale. Alcuni storici parlano dei “trent’anni d’oro” tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni Ottanta. Adesso è molto difficile per gli Stati moderni mantenere la promessa di controllare il pericolo. Ulrich Beck ha parlato della “società globale del rischio”. Il nostro tempo non è il tempo dell’invasore ma del rischio che è il di più di imponderabile di azioni intraprese autonomamente. Questo è uno degli aspetti fondamentali dell’antropocene, quanto del nostro agire umano non siamo in grado di prevenire e gestire».

La politologa ha citato ancora Beck nell’affermare che «in questo momento il cosmopolitismo è l’unica forma di realismo politico». La politica non è separabile dalla morale, come diceva Kant. Superare le forme della sicurezza hobbesiana è un imperativo morale. «In questo momento in cui la politica che impatta è quella che ci racconta che la nostra sicurezza è lasciare affogare i migranti nel Mediterraneo – ha concluso – occorre diventare cosmopoliti, se non altro per la nostra sopravvivenza, e spezzare il corto circuito tra pancia e testa che paralizza ogni nostra capacità di agire».

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