
Conflitto israelo-palestinese. Ilan Pappé smaschera il governo
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 39 del 16/11/2024
Il massimo della terra possibile con il minimo di palestinesi possibile», così ha sintetizzato gli obiettivi del governo israeliano Ilan Pappé, presentando a Roma Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina. Dal 1882 a oggi (Fazi ed., 2024). Docente di Storia nell’Istituto di studi arabi e islamici dell’Università di Exeter (GB), Ilan Pappé è oggetto di censura in molti Paesi europei – ultimo incontro annullato il 7 ottobre scorso all’Università di Siena – perché, come altri «nuovi storici israeliani» ebrei, oltre che arabi, ha riscritto la storia della Palestina recente e dello Stato di Israele confutandone con dati precisi, analisi articolate e chiarezza espositiva la versione ufficiale (fondamentale La pulizia etnica della Palestina, 2015), quella che tutti i bambini e le bambine del Paese imparano a scuola e che influenza media, opinione pubblica e anche ambiti accademici in Europa.
Scritto dopo il 7 ottobre per «contestualizzarlo» e per spiegare «quando è cominciato il conflitto», il nuovo libro ripercorre la storia della Palestina dalla fine dell’Impero Ottomano a oggi. A fine Ottocento in quella fascia di terra la popolazione era al 70 percento araba e rivendicava la sua identità culturale attraverso una già significativa élite intellettuale collegata a Damasco e Beirut in modo organico. È un punto cruciale. Non era «una terra senza popolo», che poteva quindi diventare in modo naturale la sede «per un popolo senza terra». Un assunto, questo, su cui il sionismo ha fondato la sua narrazione, interiorizzata fino a oggi non solo in Israele: «I palestinesi non esistono», sintetizzò nel 1972 la potente prima ministra Golda Meir. Una di quelle false verità costruite ad arte che in un altro testo fondante, Dieci miti su Israele (2017), Ilan Pappé stesso aveva già smontato attraverso rigorose analisi storiche. Ampio spazio nel nuovo libro è dedicato all’analisi della genesi e della natura del sionismo, da distinguere dall’ebraismo (altro falso mito la loro coincidenza), arrivato in Palestina con i primi ebrei in fuga dai progrom europei di fine Ottocento. Con dati precisi Ilan Pappé sostiene che la pulizia etnica era insita nel progetto fin dalle origini e comincia già negli anni ‘20, ai tempi quindi del mandato britannico (1922). L’ambiguità della politica inglese favorisce i coloni ebraici cambiando le regole della proprietà dei terreni, dai quali progressivamente vengono cacciati gli “indigeni” o con espropriazioni forzate o attraverso acquisti sostenuti da fondi esteri; aveva cominciato Rockefeller a fine secolo. Il colonialismo che si voleva attuare era infatti un «colonialismo insediativo» (come quello degli Stati Uniti e dell’Australia), che presuppone la sostituzione della civiltà locale con quella dei coloni (gruppi in genere emarginati e oppressi in patria) attraverso la «logica dell’eliminazione». Perché «la terra non è vuota, sono i coloni che la svuotano». E «fino a quando l’eliminazione non sarà totale il progetto coloniale insediativo cercherà sempre di portarla a termine».
Anche il paesaggio deve cambiare radicalmente, in questo caso per perdere il connotato arabo. Un altro “mito” infatti – diffusissimo in Europa – è che gli israeliani «hanno fatto fiorire un deserto»: ricorda Pappé che lo ha ripetuto Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione europea, per il 75° anniversario della fondazione dello Stato di Israele. Bisogna infatti dire che non c’erano insediamenti, perché le persone «sono inconvenienti da rimuovere per accedere alla terra». Accanto alla negazione, la «disumanizzazione dei nativi», descritti come «selvaggi», «primitivi», e soprattutto «nomadi» non attaccati alla terra, quando i loro villaggi erano lì da migliaia di anni. Intanto si pone in atto l’«impoverimento programmato» come elemento strategico centrale.
Anche nelle tappe successive vengono evidenziati elementi lasciati in ombra o mistificati. Dalla rivolta araba del 1936/39, con la brutale repressione inglese, che ricorda le attuali punizioni collettive, ai tentativi diplomatici falliti, alla sempre deludente reazione dei Paesi arabi, alla strutturazione e ufficializzazione, soprattutto dopo la persecuzione nazista, del progetto sionista di una Palestina il più possibile “de-arabizzata”, intrinsecamente incompatibile con qualunque proposta internazionale di pur blanda mediazione. Fino al 1948 e all’insediamento del nuovo Stato sotto la direzione di David Ben Gurion attraverso quella che per l’altra parte fu la Nakba, la catastrofe: distruzione di tutti i centri urbani della Palestina e di cinquecento villaggi, massacri sistematici, anche di donne e bambini, epurazione, espulsione di massa dei palestinesi, la cui popolazione si ridusse della metà.
Tutto questo «sotto gli occhi del mondo»: «Nessuno condannò Israele per palesi crimini contro l’umanità». E poi i campi profughi, primo fra tutti Gaza, e la dispersione in altri Paesi arabi: «La Nakba non fu solo un furto di terre da parte delle forze sioniste, bensì un tentativo di rendere impossibile la ricostruzione di una nazione palestinese».
Ilan Pappé mette poi bene in luce la costruzione di un regime militare all’interno di Israele per i palestinesi, sfatando un altro mito, quello dell’«unica democrazia del Medio Oriente». Poteri di fatto assoluti: le persone potevano – e possono – essere arrestate o espulse senza processo, così come di fatto divenne lecito «aprire il fuoco contro di loro e saccheggiare le loro attività commerciali» e commettere ogni genere di abusi. Un «regime di apartheid», una negazione sistemica di tutti i diritti che il mondo si ostina a non vedere.
Anche nel ripercorre i momenti più recenti – la Guerra dei 6 giorni, Oslo, le due Intifade e il XXI secolo – Pappé smaschera tante letture ufficiali. Come l’atteggiamento di Israele nei confronti di una possibile pace, che in realtà non prevede mai la rinuncia a un potere anche militare di controllo su tutto il territorio. Una Nakba che continua, con migliaia di palestinesi ancora una volta espulsi dalle loro case e terre in Cisgiordania mentre veniva attaccata Gaza. E una lettura durissima dell’oggi: «L’attacco del 7 ottobre viene utilizzato per condurre politiche genocide a Gaza», per cui «non ha senso parlare di pace»: «il vero processo da fare è la decolonizzazione». Che è associata alla «liberazione» e alla «riconciliazione», nell’unica prospettiva possibile, nel tempo, una «soluzione democratica a uno Stato in cui tutti, palestinesi e israeliani, godano di pari diritti e abbiano libertà di movimento in tutta la Palestina storica».
Un libro scritto per chi è interessato alla storia dell’area ma soprattutto perché, scrive Pappé, «mi auguro che conoscere le ingiustizie inflitte ai palestinesi da oltre un secolo induca a essere solidali con la loro lotta e a opporsi all’oppressione ovunque ci si trovi».
*Foto presa da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza
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