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Se questo è un uomo. L’orrore del genocidio palestinese

Se questo è un uomo. L’orrore del genocidio palestinese

Tratto da: Adista Documenti n° 31 del 13/09/2025

DOC-3404. ROMA-ADISTA. Più di 18mila nomi in ordine di età di bambini morti a Gaza, circa mille con meno di un anno, hanno trovato posto sulle pagine del Washington Post alla fine di luglio: quasi un terzo delle oltre 63mila vittime delle bombe e dei proiettili di Tel Aviv. A Bath, in Inghilterra, una lista analoga con i nomi di 15.618 ragazze e ragazzi uccisi da Israele è stata letta in strada senza interruzioni – tra i lettori c’era anche il noto regista Ken Loach – dalle 7 di mattina a mezzanotte. È avvenuto anche in Italia, il 14 agosto, durante una preghiera per la pace guidata dall’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi nei ruderi della chiesa di Santa Maria Assunta a Casaglia, a Marzabotto, uno dei luoghi simboli dell’eccidio del 1944, dove sono stati letti i nomi di circa 12mila bambini da zero a 12 anni a cui è stata tolta la vita dal 7 ottobre 2023 (compresi quelli israeliani uccisi nell’attacco terrorista di Hamas).

Tra le bombe e le morti per fame, il genocidio, tuttavia, non si ferma, mentre è iniziato il piano di Netanyahu per cancellare ogni traccia di vita palestinese da Gaza (e da tutta la Palestina) e reinsediare i suoi abitanti da qualche altra parte, magari in uno dei cinque Paesi con cui Israele ha dichiarato di aver avviato trattative: Indonesia, Somaliland, Uganda, Sud Sudan e Libia. E non solo: contestualmente, è stato anche approvato un nuovo insediamento destinato a tagliare in due la Cisgiordania, così da cancellare, come ha detto il ministro delle finanze Smotrich, «l’illusione di due Stati».

E mentre la Global Sumud Flottiglia, la più grande missione marittima civile mai tentata verso Gaza, ha salpato per rompere l’assedio, sostenuta da centinaia di artisti, associazioni e movimenti («Li tratteremo come terroristi», ha già avvisato il ministro Ben-Gvir), e dal basso, in tutto il mondo, sono innumerevoli le iniziative di solidarietà da un lato e di boicottaggio nei confronti di Israele dall’altro, la comunità internazionale – che pure in passato aveva saputo isolare il Sudafrica dell’Apartheid – continua a non fare niente, al di là di ipocrite condanne (e intanto il governo Usa ha persino deciso di sospendere i visti per le persone, compresi i bambini, provenienti da Gaza).

Nel momento in cui vengono a mancare persino le parole per esprimere tutto l’orrore di fronte a questo nuovo genocidio commesso in diretta mondiale – e commesso proprio dal popolo che aveva subito l’Olocausto –, riportiamo qui alcuni dei documenti apparsi in questo ultimo periodo: l’articolo della direttrice esecutiva di B’Tselem Yuli Novak (uscito su eldiario.es e ripreso da Resumen Latinoamericano il 4 agosto); quello di Jonathan Whittall, direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento delle questioni umanitarie in Palestina (pubblicato da El Salto il 10 agosto e rilanciato il giorno dopo da Ihu Unisinos); quello della giornalista di Gaza Ruwaida Amer (apparso su The Electronic Intifada del 18 agosto) e quello di Lorenzo Guadagnucci, editorialista di Altreconomia (pubblicato da Comune-info il 31 luglio).

Ad aprire la serie però è il testamento spirituale del giornalista Anas al-Sharif, ucciso insieme a cinque colleghi di Al Jazeera in un attacco deliberato da parte di Israele contro una tenda che ospitava i giornalisti fuori dal cancello principale dell’ospedale al-Shifa nella città di Gaza. Un massacro seguito a quello all’ospedale Nasser a Khan Yunis, in cui sono caduti altri cinque giornalisti, per un totale di almeno 245 (ma le cifre variano) reporter e operatori dei media uccisi a Gaza: secondo uno studio della Brown University, un bilancio peggiore di quello della guerra civile americana, della Prima e della Seconda guerra mondiale, della guerra di Corea, della guerra del Vietnam, dei conflitti jugoslavi e della guerra in Afghanistan dopo l’11 settembre messi insieme.

Poco prima della sua morte, Anas al-Sharif aveva scritto su X, alle 21:54 del 10 agosto: «L'occupazione minaccia ora apertamente un'invasione su vasta scala di Gaza. Per 22 mesi, la città ha sanguinato sotto continui bombardamenti da terra, mare e aria. Decine di migliaia di persone sono state uccise e centinaia di migliaia ferite. Se questa follia non si ferma, Gaza sarà ridotta in macerie, le voci della sua gente ridotte al silenzio, i loro volti cancellati. E la storia vi ricorderà come testimoni silenziosi di un genocidio che avete scelto di non impedire. Per favore, condividete questo messaggio e taggate chiunque abbia il potere di contribuire a fermare questo massacro. Il silenzio è complicità».

Ed ecco infine le parole lasciate dalla freelance Mariam Abu Dagga, morta nel raid all’ospedale Nasser, a suo figlio Ghaith, di 12 anni: «Voglio che tu tenga la testa alta, che studi, che tu sia brillante e distinto, e che diventi un uomo che vale, capace di affrontare la vita, amore mio. Non dimenticare che io facevo di tutto per renderti felice, a tuo agio e in pace, e che tutto ciò che ho fatto era per te. Quando crescerai, ti sposerai e avrai una figlia, chiamala Mariam come me». 

*Foto presa da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza 

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