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“Scelta religiosa” e Concilio: il nodo nel rapporto fede-vita

“Scelta religiosa” e Concilio: il nodo nel rapporto fede-vita

Tratto da: Adista Documenti n° 33 del 27/09/2025

Qui l'introduzione a questo testo. 

L’intervento della presidente del Consiglio al Meeting di Rimini ha suscitato una certa discussione, in particolare per la conclusione, che con linguaggio molto netto ha scelto di prender parte nelle storiche discussioni interne all’associazionismo cattolico. Val la pena rileggere le parole usate per i ciellini: «Non vi siete rinchiusi nelle sacrestie nelle quali avrebbero voluto confinarvi, ma vi siete sempre “sporcati le mani”. Declinando nella realtà quella “scelta religiosa” alla quale mezzo secolo fa altri volevano ridurre il mondo cattolico italiano, e che san Giovanni Paolo II ha ribaltato, quando ha descritto la coerenza, nella distinzione degli ambiti, tra fede, cultura e impegno politico». Naturalmente ha un po’ stupito che Meloni si lanciasse su un terreno che non è a lei esattamente consueto. Ci sono ovviamente motivazioni politiche dietro questa uscita, che già altri hanno provato a decodificare. A me interessa qui provare ad andare un po’ oltre, per mettere in luce alcuni profili che mi paiono importanti, al di là di Meloni e del suo parere.

Prendere sul serio il pluralismo tra credenti

Se le parole citate hanno un merito, è quello di permettere a tutti noi che le abbiamo ascoltate di non esorcizzare la questione del pluralismo culturale, teologico e spirituale esistente tra i credenti, cristiani cattolici di questo Paese. Ha ragione la presidente ad alludere a una divergenza reale (vedremo, peraltro, non nei termini in cui lei la pone). Non da ieri si è sviluppata questa condizione esistenziale. Cosa che nelle nostre comunità si fatica purtroppo spesso a considerare, a comprendere, a maneggiare. È piuttosto consueto invece un approccio negazionista, che nel nome di una malintesa “mistica dell’unità” tende a sottovalutare o negare la realtà di approcci diversi alla società e alla politica. Qualcuno li attribuisce semplicemente a debolezze o errori personali, da emendare con approccio penitenziale, superando le differenze con un volontaristico spirito di comunione. Qualcuno teorizza apertamente che è bene non parlarne, perché altrimenti le comunità cristiane concrete rischiano di dividersi. La penso esattamente al contrario: la comunione, che è dono dello Spirito e risultato finale di processi di parresia e rispetto, implica come primo passo accettare, riconoscere, rileggere, approfondire le diversità, per costruire su di esse percorsi di possibile incontro a un livello superiore di consapevolezza.

Non basta una presunta unità sui “valori” (tutti non negoziabili)

Uno dei modi in cui in questi anni si è provato ad affrontare il problema è stato quello di sostenere che al di là di ogni divergenza, i cattolici tutti dovrebbero condividere un manipolo di “valori non negoziabili” (gli elenchi sono infiniti: particolarmente autorevole quello offerto dalla «Nota dottrinale» del 24 novembre 2002 della Congregazione per la dottrina della fede). Tra tali valori non si dovrebbe mai “introdurre indebite selezioni”. Questo livello di unità più profondo ridimensionerebbe il pluralismo. Detto in termini un po’ sbrigativi: non si potrebbe difendere il valore della vita senza quello dell’accoglienza e della uguaglianza tra gli esseri umani, oppure quello della solidarietà sociale dimenticando la centralità della famiglia. “Cattolici della morale” e “cattolici del sociale” – per usare etichette convenzionali spesso usate polemicamente – sbaglierebbero entrambi, in quanto appunto cadrebbero in preda di posizioni unilaterali. Se questo discorso ha il merito di riaffermare alcuni appigli assoluti nella vita cristiana, è del tutto evidente che non è risolutivo dal punto di vista storico e politico, in quanto il problema della politica non è mai affermare un valore assoluto, ma dimostrare quale sia la sua massima concretizzazione possibile nella complessità della storia. Mostrare insomma come la convivenza umana si possa avvicinare al valore (mai esaurendolo del tutto, ovviamente: la verità assoluta non è di questo mondo). In questo percorso è inevitabile che i valori si misurino con le mediazioni istituzionali (intendi le leggi e i provvedimenti specifici) e le mediazioni politiche (frutto del necessario confronto democratico con altri soggetti), ambedue necessarie a produrre efficacia dell’appello ai valori. Sembra evidente quindi che le scelte reali assumano volti meno rigidi e schematici rispetto all’elenco di valori letto nella sua generalità, facendo venire in primo piano aspetti congetturali, ipotesi da verificare, analisi della realtà magari contingenti. Per cui nel processo di concretizzazione politica dei valori il pluralismo riemerge ineluttabilmente. A meno che ci si accontenti, un po’ furbescamente, di semplici appelli di principio, di frasi fatte indicanti un’esigenza (vero è che i politici oggi ci hanno abituato a queste dichiarazioni identitarie, ma messi alle strette dovrebbero poi ammettere che esse non bastano).

Al di sotto delle diverse priorità politiche ci sono visioni teologiche e modi di vivere la fede

Diciamo ancora di più: il modo in cui ciascun credente o ciascun gruppo di credenti media nella storia l’assolutezza dei valori non dipende solo da preferenze personali, opzioni soggettive, oppure da giudizi storici contingenti. Ha dentro sempre, in forma più o meno esplicita, una diversità che ha a che fare con il suo proprio modo di intendere e di esprimere la fede: riguarda le questioni della testimonianza e della sensibilità sulle materie in cui è gioco l’appello assoluto del Regno, su dove e come risuona nella vita degli esseri umani il messaggio evangelico. Ragione per cui è ancora più delicato e più necessario un lavoro di discernimento e di confronto sulle modalità in cui ciascuno vive le sue coerenze tra fede e scelte storiche contingenti. Rassicuriamo Giorgia Meloni: non c’è stato bisogno di Giovanni Paolo II per arrivare a capire la necessità della «coerenza, nella distinzione degli ambiti, tra fede, cultura e impegno politico». La scelta religiosa partiva esattamente da questa coerenza, sollecitata da Paolo VI come dai nostri grandi maestri, da Lazzati in giù. Il problema è che condividendo formalmente le stesse premesse, non sempre si arriva alle stesse conclusioni, anche perché proprio nel modo di vivere le premesse ci sono accentuazioni e sensibilità diverse. Che qualcuno dei cattolici italiani sia finito storicamente nel centro-sinistra o nel centro-destra non è insomma solo una banale questione politica, ma frutto di un percorso in cui c’è in gioco molto di più profondo.

La questione vera è stata la divisione sull’attuazione del Vaticano II

Se vogliamo allora – con queste attenzioni di metodo – risalire alle origini delle spaccature cui ha alluso Meloni, diciamo che ormai una prospettiva più che cinquantennale ci permette di leggere storicamente i passaggi più importanti con una certa serenità. Potremmo dire, in sintesi, che la questione vera che si è aperta nella Chiesa italiana tra anni ’70 e ’80 è stata la scelta sul modo di attuare il Concilio. Non è stata una divisione tra Cl e Ac: è stata una divergenza che ha interessato l’episcopato, la cultura, la teologia, la Chiesa tutta. Per dirla sinteticamente, il punto cruciale era come sviluppare le riflessioni del Concilio sul rapporto con il mondo moderno, che chiudevano ineluttabilmente la stagione dell’intransigente ripulsa della modernità, intesa come una sequela di errori. Qualcuno ha pensato che, non dovendo più ribaltare il percorso della modernità, si poteva immaginare di rafforzare nel clima delle libertà moderne un “soggetto popolare” cristiano, una realtà sociale organizzata (con riflessi anche politici), che tenesse vivo un riferimento alla tradizione e un’alterità complessiva nel confronto-scontro con altre culture e sensibilità. Dove la priorità della visibilità sociale sfociava poi in una disponibilità non tanto a dialogare, ma ad allearsi tatticamente con correnti politiche liberali e conservatrici, purché non ostili all’identità cristiana. I sostenitori della scelta religiosa si convinsero invece che fosse necessario prendere più sul serio il soggettivismo moderno, e che la vera questione per la «nuova evangelizzazione» fosse raggiungere le coscienze in termini più personali e capillari, distinguendo più nettamente tra il messaggio evangelico e le forme dell’aggregazione umana degli stessi credenti. Rivalutando anch’essi l’importanza della vita sociale e politica (altro che “chiudersi nelle sacrestie”…), ma non letta come terreno di scontro tra visioni culturalmente organizzate e contrapposte. Quanto invece come luogo della testimonianza del credente (singolo o in gruppo) al servizio della comune umanità, e leggendo questa testimonianza come spinta a creare livelli più alti di solidarietà, giustizia e pace. Incontrandosi in questo dialogicamente con altre culture e approcci al mondo, con cui si sperimentavano nuove forme di intesa possibile.

Si potrebbe discutere della fecondità rispettiva di questi due diversi filoni culturali

Fare un bilancio degli esiti di queste diverse prospettive non è impossibile (anche se esula dallo spazio di questo breve intervento): anzi, la ricerca storica sta pian piano accumulando materiali in questo senso. Ognuna delle due prospettive ha avuto successi e limiti, dal proprio punto di vista. Diciamo però che bisogna essere onesti, nel riconoscere che rispetto alle premesse del periodo in cui esisteva ancora un partito di ispirazione cristiana e un “mondo cattolico” socialmente organizzato, di acqua sotto i ponti ne è passata molta. Per dirne una: le forme del “cattolicesimo politico”, cioè la creazione di formazioni partitiche con un esplicito riferimento religioso nella loro qualificazione cultural-politica, sono andate sparendo anche tra i sostenitori dell’“identità cattolica”, guarda caso. Come dire che la storia a volte supera l’ideologia e che non ha senso oggi ribadire le stesse cose che si sostenevano trent’anni or sono. Per dirne un’altra: il confronto tra diverse prospettive non è stato solo un libero competere tra associazioni e gruppi di credenti, tra intellettuali e operatori sociali e politici, ma è stato condizionato dalle scelte istituzionali dei vertici religiosi, che hanno via via modificato le loro posizioni: dal sostegno della Cei tra ’70 e ’80 alla prospettiva della “scelta religiosa” si è passati per vent’anni alla più netta ostilità nei suoi confronti. Quando si parla di bilanci è bene considerare anche questi aspetti, con le loro pesanti conseguenze. Occorre infine una prospettiva nuova per ragionare di influenza sociale e politica dei credenti Siccome però le ragioni di queste divergenze sono ancora sul terreno, è del tutto evidente ai miei occhi che si possa impostare un ragionamento sul futuro solo partendo da qui. Cioè: non ha senso recriminare genericamente per l’attuale riduzione dell’influenza dei cattolici nella società e nella politica, o attaccarsi reciprocamente per i limiti e le debolezze degli altri.

Occorre riprendere in mano il problema dalle fondamenta.

Cioè mettere al centro la questione della presenza del cristianesimo e della Chiesa in Italia, tra secolarizzazione imperante ed effetti della cultura ambiente e dei cambiamenti di mentalità sugli stessi credenti. La vera domanda non è se e quanto i cattolici ci siano in politica: è se complessivamente la Chiesa e i credenti si fanno ancora interrogare dal Vangelo (quando esprimono le loro scelte) e se sono una realtà che è capace di porre segni di contraddizione nel cuore della vita delle persone in età secolarizzata. Cioè, appunto, occorre tornare al grande dibattito sull’attuazione del Concilio. Abbiamo comunità che vivano in termini di comunione e di mistero la loro appartenenza cristiana? Abbiamo credenti che sappiano interloquire con le coscienze delle loro sorelle e dei loro fratelli? Che sappiano comprendere i cambiamenti della mentalità collettiva? Abbiamo luoghi di elaborazione e di dialogo aperto e sincero in cui mettere a fuoco la lettura della realtà e le implicazioni della fede, senza spaventarci del pluralismo? Abbiamo una matura “opinione pubblica” nella Chiesa, che sappia considerare le scelte personali di ogni credente alla luce delle esigenze essenziali della testimonianza cristiana?

Se da qui partiamo, poi si possono porre tutti i problemi conseguenti: come incarnare il Vangelo nelle culture oggi dominanti, come riconoscere e valorizzare la ricerca spirituale dei giovani d’oggi, come analizzare la società e la comunicazione per inserivi germi di cambiamento, e come – anche e certo non da ultimo – esprimere in termini strettamente politici la fecondità eventuale della fede vissuta. Superando le questioni stantie di un tempo ormai passato e andando ai nodi essenziali.

*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza 

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