
Le “conversioni” dell’uomo di Nazareth: l’indagine su Gesù di Gilberto Squizzato
Tratto da: Adista Documenti n° 33 del 27/09/2025
DOC-3408. SAN PIETRO IN CARIANO (VR)-ADISTA. È una straordinaria, imprescindibile lettura postteista quella che il giornalista, regista e “teologo di frontiera” Gilberto Squizzato ci propone della vicenda di Gesù nel suo ultimo libro, edito da Gabrielli, dal titolo – già molto esplicito – Il sovversivo di Nazareth: più di 400 pagine che catturano come un romanzo, nella prosa elegante e avvincente che caratterizza le opere dell’autore, offrendo al tempo stesso un’indagine storica puntuale e rigorosa e un’interpretazione coraggiosamente alternativa a quella tradizionale, moralistica, disincarnata, edulcorata, traboccante di buoni sentimenti. Attingendo alle acquisizioni delle più diverse scienze – bibliche, storiche, archeologiche e filologiche, ma anche antropologiche e psicanalitiche – Squizzato si avvicina alla figura dell’uomo di Nazareth ricostruendo la turbolenta storia collettiva del popolo d’Israele, con le sue certezze, le sue speranze, le sue sconfitte: quella da cui sarebbe emerso l'umile operaio di uno sperduto villaggio della Galilea capace di mettere in discussione il potere di un re fantoccio (Erode Antipa) servo dell’imperatore di Roma, di una casta sacerdotale ebraica disposta a ogni compromesso pur di conservare i propri privilegi e di una classe aristocratica esclusivamente impegnata a difendere le proprie ricchezze. Una necessità irrinunciabile quella di un’accurata descrizione del quadro politico, economico e sociale di Israele, di fronte all’impossibilità, evidenziata dall’autore, di comprendere azioni e parole di Gesù al di fuori del loro contesto, facendo «letteralmente a pezzi i testi dei vangeli, per commentarne di volta in volta qualche versetto estrapolato qua e là».
La rottura con il Battista
Lo vediamo muoversi, il rabbì di Nazareth, con la sua banda di rivoltosi fuorilegge, su strade piene «di miserabili che chiedono l’elemosina per sé e per le famiglie, di braccianti a giornata senza prospettive di futuro, di malati e invalidi che hanno perso tutto, di donne vedove o ripudiate che si danno alla prostituzione». Ed è a favore di questo popolo umiliato, ferito e dolente che, distanziandosi da Giovanni Battista e dal suo Dio dell’ira e del castigo, si sente chiamato ad annunciare una «cosa nuova e gioiosa» , non predicando «il rigore della rinuncia ascetica, ma il pieno appagamento delle gioie concrete della vita quotidiana»: quel regno di Dio che «guarirà il dolore delle persone, ridarà loro la dignità perduta, ristabilirà l’armonia sociale oggi lacerata dalla protervia egoista dei ricchi e dei potenti». Una rottura, quella con il Battista – un nazionalista identitario e integralista, un «avversario irriducibile della globalizzazione ellenistica che vuole difendere l’identità ebraica contro le contaminazioni portate dagli stranieri» -, su cui Squizzato pone con forza l’accento, evidenziando come sia proprio sulle rive del Giordano, dove era andato a farsi battezzare, che Gesù comprende l’urgenza di distanziarsi dalla religione identitaria di Giovanni, assumendo non la difesa della nazione ebraica ma quella delle classi subalterne che subiscono ingiustizia e violenza.
È tuttavia un Gesù «sfuggente» quello a cui si accosta l’autore. Perché quello che i vangeli descrivono «in termini grandiosi e a volte trionfali» è il Gesù della fede di coloro che hanno deciso di credere in lui, riconoscendolo, «dopo la croce e dopo mesi (se non dopo anni) di travagliata riflessione alla luce delle Scritture», come il Messia atteso da Israele. Di modo che, per avvicinarsi quanto più possibile al Gesù storico, non rimane che «mettere fra parentesi tutti i riconoscimenti postumi del suo ruolo messianico», tutti gli aggiustamenti “a posteriori” operati dai suoi seguaci.
Una radicale rivoluzione antropologica
Ed è con la profonda consapevolezza «del confine insuperabile della nostra limitatissima, e in gran parte solo indiziaria, conoscenza sul Gesù storico, reale, concreto» che Squizzato ci offre un tentativo convincente di ricostruire il cammino di lunga, laboriosa e a tratti tormentata «conversione non solo religiosa» percorso da Gesù. Solo in questo quadro diventa comprensibile la sua proposta di una «radicale rivoluzione antropologica», un vero cambio di paradigma, da cui doveva derivare (secondo le sue intenzioni) anche un nuovo assetto economico, sociale e politico della Palestina del suo tempo: tutt’altro che un astratto insegnamento etico ma parola che «diventa azione, si incarna nella realtà concreta delle situazioni che attraversa, provoca trasformazioni profonde in chi lo incontra», causando scandalo e costringendo il rabbì di Nazareth «alla condizione di clandestino sempre in fuga» insieme a quel manipolo di sovversivi galilei provenienti da Cafarnao e Bethsaida che hanno riconosciuto in lui il carisma del liberatore e lo hanno costituito come loro capo.
In questo sforzo tutt’altro che semplice di ricostruzione della realtà storica, l’autore lascia inevitabilmente aperte – pur offrendo sempre preziosi spunti di riflessione – molte domande, compresa quella relativa alla natura pacifica o meno del movimento dei gesuani, che, con l’obiettivo di realizzare il «programma totalmente eversivo delle Beatitudini», potrebbe aver avuto anche i tratti di un progetto di insurrezione popolare. Il condizionale è d’obbligo, perché, come ammette Squizzato, «le pezze di appoggio non sono né molte né esplicite», anche se appare evidente che almeno la metà dei dodici discepoli sia costituita da «figure molto politicizzate», alcune delle quali provviste di armi e «addirittura appartenenti o simpatizzanti del movimento nazionalistico degli zeloti». Ma comunque siano andate le cose, l’interpretazione di Gesù e del suo movimento che per quasi due millenni «ne ha spiritualizzato la missione e così neutralizzato i suoi tratti potenzialmente eversivi», trasferendo il Regno di Dio dalla realtà storica a una dimensione metafisica, deve lasciare spazio a una lettura che guarda al rabbì di Nazareth come a un uomo «convinto della necessità di un’azione politica concreta (e con tutta probabilità non disarmata) per dare il via all’instaurazione del regno di Dio» (senza con ciò escludere «che Gesù abbia potuto promettere “la vita eterna”»).
C’è tuttavia un ultimo passaggio da evidenziare – il punto più alto e toccante del libro di Squizzato –, quello di una nuova conversione proprio negli istanti finali dell’agonia, nella sua accettazione della sconfitta e del fallimento: è allora che «Gesù compie la propria metànoia definitiva, è adesso che conosce e accetta l’insensatezza di ciò che gli sta accadendo ma al tempo stesso consegna se stesso a questo Assurdo che lo annienta», lasciandosi scivolare in questo abisso con un’ultima professione di obbedienza al Mistero che ha tradito i suoi piani, restituendo «l’ultima cosa che gli resta, l’ultimo fiato, senza abiurare alla promessa di quella “cosa nuova” che l’ha trascinato sul legno della croce».
È a questo punto che, in un’ottica post-teista (sebbene l’autore non usi mai il termine), ci si può mettere «in rispettoso silenzio del Mistero» tentando di «conferire un significato credibile alla divinità dell’uomo di Nazareth»: se “Dio” non è il nome del divino, ma «una semplice e umile metafora che vuole alludere a un’esperienza di luce» (dalla radice verbale della lingua sanscrita “dv”), non può esserci «alcuna difficoltà a riconoscere che anche per noi l’incontro con il sovversivo di Nazareth è stato illuminante», mostrando «cosa può essere davvero il vivere nella luce».
Di seguito, per gentile concessione della casa editrice, alcuni stralci tratti dai capitoli 21-23.
*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza
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